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Ancora parecchi   secoli dopo, malgrado le tante disgrazie, spoliazioní e trasformazioni   avvenute, la città risulta dotata di una miriade di sedi consolari delle più   lontane nazioni, proprio a conferma della rete capillare di rapporti   commerciali intessutì dagli imprenditori locali con mercanti di ogni parte   dei mondo.
 
  Nella seconda metà dei cìnquecento va ricordato un episodio determinante e   significativo nella storia del porto e della città. Nell'estate dei 1571   oltre trecento navi provenienti da varie parti d'Italia e d'Europa si   concentrano nel porto dì Messina. E la “Lega Santa" voluta   da papa Pio V, che al comando di Don Giovanní d'Austria il 16   settembre lascia il porto per poi ìncontrarsi con la flotta turca nelle acque   di Lepanto Il 2 novembre ciò che resta della flotta cristìana viene accolto   trionfalmente dai messinesi che, solo un anno dopo, inaugurano l’elegante   monumento al figlio naturale di Carlo V.
 
  La battaglia di Lepanto sarà seguita da altri episodi di guerra che   progressìvamente libereranno il passaggio nel Canale di Sicilia dai rischi   che fino ad allora avevano reso pressoché impraticabile quella rotta a tutto   vantaggio dello scalo peloritano.
 
  Paradossalmente, dalla grande vittoria inizia il lento ma progressivo declino   dei nostro porto.
  Nel XIII secolo prosegue la crisi provocata dall'apertura delle nuove rotte   transoceanìche che rivoluzionano le regole dei mercato.
  Messina si interroga sui motivi della crisi e trova una spiegazione nella   mancata attuazione dei suoi antichi privilegi, con H conseguente movimento di   rivolta nei confronti della Spagna e del suo sovrano Carlo V le complicate   vicende della rívolta antispagnola, inserita nel più vasto ambito della   guerra tra Spagna e Francia per il dominio dei traffici nel Mediterraneo,   lacereranno la società messinese divisa nelle due fazioni di   "Merli" e ""Malvizzi".
 
  Alla fine della rivolta la sconfitta è Messina, per quattro lunghi anni   impegnata in una vera guerra civile che certamente non contribuì a   risollevarne l'economia.
  Già nel 1695, al dì là della conclamata repressione spagnola, il governo dì   Madrid reintroduce il privìlegìo del Porto Franco, concede poco dopo   l'indulto ai messinesi "ribelli" fuggiti in Francia, revoca in gran   parte la confisca dei beni.
  
  L'economia accenna a ripartire quando nel 1743 una nave giunta da oriente nel   porto dì Messina diffonde la peste. La popolazione viene ridotta   radicalmente. Quando l'epidemia cessa, circoscritta con cordoni sanitari che   la isolavano resto del mondo, la città è stremata.
  Questa volta ì Borboni ed il Governatore Eustachio Lafeìuvìlle ampliano il   porto Franco ed agevolano l'economia locale, ma nel 1783 sopraggiunge un   terremoto che colpisce soprattutto le cìttà della Calabrìa provocando gravi   dannì a Messina, con il crollo dì buona parte della Palazzata che cingeva il   porto.
  Anche in questo caso il governo Borbonico nella persona di Ferdinando IV   interviene prontamente in soccorso della sfortunata Messina. Tra l'altro uno   specifico decreto reale introduce nuove vantaggiose agevolazioni a quegli   imprenditori che "da ogni parte d'Europa e d'ogni religione"   sono sollecitati a trasferire a Messina le loro attività economiche.
 
  Dal libro "Il Porto di Messina dagli argomenti ai croceristi"   di Franz Riccobono edito da Skriba
  "Si ringrazia Franz Riccobono e l’editore per l’autorizzazione"

La falce eviratrice   cadendo dal cielo sulla terra, secondo la mitologia, dà luogo allo   straordinario porto di Messina. Origine fatale le cui conseguenze segnano la   storia della città e del suo porto. Cronos, dio del tempo infinito,   usurpa il potere al proprio padre Urano evirandolo e, temendo che   altrettanto possano fare a loro volta i figli da lui generati, non esita ad   eliminarli divorandoli.

Destino altrettanto   crudele pare sia riservato alla città nata attorno alla falce parricida,   città creata da Cronos e da questo, di tempo in tempo, fagocitata per sempre   rinascere contro l'ineluttabile primordiale vaticinio. Ogni tipo di avversità   nella sua storia plurimillenaria si è abbattuto sull'abitato attorno al porto   falcato, la cieca falce ha mietuto quanto vedeva ma, ciò malgrado, la vita è   tornata ognora a rifiorire.

Paradossalmente il   mito delle origini ripetuto nell'arco dei secoli, quasi come un ritmo   ancestrale, incalzante, pare voglia segnare la vita della città dello   Stretto. Luogo del paradosso, sede privilegiata della leggenda di Scilla e   Cariddi, in un territorio segnato dalla presenza di Vulcano, Eolo, dei   Ciclopi e dei Giganti come Orione, altro ecista della nostra città, che con   grossi blocchi consolida la falce che difende il cerchio d'acqua del riparo   ai naviganti. Cronos, Orione, entrambi collegati alla nascita del porto.

Zanclon la falce, Zanclo   altro fondatore di quella che, con la venuta dei greci dalla Calcide, diviene   la città di Zancle. Una narrazione complessa quella delle origini, una   narrazione che risale alla preistoria, prima che Omero rendesse famose le   nostre perigliose acque abitate da fascinose femmine anch'esse divoratrici di   uomini come Cronos.

In verità, tale mito   fondante trova un reale riscontro nell'analisi che il geologo oggi conduce   alla ricerca delle origini di questo molto particolare sito della riva   occidentale dello Stretto. Dalle foci dell'Alcantara, al limite meridionale   della catena peloritana, sino a giungere alla spiaggia del Faro, la costa   jonica non presenta la possibilità di riparo se non a ridosso dei Capi di   Taormina, S. Alessio, Alì e Scaletta, sia pure in condizioni di evidente   precarietà.

II porto di Messina   di contro offre e soprattutto offriva in passato un riparo sicuro al   navigante, che ancor più apprezzava i vantaggi del nostro scalo se si ricorda   la particolarità delle acque dello Stretto, temute sin dal tempo degli   argonauti. Un porto naturale ampio e protetto dai venti di traversia, un vero   dono della natura a quanti solcavano queste acque perigliose provenendo da   ogni parte del Mediterraneo. Da ciò la fortuna e la fama del porto falcato   che per le sue specificità sembrava opera primordiale di un dio, poi ancor   meglio sistemato da un gigante come Orione. Ancora nel XVIII secolo veniva   reputato il porto più ampio, più agevole e più sicuro dell'intero mar   Mediterraneo. A tanta fama certo concorreva l'architettura dei palazzi che a   schiera ne cingevano la porzione sud occidentale.

Era quello il "Teatro   marittimo" che, con unico disegno ed in pietra bianca, accoglieva i   viaggiatori al loro giungere a Messina. Tralasciando il pur fascinoso mito   della fondazione ed esaminando i dati stratigrafici raccolti negli scavi che   in tempi recenti hanno indagato il sottosuolo del centro storico della città,   si hanno oggi gli elementi che consentono la ricostruzione dei modi e dei   tempi in cui si è formato questo tratto di costa. Nella parte settentrionale   dei Monti Peloritani, là dove questi si contrappongono al massiccio   aspromontano lasciando in mezzo la via d'acqua che costituisce lo Stretto di   Messina, la base delle colline che declinano verso Capo Peloro si allarga in   una pianura, la più vasta di questo versante della catena.

A partire da sud, da   Capo Scaletta, proprio là dove inizia oggi il territorio metropolitano, la   fascia costiera si allarga progressivamente, insinuandosi nelle brevi valli   che, quasi con ritmo cadenzato, ne caratterizzano l'andamento morfologico. II   massimo dell'ampiezza, pur sempre relativa, si raggiunge nella pianura a sud   del porto, tra il torrente Gazzi e la foce del Camaro. Questi due corsi   d'acqua possono in un certo senso considerarsi gli artefici di quel cerchio   d'acqua che ancor oggi offrono tranquillo riparo a chi va per mare. Qui, nel   corso del tempo, sono giunti con le continue alluvioni quei materi2 su cui   poggia l'abitato peloritano e qui braccio di terra ritenuto opera di Cronos o   Saturno. Qui la stratigrafia restituisce le fa di formazione in un   susseguirsi di livelli di sabbia, ghiaia o ciottoli che negli ultimi   quattromila anni si sono accumulati sino raggiungere spessori che normalmente   aggirano attorno ai dieci metri.

