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Articoli filtrati per data: Sabato, 03 Marzo 2018
Sabato, 03 Marzo 2018 15:18

LA VALLE DEL CAMARO

- di Maria Portovenero -  

La valle del Camaro ha assunto connotazioni specifiche nel corso dei secoli a causa, principalmente, della sua prossimità con il centro cittadino di cui rappresentava l’ideale demarcazione del confine meridionale. Per la stessa motivazione, pertanto, la valle era destinata ad essere totalmente assorbita dalla città. Le tradizioni religiose e le leggende legate alla storia di Messina testimoniano l’esistenza di questo stretto rapporto e non a caso i mitici fondatori della città provengono da Camaro. La storia della valle in età classica non è sufficientemente documentata anche se certamente Greci e Romani passarono per questi luoghi come testimoniano alcuni importanti ritrovamenti archeologici.

Per quanto concerne il toponimo Camaro, sono varie le ipotesi avanzate. Il termine potrebbe derivare dal greco “Kamar”, casa dei morti, a testimoniare la presenza di una vasta necropoli classica sviluppatasi lungo tutta la via Santa Marta e da piazza del Popolo fino al viadotto ferroviario.

In origine le acque del torrente, prive di un letto naturale ben definito, si diramavano lungo tre direzioni principali e scorrevano copiose per tutta l’ampia pianura alluvionale fino al porto. Un primo tracciato del percorso del Camaro era quello costituito dall’attuale via Santa Marta e questo percorso ha segnato, fin dalle origine, i confini dell’abitato. Altre due diramazioni erano quelle che percorrevano l’odierna Via Santa Cecilia e il Viale Europa. La portata delle acque già abbondanti, era ulteriormente ingrossata dagli innesti di diversi affluenti come il Catarratti e questo rendeva l’intera valle estremamente ostile a qualsiasi insediamento abitativo. Nel corso del Cinquecento, in seguito al progressivo disboscamento dei monti Peloritani e alla deviazione delle acque sorgive verso l’acquedotto civico realizzato da Francesco La Cameola (1530/1547), si rendono possibili le primi edificazioni lungo il tratto iniziale del Dromo Grande. E’ a questa stessa epoca che risalgono anche tracce di insediamento negli attuali villaggi di Camaro Superiore e Catarratti mentre nei secoli successivi, tra Settecento e Ottocento, ville rustiche e abitazioni sorgono lungo le rive del torrente. La valle, infatti, in questo periodo assume una connotazione prevalentemente agricola con oliveti, vigneti e agrumeti sistemati sul declivio delle colline e di proprietà di nobili famiglie messinesi. Il disboscamento della cosiddetta “foresta di Camaro” fu il principale responsabile delle continue alluvioni che interessarono la zona lungo tutto il corso del secolo. La foresta era di proprietà dei Padri Basiliani del SS. Salvatore dei Greci che affittarono i vasti territori boschivi a pastori e allevatori di bestiame. In seguito alla sistemazione del bacino alluvionale e al ripristino del patrimonio edilizio della valle attraverso la costruzione di potenti argini agli alvei fluviali, fu possibile contenere gli effetti disastrosi delle alluvioni e ridare nuovo slancio a questi territori. Il rimboschimento divenne obbligatorio per legge nel 1874 e, nonostante i lavori fossero stati condotti in maniera discontinua, diedero risultati soddisfacenti in tempi brevi. Fin dalle sue origini il casale di Camaro fu autonomo e solo dopo l’unità d’Italia iniziò una reale integrazione con la città anche in seguito alla costruzione del viadotto ferroviario.

Nella valle esistevano già cave di calcare che furono ampiamente sfruttate durante i lavori per la rete ferrata. La costruzione dell’imponente viadotto e di una stazione ferroviaria allo sbocco della galleria dei Peloritani, determinò un mutamento notevole degli assetti territoriali a causa anche dell’apertura di una enorme cava di pietrame a monte di contrada Luce.

Durante questi lavori, all’interno delle proprietà della famiglia Bucca, furono rinvenuti numerosi reperti a testimonianza della presenza di importanti sepolcreti che si estendevano lungo tutto il viadotto. Tali resti, purtroppo, andarono dispersi in seguito al disastroso terremoto del 1908. L’unica testimonianza probabilmente imputabile a tale contesto, potrebbe essere il rilievo su calcare bianco raffigurante tre figure femminili di tipo matronale coronate, viste di prospetto. La sua datazione risale probabilmente al quinto secolo avanti Cristo e il reperto sarebbe connesso ad un luogo di culto dedicato a Demetra e Persefone. E’ possibile, oggi, ammirare il rilievo all’interno del Museo Archeologico di Siracusa.

Il terremoto del 1908 contribuì a modificare ulteriormente il paesaggio urbanistico della valle. La popolazione, infatti, aumentò notevolmente a causa della presenza degli sfollati provenienti dalla città che trovarono sistemazione in vasti baraccamenti nelle zone limitrofe, alcuni dei quali ancora presenti.