All'apporto cospicuo   e costante di torrenti si è accompagnata l'azione delle correnti marine che   con la nota energia hanno distribuito questi materiali alluvionali lungo la   fascia costiera anche in funzione dei movimenti contrapposti di "montante"   e ""scendente". Ancor oggi cadenzato secondo ritmi   consolidati, proprio all'esterno della falce del porto si forma il cosiddetto   "Garoffalo", evidente nell'incresparsi della superficie del mare in   conseguenza del gioco delle correnti. Probabilmente, dove oggi si inarca il   "braccio di S. Raineri", vi erano degli scogli costituiti   dal substrato della struttura micascistica dei Peloritani che qui   riaffiorava.

Grazie pure alla   presenza di acque di falda che favorivano l'aggregazione di sabbie e ghiaie   si è giunti alla formazione di spesse bancate di "puddinghe" già   utilizzate per cavarne pietre da macina o materiale da costruzione, ma che   hanno costituito la base attorno alla quale si è andata consolidando la   falce. Quindi una formazione relativamente recente quella del porto di   Messina che va collegata alle caratteristiche ed alle dinamiche del   territorio circostante come pure ai particolari fenomeni meteomarini   peculiari dell'area dello Stretto.

Esemplificando si   può affermare che gli abbondanti materiali alluvionali trasportati a valle   dai torrenti a sud dell'attuale porto venivano poi distribuiti in direzione   nord dall'azione del mare, sino a giungere, nel corso di un'azione durata   millenni, a ciò che oggi vediamo e cioè un braccio di terra che staccandosi   dalla pianura cinge un ampio cerchio d'acqua, lasciando un comodo varco a   nord-ovest. Di questo porto naturale posto quasi al termine della riva nord   orientale dell'Isola (Lat. N. 38° 11'32" e Longit. G.W. 15° 34'34' )   sono di circa 80 ettari di acque interne al braccio di terra che si conclude   con il Forte del SS. Salvatore cui segue l'ingresso di circa 400 metri di ampiezza.

Tale apertura lo   rende marginalmente esposto ai venti del I quadrante di greco e levante. I   terreni del Braccio di S. Raineri, esclusi quelli di pertinenza della Marina   Militare, assommano a circa 320.000 mq.. La marea si alza in media 20 cm. ma   nelle sigizie raggiungono anche i 70 cm. d'altezza, tale fenomeno si   manifesta in occasione del plenilunio e del novilunio, solitamente attorno al   mezzogiorno.

Dal libro "Il   Porto di Messina dagli argomenti ai croceristi" di Franz   Riccobono edito da Skriba

Si ringrazia   Franz Riccobono e l’editore per l’autorizzazione

II periodo dell'occupazione musulmana della Sicilia, per quanto riguarda le città della Valdemone e Messina in particolare, andrebbe meglio studiato in una visione serena dei ruoli svolti dalle diverse comunità culturali cristiana e musulmana.

In realtà gli Arabi nella parte nord orientale dell'Isola non incontrarono grande successo, probabilmente a causa del radicamento nella popolazione della fede cristiana. In ogni caso, i culti devozionali cristiani permangono, come diffusamente documentato. II porto e quindi la città del Peloro risentono della stasi dei traffici e pare che gli Arabi non abbiano utilizzato lo scalo falcato, ma piuttosto abbiano preferito usare come riparo i laghi di Ganzirri e del Faro, così come ricordato dal primo toponimo (Ganzirri significa ""terra dei porci" e tali erano intesi gli Arabi dai Cristiani) e dal fatto che un ampio canale d'ingresso sia stato scavato in quel periodo tra il mare e la parte settentrionale del pantano di Ganzirri.
Proprio al periodo arabo viene riferita la leggenda secondo cui fu il grande Alessandro a scavare il nostro profondo porto. Agli inizi del secondo millennio la Sicilia viene riconquistata dai cavalieri normanni e Messina diventa la base sicura per le progressive operazioni. II Gran Conte Ruggero riconosce alla città dello Stretto il suo ruolo strategico di porta della Sicilia e di porto dell'Isola. Ritornano gli antichi privilegi e la città rifiorisce quale emporio cosmopolita dove si incontrano cristiani e Greci, Arabi ed ebrei sotto I'occhìo vigile dell'aristocrazia creata dai Normanni. .

Al centro dell'arco interno del porto viene eretto il Palazzo reale, pare sui resti di un precedente castello arabo. Palazzo turrito "bianco come una colomba"; che per tutto il medioevo domina il porto. Rimaneggiato nel cinquecento, danneggiato dal sisma del 1783, permane fino a metà dell'ottocento, quando ormai perso il suo ruolo, pericolante, viene abbattuto per dare spazio ai padiglioni dell'attuale Dogana. Questo complesso edificio, assieme alla Palazzata, era stato l'orgoglio dei messinesi che per secoli ottennero che qui risiedesse il Re e la Corte, con ciò che da tale circostanza derivava alla città.

Alla fine del XII secolo Arrigo od Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa, sposo di Costanza d'Altavilla e padre di Federico II di Svevia, fa di Messina la sua residenza preferita, concede alla città quello che diverrà nei secoli successivi il 'Porto Franco", cioè l'esenzione di qualunque tassa sulle merci trattate in entrata ed in uscita nel nostro porto.
II periodo normanno-svevo può considerarsi fondante per quello che sarà lo sviluppo dell'Isola e della città di Messina in particolare.
In quegli anni il porto, riaperto ai traffici, diventa una tappa ineludibile per quel flusso di uomini e mezzi che dall'Euopa si sposta verso oriente, verso i luoghi santi della cristianità, con le Crociate.
I difensori armati di Cristo tornano spesso malconci dalle spedizioni in Terra Santa, feriti o malati, ed anche in questo caso Messina con il suo porto attrezzato accoglie pellegrini e crociati nei suoi ospedali, nei suoi lebbrosari.

Non a caso in città si consolidano le rappresentanze dei principali ordini cavallereschi, da S. Giovanni di Gerusalemme ai Cavalieri del Santo Sepolcro, Templari e Teutonici. E proprio attorno al porto ancora oggi restano i relitti di un più vasto patrimonio architettonico, le Chiese di S. Maria degli Alemanni e, più a nord, il tempio della SS. Annunziata dei Catalani. Come pure si consolidano le posizioni dei "mercadanti" genovesi, veneziani, amalfitani, pisani e fiorentini, che con i loro "fondaci" incrementarono non poco I'attività del nostro porto.

La città viene cinta da mura turrite che chiudono lo spazio occidentale del porto sino alle retrostanti colline dominate dal castello di Matagrifone, più lungi dal Castellaccio ed il colle della Capparrina con quella che diverrà poi Torre Vittoria. II braccio esterno del porto rimane sguarnito se sì escludono la "Torre Mozza" che sorgeva grossomodo all'esterno dell'attuale stazione marittima e la Torre di S. Anna sull'estrema punta del braccio di S. Raineri, a controllo dell'ingresso del porto. Ingresso che, nella sua lunghezza di oltre trecento metri, in occasione del Vespro verrà chiuso alle navi francesi con una lunga catena resa galleggiante da travi in legno ad essa collegate.

L'attività mercantile continua e viene incrementata durante il periodo aragonese e castigliano sino alla conclusione dell'età di mezzo. Nel XV secolo approdano nel nostro porto quelle navi provenienti dalle Fiandre che consentiranno al giovane Antonello la calligrafica precisione dei maestri fiamminghi, le cui opere superstiti sono ancor oggi visibili nel nostro Museo cittadino.

Con il passaggio alla dinastia degli Asburgo, per precisa volontà di Carlo V, Messina ed il suo porto mutano aspetto grazie a radicali interventi urbanistici che dureranno per tutto il cinquecento. Viene rifatta la cinta muraria bastionata secondo le regole più avanzate dell'architettura militare. Sorge in posizione strategica il Castello del SS. Salvatore là dove per secoli vi era stato l'importante monastero basiliano dall'omonimo titolo.

Viene costruita la possente torre quadrata con la Lanterna di S. Raineri, in ricordo dell'omonimo monaco pisano. Si consolida il forte don Blasco alla testa del braccio falcato. All'apice del colle di Montepiselli viene costruito il poderoso Castello Gonzaga. Viene ammodernata la struttura del Castellaccio.

La nuova cinta include sia a sud ovest che a nord-ovest i nuovi quartieri già periferici.
Messina ed il suo porto sono attrezzati per affrontare con serenità ogni attacco proveniente sia dal mare che da terra.
II porto, fra l'altro, viene dotato della monumentale fontana del Montorsoli dedicata al dio del mare con accanto Scilla e Cariddi, ormai rese innocue ai naviganti. Fonte lì posta, al centro delle banchine per comodo non solo dei messinesi, ma soprattutto di quanti approdavano nel molo peloritano. Secolo d'oro il cinquecento, quando lungo le banchine del porto era possibile trattare ogni specie di mercanzia specie quando in estate veniva organizzata dai mercanti messinesi la grande "Fiera franca" usufruendo dei consolidati vantaggi derivanti da privilegi e consuetudini locali, spesso esclusivi in tutto il territorio dei Regno. Porto ospitale, porto trafficato, porto cosmopolita, porto attrezzato e ben fornito, quello di Messina in quegli anni.

Dal libro "Il Porto di Messina dagli argomenti ai croceristi" di Franz Riccobono edito da Skriba
"Si ringrazia Franz Riccobono e l’editore per l’autorizzazione"

Ucria

Mag 14, 2024

di Michele Cappotto



Altitudine: m. 710 s.l.m.

Etimologia: Probabilmente deriva dal greco  “tes Ochreias o da Ochr(e)ias”  (ruggine delle biade) o anche dall’arabo “Keira” che significa “il villaggio”.

Abitanti: ucriesi (1185 unità nel 2009)

Densità: 45 Km/q

Patrono: Signore della Pietà (festa 14 settembre)

Ambiente e risorse: La produzione locale è basata sulla coltivazione degli agrumi, dell'uva e delle olive. Molto pregiata la produzione delle nocciole e delle castagne con realizzazione di prodotti tipici specie in campo dolciario; l'allevamento sugli ovini, sui bovini, sui suini (è noto il suino nero dei Nebrodi) e sugli equini con produzione di carni e prodotti caseari (formaggi provole, pecorino e ricotta) di eccezionale qualità.
Il territorio di Ucria, può anche definirsi  la "terra dei funghi". I luoghi, infatti, per la loro natura e conformazione, si prestano alla nascita di numerose qualità di funghi. Nel paese opera dal 1995 l’importante Associazione Micologica Naturalistica “P. Bernardino” che svolge una costante funzione divulgativa e conoscitiva sul vastissimo mondo dei funghi.

L’impegno dell’Associazione si rivolge ad uno studio sistematico, biochimico, tossicologico, igienico-sanitario e preventivo di tutte le specie di funghi. Allo stesso tempo sono state intraprese delle iniziative atte a promuovere e favorire la conoscenza della Micologia mediante conferenze, dibattiti, mostre, corsi di studio.Ogni anno, l’ultimo sabato d’ottobre, viene organizzata la sagra dei funghi che richiama appassionati e turisti. Oltre a poter gustare l’ottimo risotto offerto dall’Associazione micologica, è possibile assistere all’annunale “Mostra Micologica Funghi dal vero”.

Personaggi: Padre Bernardino da Ucria , al secolo Michelangelo Aurifici, è nato ad Ucria il 9 aprile 1739 .
Nel 1766, entrato nel convento di S. Antonio di Padova dell'Ordine dei Frati Minori, cominciò ad interessarsi di storia naturale ed in maniera particolare di botanica divenendo un grande negli anni un grande esperto della materia. Nel 1786 ricoprì l'incarico di "Dimostratore di Botanica" presso l’ Università di Palermo. A lui si deve l'impianto della parte storica dell'Orto botanico di Palermo, avvenuta tra il 1789 (anno in cui pubblicò “L’Hortus Regius Panormitanus” seguendo l'innovativo sistema di classificazione di Linneo) e il 1791. Nello spazio retrostante al Gymnasium dell’Orto oggi si trova un suo busto scolpito da Mario Rutelli. Di carattere modesto e schivo, fu uno studioso di grande valore al punto da meritarsi l'appellativo di Linneo siciliano. Morì a Palermo il 29 gennaio del 1796.

Curiosità: Ucria anticamente era anche considerato il territorio del Mulini ad acqua poiché se ne contavano ben undici.
Il mulino San Giovanni era uno dei più grandi e ad esso si rivolgevano anche i contadini delle campagne di Sinagra e Racchia. Il mugnaio faceva raccogliere l’acqua in una grande vasca chiamata “prisa” che era collegata ad un’altra in pietra detta “gorgia”. Da qui, per caduta, l’acqua azionava una grossa ruota di legno collegata alla pesante mola di pietra che macinava il frumento.

 


 

Storia

 

I rinvenimenti di utensili preistorici in prossimità della “Rocca San Marco” (massa rocciosa levigata e cristallina del paleolitico superiore a circa 8 km da Ucria) e di un ripostiglio di monete romane (215 a.C.) nella poco distante località “Orelluso” (a quota 1220 m.) sono la prova di quanto antiche siano le origini degli insediamenti nel territorio di Ucria.
Ucria, fondata secondo la leggenda dagli abitanti della città scomparsa di Monte Castello, fu conquistata dalla potente Siracusa nel 269 a.C. e nel 242 a.C. divenne possedimento dei Romani. Gli Arabi dominarono la zona e di ciò ne sono testimonianza i resti di due torri d’avvistamento, una a nord ed una in località San Giovanni, a guardia di chi dal mare voleva spingersi all’interno del territorio. Dalle torri si sviluppavano infatti una serie di gallerie e passaggi che si diramavano nelle varie zone dell’abitato. I Normanni intorno all’anno 1000 vi costruirono un castello e sotto il loro dominio Ucria divenne un feudo della famiglia dei Baroni Barresi. Questo possedimento passò poi agli Svevi, Angioini, ed Aragonesi. Dal 1670 Ucria fu governata dalle famiglie Pagano-Marchetti ed Alliata col titolo di Principi fino ai primi del Novecento

 


 

Beni Culturali

 

Posto sulla vallata del fiume “Sinagra” il borgo di Ucria conserva ancora i tratti medievali nell’intreccio dei quartieri che si sviluppano intorno alla Chiesa Madre. Essa dedicata a San Pietro Apostolo venne costruita nel 1625
Presenta una pianta a croce latina ed una facciata con cinque finestre e tre portali di cui quello centrale, sormontato da un elegante frontone, è arricchito da due belle colonne con capitelli corinzi ai cui lati sono incavate quattro cappellette.
L’interno è a tre navate separate da 8 colonne monolitiche che da qualunque posizione consentono la vista delle 11 cappelle e relativi altari in stile barocco. Il magnifico altare maggiore che risale al 1668 è costituito da un cappellone di legno intarsiato e dorato in stile barocco e sorretto da quattro eleganti colonne. Su di esso vi è la statua lignea del “Signore della Pietà” (Cristo Nero) Patrono della città. Si tratta dell’immagine dell’Ecce Homo, di fattura bizantina
e di autore ignoto dietro la quale sono simbolicamente posizionati tutti gli attrezzi utilizzati per la crocifissione. Nella chiesa sono pure da ammirare il Fonte Battesimale in marmo e legno, la statua marmorea della “Madonna della Scala” e dell’Annunziata, entrambe della bottega dei Gagini, la Madonna delle Grazie nel suo ricco altare e gli splendidi lampadari di cristallo a forma di ninfea della navata centrale.

La Chiesa della Madonna Annunziata è stata costruita alla fine del sec.XIV ma fu riedificata nel Cinquecento dai Frati Francescani. Molto bello è il portale di gusto romanico ove sono scolpiti in rilievo eleganti figure di angeli con in basso due leoni che reggono stemmi e stipiti. Molto bello anche il campanile in stile arabo-normanno.
Decentrata dall’abitato sul lato monte è la Chiesa del Rosario che risale al ‘700 fu edificata dai Frati Domenicani. Caratteristico il suo campanile a cuspide maiolicato di bianco ed azzurro. Il piano campanario a cui si accede attraverso una scala con gradini incastonati sul muro perimetrale, è arricchito da quattro bei balconi da cui si gode un’ampio panorama. All’interno della chiesa vi è un bellissimo altare in legno con ante a vetro ove sono custodite le statue lignee del ‘700 della Madonna del Rosario e di San Domenico. Il piano dell’altare è rivestito di lastre di vetro colorato ad olio ad imitazione di marmo. Il soffitto è pure in legno decorato e dipinto con motivi floreali.