Lungo il torrente sorgono anche le case del rione Casalotto di Camaro: si tratta di costruzioni risalenti al tardo Ottocento e successive alle alluvioni che hanno radicalmente modificato l’assetto paesaggistico. Sulla sponda Sud sorge Villa Loffredo, dimora patrizia del tardo Ottocento: sul muro di cinta sono conservati i resti di una fontana datata 1862 e ornata da due stemmi civici e da uno stemma gentilizio.

Sulla collina Pietrazza che domina la valle sorge il forte omonimo di età umbertina, struttura essenziale e priva di molti dei connotati che caratterizzano altri forti presenti sul territorio messinese e risalenti allo stesso periodo.

Il villaggio di Camaro Superiore si sviluppa lungo un impianto a semicerchio. Le contrade intorno al casale (Faraone, Luce, S. Nicola) conservano interessanti edifici settecenteschi. Prima di giungere alla piazza del villaggio, si incontra la moderna icona della Madonna della Lettera costruita al posto di un’edicola del 1906 e al cui interno è conservata la vecchia statua policroma della Madonna della Lettera del 1941. Nel cuore dell’abitato sorge la chiesetta di S.Maria delle Grazie e di S. Giovanni Battista risalente al 1877: il semplice prospetto sormontato dal campanile a vela, è ispirato all’ecletticismo neorinascimentale corrente all’epoca. L’interno a navata rettangolare conserva una pittoresca raccolta di statue policrome, stampe e cromolitografie ottocentesche di notevole interesse etnografico.

Risalendo per via Chiesa Vecchia si notano i pochi ruderi supertisti dell’antica chiesa parrocchiale di S. Giacomo: è riconoscibile il presbiterio con una cornice e tracce di stucchi. L’attuale chiesa, invece, fu costruita intorno al 1930. Appartenevano alla chiesa vecchia con certezza gli altari settecenteschi in marmi policromi intarsiati di S. Giacomo e S. Giuseppe; incerta è invece la provenienza dell’acquasantiera cinquecentesca, di alcuni paliotti intarsiati e degli stessi marmi del grandioso altare maggiore che sembra presentare integrazioni e restauri. La maggiore opera d’arte del tempio è la celebre tavola di S. Giacomo di Polidoro Caldara da Caravaggio. Altro pregevole dipinto è la Consegna delle chiavi a S. Pietro, opera di scuola polidoresca. Appartenevano con ogni probabilità alla vecchia chiesa altri dipinti: le Stimmate di S. Francesco, opera cinquecentesca; una settecentesca Madonna del Rosario con quindici quadretti raffiguranti i misteri del Rosario; una Madonna della Lettera con un santo vescovo, forse S.Nicola, sempre di ignoto settecentesco. Appartiene quasi certamente al patrimonio originale un curioso quadro del 1841, di fattura popolare raffigurante un evento miracoloso avvenuto in occasione di un tentativo di sottrarre la preziosa vara argentea di S. Giacomo. Nel dipinto è raffigurato un panorama della valle con gli argini del torrente, la chiesa di Camaro e il forte Gonzaga e questo ci permette di avere una raffigurazione pressoché fedele del paesaggio dell’epoca.

Di grande pregio risulta la vara argentea di S. Giacomo che è stata sottoposta a restauri nel 1890 e nel 1966. Fu commissionata nel 1666 a Pietro Iuvarra i cui marchi si leggono sul basamento dell’opera mentre la statua è opera di Francesco Donia. Altro prezioso argento custodito all’interno della chiesa è un reliquiario datato 1837 di fattezze settecentesche con qualche inserto neoclassico.

A valle del casale, in contrada Faraone, si trova un grande fabbricato rustico noto come “la fabbrica dell’aceto” . Intorno all’ex casa Ruffo, è possibile ammirare alcuni elementi settecenteschi di pregio mentre nel giardino antistante è collocata una fontana costruita da Antonio Spadafora e Ruffo nel 1722 con un mascherone grottesco. Poco distante è visibile un’icona settecentesca probabilmente raffigurante S. Giacomo o S. Nicola .

Superata la piazzetta di Camaro si attraversa contrada Luce. Qui è possibile ammirare una fontana rinascimentale, Fontana Grande, con un mascherone ormai molto usurato dal tempo mentre sulla sponda del torrente è visibile una icona della Madonna Incoronata col Bambino su tavoletta di marmo. Contrada Luce costituisce la parte più tradizionale dell’abitato. Il territorio è caratterizzato dalla presenza della chiesa di S. Maria della Luce con porta settecentesca. Il suo impianto è probabilmente medievale anche se non si esclude che le sua attuale struttura sia di impronta seicentesca. E’ evidente l’analogia tra la chiesa e i monasteri basiliani che erano tradizionalmente collocati a monte dei torrenti per poter dominare e, di conseguenza, controllare l’intera valle come nel caso di Mili e S. Filippo.