La Chiesetta del Carmine risale al sec.XV  dispone di tre altari. Sul maggiore vi è una piccola cappelletta con una statua lignea di San Biagio. All'interno si possono ammirare le belle mattonelle in terracotta smaltata e il soffitto, in tavole, decorato con motivi floreali ad olio.

Della Chiesa di Santa Maria della Scala restano oggi solo dei ruderi. Costruita nel 1500, epoca in cui fu fondato il convento dei Domenicani. Essa è attigua alla Chiesa del SS. Rosario. Da quanto si può ricavare dai ruderi è una delle chiese più antiche di Ucria.  Aveva un solo ingresso con un portale in pietra arenaria nel quale vi sono scolpite molte figure allegoriche. Custodiva al suo interno la statua della Madonna della Scala, opera eccezionalmente bella attribuita alla bottega d'arte dello scultore palermitano Antonello Gagini, che dagli inizi del ‘900  è stata collocata nell'abside della navata destra della Chiesa Madre.

La Chiesa di S. Maria Vergine, infine, è una costruzione che risale a tempi molto antichi. Quella odierna risale al 1960 ed occupa un'area di 150 mq. Anticamente per la sua ottima posizione doveva essere molto frequentata, ora dimora permanente di una interessante mostra di oggetti sacri.
Ucria è notoriamente denominata “La Città dei Musei”, infatti ve ne sono ben cinque.
Il “Museo pedagogico dell’arte e della creatività giovanile” contiene pregevoli opere degli studenti delle più importanti Accademie di Belle Arti d’Italia e dei Paesi mediterranei.

Il “Museo dell’Arte Popolare” contiene reperti della tradizione popolare di cui si intende evidenziarne non solo il valore d’uso ma anche il significato simbolico. Forte è il richiamo alla vita della donna (ricami, tappeti tessuti a mano, corredi da sposa, ed oggetti in ceramica e terracotta.

Il “Museo etnologico delle maschere e della cartapesta” contiene circa 500 maschere in cartapesta riproduzioni di importanti maschere africane ed asiatiche ma anche di quelle legate al carnevale. Fra i materiali utilizzati nella riproduzione vi è l’avorio, l’osso, il corno, ma anche bambù, zucche, noci di cocco e vimini.

Il “Museo etnostorico dei Nebrodi” è il più antico e contiene attrezzi di lavoro del mondo contadino e pastorale nonché tanti oggetti di uso comune non più esistenti nella società odierna.
Infine da ammirare, presso la Chiesa del Rosario, è il grande “Mosaico dei due Mondi a confronto”, lungo 15 metri e largo 3 metri fatto in pasta di vetro, grès e da preziose murrine con oro zecchino, opera realizzata dal Maestro Nico Nicosia nel 1992 che illustra, in occasione della ricorrenza dei 500 anni, l’itinerario delle Caravelle di Cristoforo Colombo dal buio del Vecchio Mondo alla luce del Nuovo.

 


 

Tradizioni

 

La festa del Signore della Pietà che ha luogo il 3 Maggio e il 14 Settembre con due processioni solenni che si snodano per il paese accompagnate dalle campane della Chiesa Madre, e che richiamano la partecipazione di innumerevoli fedeli. Nell’occasione vengono intonati con grande devozione e gran voce canti, suppliche e preghiere. Nella giornata dell’ultima domenica di Ottobre si festeggia pure la Madonna del Rosario che insieme alla statua di S. Domenico viene portata in processione per le vie cittadine. E’ una bellissima ricorrenza che coincide con l’interessante  Fiera dell’Artigianato e con la rinomata Sagra dei Funghi.

I festeggiamenti della S. Pasqua sono pure molto sentiti. Il Venerdì Santo si allestiscono i Sepolcri con i “lavureddi”: che consistono in chicchi di grano o di legumi fatti germogliare al buio, per i 40 giorni della Quaresima. All’imbrunire si recita la passione e morte di Gesù Cristo. Al cimitero, nei pressi della Chiesa del Rosario,  si rivive la struggente atmosfera della crocifissione. La notte di Pasqua, infine, si assiste, con il fiato sospeso, alla tradizionale caduta della “Tenda” alla quale è tradizionalmente collegata la convinzione che la caduta diritta della tela coincida con una ricca annata agraria.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tortorici

Mag 14, 2024

Altitudine: m. 468 s.l.m.

Etimologia: dal latino “Turris Tudith” o dalle antiche denominazioni “Turri polit”o “Torre Orice”

Abitanti: tortoriciani od oricensi  (6984 unità nel 2008)

Densità: 100 Km/q

Patrono: San Sebastiano (festa e processione il 20 gennaio)

Ambiente e risorse: il territorio di Tortorici è fortemente connotato da un ambiente naturale tra i più vari e ricchi di tutto il comprensorio dei Nebrodi in un insieme discontinuo di rilievi e vallate, incise nel fondo dalle caratteristiche fiumare che con l'affluenza di vari torrenti, finiscono per formare il fiume Grande o Tortorici.

Sono tuttavia ottime le possibilità di sviluppo per l’agricoltura e  per l’allevamento del bestiame. Si produce grano, uva, castagne, ghiande e nocciole (ricordiamo la sagra del nocciolo nel mese di agosto). Si allevano ovini, bovini, suini ed equini. Il territorio offre altresì una particolare ricchezza di boschi, e laghi (Pisciotto)  contesti eccellenti per una fauna, specie quella ornitologica, di grande interesse.

Dal punto di vista naturalistico, Tortorici offre la possibilita' di effettuare delle rigeneranti escursioni dall'alto valo re paesaggistico comprendenti, tra l'altro, siti suggestivi come il Monte San Pietro, la Rocca di San Marco, il Pizzo di Cucullo, la Riserva Naturale del Lago di Trearie, e "La Cappella delle Tre Vergini", nel cuore del Parco delle Nebrodi.

Personaggi:
Giuseppe Tomasi, pittore del sec.XVII,  formatosi alla scuola di Pietro D’Asaro e di Giuseppe Salerno (alias lo Zoppo di Gangi). Dipinse con ispirazione caravaggesca numerose tele a soggetto sacro che hanno arredato numerose Chiese dei Nebrodi.
Sebastiano Timpanaro, studioso, filologo classico, critico letterario e uomo politico, nasce a Tortorici il 20 gennaio 1888. Il padre, falegname, si chiama Sebastiano, la madre Maria Teresa Fonti. Frequenta il ginnasio a Patti, il liceo ad Acireale e il primo anno di università a Napoli, presso la facoltà di fisica. Si trasferisce all'università di Bologna, in quel periodo la migliore per gli studi di fisica sperimentale, per i quali Timpanaro ha una particolare predilezione. Nel 1941 su espressa volontà di Giovanni Gentile fu nominato direttore della "Domus Galileana" di Pisa che curò l'edizione critica delle opere di Galileo. L'attività della Domus Galilaeana viene però paralizzata dai bombardamenti aerei della seconda guerra mondiale (durante la quale Timpanaro riesce a salvare l'ingente patrimonio storico-bibliografico della Domus) e dall'assenza di finanziamenti nel dopoguerra. Dopo la liberazione, Timpanaro si iscrive al Partito Socialista Italiano. Nel 1948, diventa segretario del Gruppo italiano di Storia della Scienza. Si spegne a Pisa il 22 dicembre 1949.

Curiosità: famosa a Tortorici è la “Pietra della Pittima” cioè un blocco di marmo una volta posto davanti al sagrato della Chiesa di san Nicola (1766) legato alla singolare consuetudine che colui il quale contraeva debiti ed era poi incapace di pagarli, poteva pubblicamente dichiarare fallimento in una forma strana: in giorno festivo, all’uscita della gente dalla chiesa dopo la messa di mezzogiorno, doveva “coram populo” abbassarsi le brache davanti a quella pietra e “denudato culo” batterlo per tre volte di seguito su di essa; fatto ciò i suoi creditori non avrebbero più vantato crediti nei suoi confronti.

 


 

Storia

 

Nei secoli si tramandò la storia che la città fu fondata da un gruppo di profughi provenienti dal nord Africa, tra il 681 e il 703, che abitarono il luogo chiamandolo Orice in memoria della località Aures da cui provenivano. In epoca normanna Federico di Svevia concesse il territorio di Tortorici a Guidone Pollicino. La citta' nel XII secolo era già notevolmente sviluppata. Conobbe la dipendenza feudale e quella dal demanio, dalla quale si riscatto' nel 1628.

Nel periodo Angioino il feudo andò a Girardo e Bertrando de Artus, ma con l'avvento degli spagnoli tornò ai Pollicino. In seguito passò a Federico Moncada. La famiglia Moncada rimarrà proprietaria fino al 1597 quando Federico junior, l'ultimo dei Moncada, vendette la baronia alle famiglie Mastrilli e Corbera.

Due alluvioni, negli anni 1682 e 1753 distrussero la città mettendo in crisi l'economia locale che si era sviluppata nei secoli XVI e XVII. Fa parte della storia della città dal Trecento in poi la prestigiosa scuola della lavorazione dei metalli (oro, rame, ferro e stagno)  da cui ebbe poi  sviluppo l’arte della fusione delle campane. Infatti anche se oggi è ormai scomparsa l’attività delle fonderie, Tortorici è ancora denominata la “città delle campane”.

Da Tortorici provengono le campane di quasi tutte le chiese della Sicilia ed ,in particolare, il “Campanone” del Duomo di Catania (1338); le due suonate da Dina e Clarenza dell’orologio del Duomo di Messina; quelle della Cattedrale di Palermo ed infine quelle famose, legate alla storia del nostro Risorgimento, della Gancia a Palermo che salutarono con il loro suono l’insorgere del Popolo Siciliano nel 1860 contro i Borboni. Nei primi anni del Novecento i Tortoriciani intrapresero con successo intense attività commerciali avvalendosi principalmente del pregiato prodotto delle nocciole che collocavano sul mercato di Catania e da dove acquistavano tutte le specie di mercanzie.

Col passare dei decenni però la città fu spogliata di quasi tutti gli uffici pubblici che vennero concentrati nella vicina Sant'Agata Militello. Ciò provocò il graduale allontanamento dei professionisti, degli artigiani, sopraffatti dai prodotti dell'industria, e dei contadini che, dopo secoli, iniziarono ad abbandonare la secolare coltivazione dei noccioleti che copriva oltre la metà del territorio.

 


 

Bemi Culturali

 

Sviluppatosi al tempo della dominazione normanna ebbe il suo periodo di massimo splendore storico ed artistico nel XVII secolo quando vantando il titolo di Città Regia e ospitando l’insigne pittore Giuseppe Tomasi, lo scultore Antonello Gagini e diversi altri maestri , fu arricchita di un patrimonio di opere d’arte d’inestimabile valore.
Proprio all’arte campanaria è stato dedicato un bel monumento nella centralissima Piazza Timpanaro. Proprio in questa piazza hanno anche sede due interessantissimi musei.

Il primo è il  Museo Etnofotografico “Franchina Letizia”, istituito nel 2002 che raccoglie e custodisce una mostra di circa 5000 foto d’epoca con relative macchine fotografiche, attrezzature specifiche, riviste specializzate risalenti al 1913, lastre e pellicole originali.

Il secondo è il “Centro di Storia Patria dei Nebrodi  S. Franchina” nel quale sono raccolte e custodite antiche e preziose campane, arredi e attrezzi di maestri della lavorazione del bronzo, del ferro, della pietra, nonché numerosi prodotti della civiltà agro-pastorale ed artigiana del territorio nebroideo che rappresentano veri e propri tesori del passato.

Poco distante da Piazza Timpanaro si trova la più antica chiesa di Tortorici quella di S. Nicolò che risale al sec. XII ma interamente restaurata dopo l’alluvione del 1682.  All’interno dell’unica navata  si possono ammirare il bel soffitto ligneo del 1600,  due preziosi altari laterali e, sulle pareti riccamente decorate, la coeva tela di S. Domenica, con la sua massiccia ed artistica cornice, la tela delle Anime del Purgatorio (1654) di Giuseppe Tomasi, pittore locale di forte ispirazione caravaggesca, e la statua di San Giuseppe con Bambino opera di Sebastiano Leone.

Le notevoli espressioni architettoniche ed artistiche che la citta' offre si possono ammirare attraverso le strette ed affascinanti stradine acciottolate, lungo le quali si affacciano palazzi nobiliari, balconi, archi, cortili e scalette tipiche del periodo medioevale.

La barocca Chiesa Madre in stile barocco dedicata a  Santa Maria Assunta  (1754)  si presenta con una facciata su cui si aprono tre eleganti portali. Il centrale e' sormontato da un bassorilievo  raffigurante la Madonna col Bambino e due Angeli che proviene da un’antica chiesa quattrocentesca.
Al suo interno vi è la statua della Madonna del Soccorso della scuola del Gagini, di scuola gaginiana, la Madonna del Rosario, statua lignea del sec. XVII, ed un cinquecentesco Crocifisso della scuola del Matinati.

Di fronte alla Chiesa Madre si trova la Chiesa di S. Francesco o del Convento dei Frati Minori (1602) con il suo portale del 1400, capolavoro di maestri scalpellini locali, già appartenuto alla Chiesa di S. Maria fuori le Mura.
L’interno è a tre navate divise da otto colonne monolitiche lisce con archi a sesto acuto: in fondo a quella di sinistra sono conservate le bellissime statue di San Francesco e di Fra Leone realizzate nel 1559 da Antonio e Giacomo Gagini; in fondo a quella destra si trova la statua in legno di S. Paolo del 1658, scolpita dall’artista locale Sebastiano Leone.
Al centro il ricco altare maggiore costruito nel 1689. Il pavimento dell’altare conserva ancora i mattoni di Valenzia risalenti al 1600. Da ammirare infine il soffitto in legno decorato da Giuseppe Tomasi (1600) nel quale risaltano le figure di S. Antonino, S. Francesco e dell’Immacolata. Di fronte al ponte sul Torrente Bunneri si erge facciata della piccola Chiesa della Misericordia  con il suo portale in legno realizzato da maestranze locali. All’interno si trova un dipinto raffigurante Santa Maria della Misericordia realizzato dal pittore palermitano Salvatore Ribela nel 1782.

Molto interessante, infine, una visita alla famosa antica fonderia campanaria “Trusso”
Pure da ammirare è infinela settecentesca Chiesa della Batia che custodisce tre belle statue di marmo della scuola del Gagini.

 


 

Tradizioni

 

Il sabato più vicino al 13 gennaio si celebra il rito della “bula” cioè una fiaccolata di alte torce realizzate con fasci di infiorescenze che intende ricordare le processioni dei primi cristiani.

La domenica invece ha luogo la festa dell’alloro in ricordo del primo martirio di San Sebastiano che venne legato ad un albero e trafitto da frecce. I devoti, che hanno in precedenza tagliato nodosi rami dall'alloro o agrifoglio, scorticato il tronco e appeso un fiocco rosso e delle bacche depositano l'alloro davanti al Palazzo della Città (una volta Palazzo dei Giurati), creando così un improvvisato bosco magico.

L'alloro ricorda il bosco di alloro sacro ad Adone dove S. Sebastiano, legato nudo ad un albero, è bersaglio delle frecce dei feroci arcieri della Mauritania. Nell’occasione vengono pure preparati e benedetti i “panitti”, piccole forma di pane da distribuire ai fedeli.

 

 

 

 

 

 

 

di Michele Cappotto

Altitudine:  314 s.l.m.

Etimologia: Il nome "Sant'Angelo" fu dato al paese in omaggio a San Michele Arcangelo, Principe delle Milizie Celesti, a cui fu dedicato un Monastero Basiliano, fatto erigere tra il 1070 ed il 1084, dal conte Ruggero, a ricordo di una vittoriosa battaglia, combattuta in questo territorio contro i Musulmani. L'appellativo "di Brolo" (che è il sottostante abitato sul mare) fu aggiunto a "Sant'Angelo" per distinguerlo da altre località omonime.

Abitanti: santangiolesi (3413  unità nel 2009)

Densità:   113 abitanti/Kmq

Patrono:   San Michele Arcangelo (festa il 29 settembre)

Ambiente e risorse: Tra i principali prodotti locali segnaliamo il grano, le olive, le nocciole, la frutta, gli agrumi e gli ortaggi. Caratteristica è la produzione artigianale basata sulla lavorazione del legno, del rame, ottone, del ferro battuto, degli intrecci di vimini, dei ricami e dei lavori a tombolo.
Ma il paese ha gran fama dal suo Salame di Santangelo di puro suino nero tipico dei Monti Nebrodi preparato con tutte le masse muscolari dell’animale. La speciale qualità è data dalla lavorazione tradizionale ed artigianale e qualitativa delle carni mentre la stagionatura è favorita dal peculiare microclima della vallata.