Risalendo la valle del torrente si giunge al santuario della Madonnuzza dedicato all’Addolorata ed edificato nel 1911 su terreno donato dalla famiglia Stagno D’Alcontres.

Bibliografia

Basile F., Lineamenti della storia artistica di Messina: la città dell’Ottocento, Messina 1980.

Chillemi F., I casali di Messina, strutture urbane e patrimonio artistico, Messina 1995.

Consoli G., Opere d’arte restaurate (1965/69), Messina 1970.

Pubblicato in Comunicati stampa




Domani, Domenica 4 Marzo, alle ore 10.00 nella Chiesa della SS. Annunziata dei Catalani verrà celebrata, come ogni prima domenica del mese, la Santa Messa ed a seguire l'Assemblea Ordinaria Annuale dei Confrati e delle Consorelle per l'approvazione dei bilanci consuntivi e preventivi e relazione del Governatore.



Il Governatore
Dott. Marco Grassi 

Pubblicato in Comunicati stampa

- di Marcello Crinò - 

L’antichissima chiesa della Visitazione di Centineo, demolita e ricostruita ex novo negli anni ‘50 del XX secolo, risaliva probabilmente al VII secolo, ma un grosso rifacimento fu attuato, secondo alcune fonti, nel 1399. Probabilmente a quell’epoca apparteneva l’abside, realizzata a rifasci con blocchi di pietra nera alternati a blocchi chiari, con in alto una finestrella con arco gotico, che oggi conosciamo attraverso una rarissima foto scattata poco prima della demolizione, e tramite la testimonianza di Vito Amico: “antichissimo edifizio di greco stile di nere pietre” (Amico Vito, Dizionario Topografico della Sicilia, traduzione e note di G. Di Marzo, Palermo, 1855).

1 Pianta Chiesa antica di Centineo

La chiesa originaria era a pianta quadrata con tre absidi rivolte ad oriente; le due più piccole erano certamente incassate nella muratura. La pianta inizialmente quadrata della chiesa si desume dalla planimetria riportata sulle mappe catastali prima della sciagurata demolizione. Analizzandola attentamente e confrontandola con altri edifici tipologicamente e cronologicamente vicini, e con le notizie storiche, abbiamo potuto verificare le fasi di accrescimento dell’edificio con un certo margine d’errore. Tutte le chiese di rito greco erano provviste di tre absidi, una più grande, e due più piccole laterali, chiamate l’una “prothesis” (protesi, dove si deponevano le offerte dei fedeli e si preparava e veniva esposta l’ostia consacrata, posta a destra dell’abside principale) e l’altra “diakonikos” (diaconico, dove si conservavano gli arredi sacri e si rivestivano i diaconi officianti, posta a sinistra dell’abside principale). Entrambe le absidi laterali vengono anche chiamate “pastoforia”.

Il nucleo iniziale quadrato del VII secolo fu ampliato nel 1606 verso ovest per “latinizzare” l’edificio e aumentarne la capienza. Accanto, sul lato nord, fu costruito un altro corpo, probabilmente la sagrestia, e trovò posto, come riferisce padre Carmelo Biondo (Chiese di Barcellona Pozzo di Gotto, 1986), anche un piccolo cimitero secondo l’usanza delle chiese paleocristiane, unico esempio di questo tipo in tutto il territorio barcellonese.

2 CHIESA CENTINEO ABSIDE

 

La copertura dell’ampliamento seicentesco era realizzata con un tetto in legno a due falde con tegole. Non sappiamo se sulla parte più antica vi fossero delle cupole, in quanto nessun storico ne fa cenno.

Nel mese di novembre del 1989, durante alcuni lavori di completamento della pavimentazione esterna accanto la nuova chiesa, affiorarono casualmente i resti delle fondazioni dell’abside della vecchia chiesa, assieme ad ossa umane di persone sepolte nella cripta. La Soprintendenza ai Beni culturali di Messina, informata del ritrovamento dal parroco padre Mariano La Rosa, inviò i propri tecnici che nel corso di un sopralluogo effettuato il 12 gennaio 1990 reputarono interessanti i resti ritrovati, che alla fine furono nuovamente interrati.

Nella nuova chiesa sono state ricollocate le opere d’arte contenute in quella demolita: la tempera su tavola raffigurante La Visitazione, realizzata nel XVI secolo da un autore ignoto, posta sull’altare maggiore; la Madonna dell’Itria, opera di Giandomenico Quagliata del 1667, e dello stesso periodo la Madonna del Rosario di autore ignoto. Si conserva pure un dipinto su tavola raffigurante San Francesco di Paola attribuito a Giovan Domenico Quagliata (XVI-XVII secolo).

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