Fu grazie alla colonizzazione Normanna che il paese di Sant’Angelo di Brolo vide la nascita del suo salame, ed è grazie alle sapienti mani dei Santangiolesi che questo capolavoro della salumeria mantiene ancora oggi inalterate quelle caratteristiche che lo contraddistinguono nel mondo. E’ prodotto esclusivamente con le parti pregiate delle carni suine che vengono lavorate artigianalmente, mediante antiche tecniche di cubettatura, mondatura e snervatura; insieme al sale marino delle terre Siciliane ed al pepe nero mezza grana, si forma l’impasto che poi viene insaccato in un budello naturale, tagliato a misura e legato a mano con uno spago.

 


Storia

 

La fondazione dell'attuale centro urbano si colloca storicamente in epoca normanna, attorno al monastero basiliano di S. Michele Arcangelo, fondato in epoca bizantina.  ll Gran Conte Ruggero infatti concesse nel 1084, all'Abate dei Monaci Basiliani, l'investitura, sia del Monastero di San Michele, che del territorio degli antichissimi borghi di Lysicon, Tondocon, ed Anzan, i cui abitanti, dopo la loro distruzione per opera dei Saraceni, si trasferirono nel nuovo centro urbano (quello attuale) che così andò man mano sviluppandosi a valle del Convento. L'abate del Monastero fu pertanto il primo e l'unico signore feudale della Terra di S. Angelo sino all'abolizione del feudalesimo in Sicilia nel 1812.

Durante tale investitura, diverse famiglie ebbero concessi, dagli Abati Feudatari che si succedettero nel tempo, parecchi feudi. Fra gli antichi casati santagiolesi, si annoverano quelli baroni Caldarera, Taviano e quelli dei marchesi Angotta, Amato, Natoli e Tedeschi. Tra questi nobili si distinsero gli Angotta e gli Amato, di origine spagnola, le cui insegne araldiche fregiano la Torre saracena di Piano Croce, diventato castello dopo i terremoti del sec. XV e che si erge in contrada Calabrò sulla vecchia strada provinciale che conduceva al paese.

Il fortilizio ancor oggi presenta gli elementi costitutivi tipici medioevali: cinta, mastio e palazzo con merlatura, ponte levatoio, piombatoie o caditoie, destinate al getto verticale di proiettili di ogni sorta, nonchè le saettiere che servivano agli arcieri. S. Angelo raggiunse il suo massimo sviluppo fra i sec. XVI e XVII grazie all'avvio della produzione della seta di cui beneficiarono soprattutto le due famiglie più abbienti, quella degli Amato e quella degli Angotta. Fino al 1867, e cioè fino a quando nei Conventi dimorarono i Frati, Sant'Angelo fu anche famoso centro di cultura, nel quale confluivano gli studenti di moltissimi paesi della Provincia i quali, ultimati gli studi nelle scuole dei Conventi, potevano accedere alle facoltà dell'Università di Palermo.

 


 

Beni Culturali

 

La Chiesa Madre si presenta con uno stupendo portale in arenaria intagliato. A croce latina, con tre navate, fu ricostruita nel 1534 al posto di una di stile romanico, testimoniato da una piccola cappella venuta alla luce durante lavori di restauro, posta nella navata destra sotto al campanile, che presenta una volta costolonata appartenente alla precedente costruzione. L'interno conserva in gran parte gli arredi originali.
Nella prima cappella a destra si notano due sarcofaghi marmorei appartenenti a nobili famiglie: uno degli Angotta-Amato e l'altro dei Natoli, da cui discende il Marchese Vincenzo, nato nel 1690, che fu giudice di Gran Corte Criminale dal 1731 al 1742 e presidente del Tribunale del Real Patrimonio nel 1758.

All'interno si trovano altre pregevoli opere d'arte tra le quali una statua marmorea del XV sec. raffigurante la Madonna del Lume, attribuita alla scuola di Francesco Laurana e la bellissima statua lignea di San Michele Arcangelo. All'altare maggiore, di notevole interesse artistico, è un'altra statua in marmo del sedicesimo secolo raffigurante la Madonna col Bambino. Pregevoli sono poi un dipinto su tela raffigurante l'Immacolata risalente agli inizi del '700, uno dei Santi Cosma e Damiano, attribuibile al pittore Giuseppe Tommasi, che raffigura i due santi medici in atto di curare un ammalato, un Crocifisso ligneo del XVIII sec., un organo settecentesco di Annibale Lo Bianco, un quadro dell'Addolorata di ispirazione caravaggesca e dei paliotti del XVIII sec., ricamati in seta e fili d'argento e d'oro. La secentesca Chiesa di S. Filippo e Giacomo, si erge nella parte bassa del paese, in essa la nobile famiglia degli Amato fissò la cappella di famiglia. La Chiesa dei SS. Filippo e Giacomo, ricca di sculture e di dipinti, rappresenta uno dei più bei monumenti del patrimonio artistico di Sant'Angelo. Oggi è chiusa al culto e aspetta di essere restaurata per tornare al suo antico splendore. Fu costruita nel 1651 su di una preesistente struttura del ‘500 (di cui resta il campanile e la campane) ad iniziativa di Don Filippo Amato Angotta, Principe di Galati e Duca di Asti, che a Sant'Angelo aveva avuto i natali.

Il tempio disposto a croce latina, a tre navate, ha una facciata baroccheggiante, ravvivata da figure, animali e grandi cornicioni. All'interno, superata un'antiporta dorata del 1500, colonne monolitiche, con capitelli di vario stile (ionico, corinzio, rinascimentale) dividono le navate. L'abside della navata laterale sinistra racchiude l'altare del sacramento, in marmo policromo ad intarsi, sormontato da un dipinto su tavola, di epoca seicentesca e di notevole valore artistico che raffigura la Pentecoste. Nell'abside della navata laterale destra si trova un simulacro processionale della Madonna del Carmelo, che risale al 1700, e un quadro del Martirio di S. Sebastiano.

Nell'abside della navata centrale, quattro oli di formato ridotto, tutti della seconda metà del sec.XVII, raffigurano La Visitazione, La Sacra Famiglia, La Trinità e L'Adorazione dei Magi. Sull'altare maggiore troneggia un gruppo ligneo dorato che risale al 1600, la Madonna che appare a S. Simone . Il gruppo, opera di un abile scultore siciliano, rivela alte qualità stilistiche ed espressive, specie nella riproduzione ritrattistica della vergine e del santo. Dietro l'altare si nota il maestoso organo del 1700. Della stessa età è il pergamo, addossato alla penultima colonna di destra, eseguito dalla stessa bottega di intagliatori cui si deve il pulpito della chiesa di S. Francesco. Alla parete destra del transetto un dipinto, di ignoto del sec. XVIII, raffigura i SS. Filippo e Giacomo, titolari della chiesa, mentre sulla parete sinistra è affrescato il Martirio di S. Stefano, databile intorno alla fine del sec. XVI.

La cappella che si apre nella navata destra ospita il gruppo marmoreo dell'Annunciazione, di scuola gaginiana. Vi spiccano inoltre due sontuosi monumenti funebri di marmo con fregi policromi della famiglia Amato, contenente le spoglie , l'uno di Tommaso, Bernardo e Geronimo (1593), e l'altro, quelle di Gregorio (1612). Alla parete della terza arcata della navata destra pende un dipinto secentesco, che raffigura la Lapidazione di S. Stefano. Tra i persecutori è visibile S. Paolo, che tiene le vesti tolte al martire. Nelle arcate della navata  sinistra vi sono una statua in legno del Crocifisso e un dipinto dell'Adorazione dei pastori, opera di fine del Cinquecento. La Chiesa S. Francesco di Paola fu ultimata nel 1582. Vi era annesso il Convento dei Minimi, un ordine monastico di vocazione mendicante, senza tradizioni culturali. All'interno dell'unica navata con piedritti aggettanti ed arcate  in arenaria ci sono due altari in marmo ad intarsio che arricchiscono le absidi laterali. Si notano un Crocifisso del 1700 e, nell'abside, il sarcofago in marmo di Giovanni Domenico Ceraolo "uomo di preclara virtù e fondatore del sacro cenobio".

La nicchia sopra l'altare maggiore contiene una Statua di S.Francesco di Paola, in legno scolpito e dipinto della fine del sec. XVIII. La Chiesa di S. Nicola  è stata costruita nel 1566. In pianta basilicale, ha una facciata rinascimentale. Otto colonne monolitiche delimitano le tre navate. Il tempio è chiuso al culto. Il portale è inserito tra piedritti fregiati e sulla trabeazione poggiano bassorilievi con antiche iscrizioni. Due altari in marmo ad intarsio arricchiscono le absidi laterali. Nella Chiesa di S. Francesco d’Assisi (o Santa Maria degli Angeli) annessa al cinquecentesco Convento si accede da un prostilo con colonne monolitiche in arenaria, posto alla sommità di una gradinata acciottolata.  In prossimità dell'Altare Maggiore, poggiati alle pareti laterali, si trovano i sarcofaghi barocchi in marmo contenenti i resti dei marchesi Michele e Lucrezia Angotta. Dietro l'Altare Maggiore, in fondo all'unica grande navata di cui la chiesa è costituita, si ammira pure un antico quadro ad olio su tela, di vaste dimensioni, contornato da una sfarzosa cornice di legno dorato a grande rilievo, raffigurante la Madonna col Bambino, tra Angeli e Santi, opera di Antonio Catalano il Vecchio nonché una pregevolissima scultura lignea del Crocifisso, eseguita nel 1644 da Frà Innocenzo da Petralia (confratello del più noto Frà Umile). Il Convento presenta un bellissimo ampio chiostro.

La Chiesa di S. Domenico ad unica navata, originariamente dedicata a S. Antonio, risale alla prima metà del 1500. Nel 1563, sotto il pontificato di Pio IV, essa fu concessa dall'abate basiliano Bologna ai PP. Domenicani (i Frati Predicatori), che vi annessero il convento (adibito ora a Palazzo Municipale), destinandolo allo studio dei novizi. L’interno è impreziosito dagli stucchi di Aloisio Piscott (1779), allievo della scuola del Serpotta, e da vari affreschi. Ai lati dell'altare maggiore, su cui campeggia una statua in bronzo di S. Domenico, si notano due sarcofaghi della famiglia Angotta. I piedritti del bellissimo portale in pietra grigia sono lavorati a tortiglione, al pari di quelli che sorreggono l'arco trionfale dell'abside.  Sulla trabeazione del portale si nota una statuina di S. Domenico, di marmo bianco, custodita in una nicchia, e l'iscrizione dell’anno 1701. Le decorazioni furono ricoperte di calce viva (forse durante la peste del 1743) e sono state, in parte, riportate alla luce nei lavori di restauro del 1960, allorché fu rifatto anche il soffitto a cassettoni, ad imitazione di quello antico.

Di grande importanza architettonica è la settecentesca Chiesa del SS. Salvatore.  Presenta tre navate e otto colonne corinzie monolitiche con capitelli corinzi. Riaperta al culto nel 2007 presenta una pianta basilicale, con una bella facciata in stile rinascimentale. Vi si accede da una sontuosa scala a doppia voluta ornata da colonnine e balaustra in pietra. All'interno si trovano una preziosa statua in marmo di  S. Maria del Lume con bassorilievi (sec.XV) attribuibile ad un seguace di Francesco Laurana,  un dipinto su tela raffigurante l'Immacolata risalente agli inizi del '700, un Crocifisso ligneo del XVIII sec. e l’elegante sarcofago di Giovanni Collorà e la pregevole lapide sepolcrale di Martino Taviano (1747).  In un acroterio, sopra il portale principale, è scolpito l’anno (1701) di ristrutturazione dell'edificio.

All’interno della chiesa oggi è allestito il Museo d'Arte sacra. La ricca esposizione di opere d'arte, provenienti in gran parte dalle antiche Chiese presenti nel territorio e  realizzate su committenza da abili artigiani locali, è suddivisa nella sezione dei paramenti e nella sezione degli argenti; quest'ultima, allogata nella sagrestia, custodisce uno splendido ostensorio impreziosito da diamanti e perle realizzato nel XVII sec. da Filippo Juvarra . Il Monastero di S. Michele Arcangelo (Abbazia basiliana), monumento fondamentale della storia del paese, fu ricostruito nel 1084 dal Gran Conte Ruggero di Altavilla, su una superficie di tremila metri quadrati.

Distrutto nel 1450 dalle fondamenta, a causa di un violentissimo terremoto, fu riedificato subito dopo per intero, sulla base del preesistente, ad iniziativa dell'arcivescovo Giovanni Burgio, che nel 1449 l'abate Cardinale Bessarione aveva costituito luogotenente e governatore generale di tutte le chiese di cui egli era titolare. Dell'originario complesso, destinato nel 1879 a cimitero, avanzano solo il chiostro, nelle cui arcate sono state allogate le cappelle gentilizie, e il campanile della chiesa con la guglia ottagonale, rivestita da piastrelle maiolicate, che reca in cima l'immagine di S. Michele, forgiata in lamiera di ferro. Rimangono anche tratti della cinta muraria e dell'arco d'ingresso alla chiesa sul lato nord; su quest'ultimo si legge la data del 1556. A sud sono ancora visibili lo stipite e l'architrave di un portale di accesso al chiostro, nonchè, nei paraggi, una vasca di irrigazione al servizio del giardino ed un antico frantoio. Reperti di capitelli, colonne e fregi sono sparsi qua e la. La chiesa è crollata nel 1923. Nella cripta sotto l'abside esiste ancora un pregevole affresco d'epoca, delle dimensioni di cm 50-70 circa, in ottimo stato di conservazione, effigiante il Crocifisso.

L’abitato di S. Angelo di Brolo è tipico medioevale ben rappresentato dal complesso dei palazzi nobiliari ed aristocratici e dalle suggestive viuzze dove resistono testimonianze di un antico prestigio storico e culturale ma anche di attività artigianali e commerciali. Sulla piazza Vittorio Emanuele, alberata attorno al monumento ai caduti, prospettano i palazzi gentilizi con portali scolpiti in arenaria e ringhiere in ferro battuto, testimonianza dell'esercizio di arti e mestieri, ancora fiorenti. Vi si affaccia anche la prestigiosa sede del Circolo "Il Sole", fondato nel 1860. Da vedere anche il Carcere borbonico, l’Arco a Sesto Acuto (detto “u Cappelluni”).
Poco lontano a monte del borgo vi è un’antica  preziosa Icona di S.Michele Arcangelo risalente al sec.XI.

 


 

Tradizioni

 

Molto sentiti e di grande partecipazione sono i riti religiosi: il Venerdì Santo; la festa patronale del SS. Crocifisso (13-14 agosto); la festa di Maria S. Michele Arcangelo (29 settembre); il Presepe Vivente (periodo natalizio). Tipiche sono poi la Fiera del Bestiame (settembre) e sagra del salame santangiolese (3-6 agosto) prodotto noto in Italia ed all’estero.
Caratteristica, a Sant'Angelo, è poi la festa della "benedizione dei lauri", che si celebra il giorno dell'Epifania, con la processione in chiesa di un bambino vestito da Angelo, che rievoca antichi riti religiosi del periodo in cui l'Abate Basiliano ebbe la giurisdizione sul paese.

Personaggi: Sant'Angelo ha dati i natali a vari illustri personaggi della storia e della cultura locale e nazionale tra cui: lo scultore Francesco Terranova, autore di un pregevole baldacchino del 1737 custodito nella chiesa Madre di Montalbano Elicona, e di altre pregevoli opere, fra cui un bel coro nella locale chiesa di San Nicolò;
lo scienziato Ignazio Caldarera, direttore dell'Orto Botanico di Palermo ed autore di varie pubblicazioni;
il prof. Armando Saitta, docente di Storia e Filosofia all'Università di Pisa, membro di diverse Accademie italiane e straniere, ed autore di numerosissime pubblicazioni storiche e filosofiche e di parecchi testi universitari ed infine
Achille Saitta, (1898 –1981) che è stato uno noto scrittore, giornalista e commediografo.

Curiosità: Famosa a Sant’Angelo è la Leggenda di Pietra Zita che accenna alla esistenza, nella località che porta tale nome, di un ingente tesoro ivi nascosto, reso intangibile dalla sovrumana protezione di un incantesimo. Si tramanda che verso il sec. XV, ci fu un periodo durante il quale il territorio di S. Angelo era infestato dal brigantaggio. Una giovane promessa sposa venne rapita da alcuni banditi mentre stava per recarsi a nozze. Condotta con violenza presso il loro rifugio che si trovava in un luogo con delle caverne adiacenti ad un enorme masso (a cui è stato poi dato il nome di "Pietra Zita" cioè della fidanzata), la ragazza si ribellò decisamente non volendosi prestare alle voglie del brutale capo dei briganti. Quest’ultimo, respinto e preso dall'ira, la uccise dopo averle detto: "Custodirai col tuo sangue il tesoro che qui nascosto! ". Il “tesoro” costituito dalla refurtiva di quei briganti, sarebbe pertanto rimasto nei secoli sotto la custodia di quell’incantesimo.

 

 

 

 

di Michele Cappotto

 

Altitudine: m. 30 s.l.m.

Etimologia: Il nome del paese deriva da una chiesa dedicata a Sant'Agata e da “meleto” che significa "campo di mele" legato all’attuale Militello Rosmarino.

Abitanti: santagatesi (13.102 unità nel 2008)

Densità: 391 unità per Km/q

Patrono: San Giuseppe (festa il 19 marzo)

Affacciata sulla costa tirrenica dei Nebrodi, S. Agata è circondata da floride campagne ricche di boschi, uliveti ed agrumeti specie lungo il Fiume dell'Inganno. Tra i prodotti locali ricordiamo appunto la qualificata produzione di agrumi (limoni ed arance) e frutta varia, di eccellente olio e grano. Di ottima fattura i prodotti artigianali quali il ricamo e i manufatti in ferro battuto. Gli allevamenti presenti sono quelli di ovini, bovini, suini e cavalli con produzione di latte, formaggi e derivati tipici. Rinomata e di gloriosa tradizione la lavorazione dei marmi rossi.

Personaggi : Vincenzo Consolo (Sant'Agata di Militello, 18 febbraio 1933) è uno scrittore e saggista.
Nato e cresciuto a Sant’Agata, dal 1969 vive e lavora a Milano. Nel 1992 ha vinto il prestigioso  Premio Strega con il romanzo “Nottetempo, casa per casa”. Vincenzo Consolo è considerato uno dei maggiori narratori italiani viventi. La sua scrittura unisce la passione civile a una colta ricerca linguistica. Ha pure vinto il Premio Pirandello con il romanzo Lunaria (1985), il Premio Grinzane Cavour con “Retablo” (1988) e il Premio Internazionale Unione Latina con “L’olivo e l’olivastro” (1994).

 


 

Storia

 

Le origini urbane del luogo possono ricondursi ai popoli sicano e greco. Con l’avvento dei Romani (VII secolo) si hanno le prome certezze storiche. Infatti nel 1902 fu ritrovata una lapide romana dedicata ad un certo Caninio Aniceto mentre tra il 1979 ed il 1985 altri reperti tra cui vasellame, anfore olearie, piatti e manufatti vari risalenti fino al periodo tardo imperiale. Con il disfacimento dell’Impero Romano si afferma la dominazione greco-bizantina e l’inizio degli insediamenti di Conventi Basiliani, torri d’avvistamento e nuclei abitativi arroccati sui monti vicini.

In tale contesto la nascita della litoranea S.Agata è da ricollegarsi a quella del borgo più a monte di “Melitum” (Militello Rosmarino) sorto a partire dal XI secolo intorno al castello normanno dopo la cacciata degli Arabi. In tale periodo fu costruita una torre a difesa del litorale e per comunicare con il castello di Militello.

Nel 1573, divenuto signore di Militello, Girolamo Gallego, di origine aragonese, avviò un processo di urbanizzazione intorno alla torre di S.Agata in una prospettiva di  rafforzamento della difesa costiera. La torre fu rinforzata da altre torri e corpi di fabbrica divenendo un vero e proprio castello. Questo sviluppo continuò nel XVII secolo tanto da creare un vero e proprio centro urbano. Nel 1657 infatti, i Gallego, nel frattempo divenuti duchi e poi principi, ottennero la  “licentia populandi” da Re Filippo IV. Nel 1700 gli stessi ottennero anche il privilegio di istituire una fiera che divenne negli anni un sempre più importante e tradizionale appuntamento di mercato e scambio di tutta l’economia pastorale ed agricola dei paesi nebroidei.

Nel 1821 i Gallego decisero di abbandonare il castello di Militello e di trasferirsi stabilmente in quello di S. Agata. L’incremento demografico e le maggiori possibilità di lavoro e di commercio consentirono a S. Agata di acquisire più importanza di Militello. Di qui l’autonomia da quest’ultimo avvenuta nel 1857.

 


 

Beni Culturali

 

Primo nucleo storico di S. Agata è il Castello Gallego il cui attuale aspetto risale al XVI secolo.
Sorto intorno ad una torre di presidio aragonese (sec.XIII) fu man mano ampliato e rinforzato con l’edificazione dei corpi di fabbrica che cingono la corte in due elevazioni fuori terra. La pianta è a trapezio con la base minore verso il mare munita di due massicce torri cilindriche contraffortate. Quella ad est è la più antica detta saracena perché sembra risalire al periodo medievale. I lati di collegamento ospitano al piano terra i locali di servizio ed una cappella. Al primo piano le stanze di residenza. Sul lato ovest si trova un piano seminterrato che compensa il dislivello tra i prospetti anteriore e posteriore che fu adibito a carcere. Al centro della facciata interna vi è il portale d’ingresso affiancato dai fori di scorrimento per il ponte elevatoio o di una controporta. Esternamente la struttura si presenta in pietra lasciata “a vista”.

Al castello è annessa la settecentesca Chiesa dell’Addolorata quale cappella di palazzo. Presenta un fronte semplice ma con un elegante portale sulla sommità di una gradinata di marmo,  sormontato da una finestra circolare, un campanile aperto e la Torre dell’orologio. Presenta una sola navata con tre altari laterali (due a dx) in marmo policromo ed un presbiterio rialzato oltre l’arco trionfale. L’altare, anch’esso in marmo policromo, è sormontato da un bellissimo Crocifisso attribuito a Filippo Quattrocchi (1700) e circondato da un pregevole coro in legno.
All’interno si possono ammirare una settecentesca tela di S. Agata Martire e quella del Miracolo di San Biagio (D’Antoni 1862). Di grande pregio è anche la settecentesca statua lignea della Madonna Addolorata. Arredano altresì la chiesa gli affreschi sul soffitto e sull’abside una particolare acquasantiera in marmo rosso ad alcune lapidi gentilizie.

La Chiesa Madre (Duomo) dedicata alla Madonna del Carmelo è una bellissima costruzione realizzata tra il 1842 ed il 1863 in stile neoclassico a tre navate con pilastri che sorreggono una massiccia cornice sulla quale si imposta una volta a botte finemente decorata. Presenta un profondo presbiterio e cappelle di fondo terminanti in grandi absidi. Sull’altare maggiore  circondato da un elegante coro ligneo e cantoria, spiccano tre opere del pittore Michele Amoroso (1957) raffiguranti scene del Vangelo.

Bellissimi sono gli altari minori barocchi in marmo intarsiato e decorato con le rispettive statue: quello del Sacro Cuore (di fattura francese con tabernacolo marmoreo di scuola gaginiana), dell’Immacolata (Bagnasco figlio 1887), del Crocifisso (di fattura palermitana) e di San Giuseppe col Bambino (Bagnasco figlio  1883). Sono presenti pure delle pregevoli tele raffiguranti la Pietà (G. Barchitta di Scordia nel 1906),  la Madonna del Carmelo (Francesco Nachera di Patti fine ‘800), Madonna del Rosario (di fattura fiorentina fine ‘800), San Agata e Santa Lucia (opera di fine ‘800 del Padre Cappuccino Antonio Balsamo di Motta S. Anastasia).

Arredano infine la chiesa un organo realizzato nel 1870 da Pietro La Grassa di Palermo ed un’ Urna di Gesù Morto (1951).
Il centro cittadino  è caratterizzato da eleganti palazzi ottocenteschi appartenuti a intraprendenti proprietari terrieri e ricchi commercianti che gareggiavano in sontuosità e decorazioni negli stili neoclassici e liberty. Esempi specifici sono
Palazzo Gentile (1880), Palazzo Faraci (1907), Palazzo Zito (1900), Palazzo Comunale (1825). Ritrovo dei Notabili fu il Casino di Compagnia (o Circolo della Cultura) realizzato nel 1860 nella centrale piazza Vittorio Emanuele.
Porta di Mare: Si tratta di un edificio ad arco in stile neoclassico realizzato alla fine del Settecento che costituì l’accesso principale alla cittadina attraverso l’antica via dei Pioppi oggi via Roma. Presenta ai lati due finestre i cui locali erano adibite a prigione. Di notevole significato è la statuetta di S. Agata che figura sulla chiave di volta dell’arco della porta, realizzata in pietra e caratterizzata dal ricco e fluente panneggio delle vesti, retaggio di un gusto barocco associato ad una particolare solennità dell’atteggiamento.

Tappa culturale del percorso turistico cittadino è il Museo Etnoantropologico dei Nebrodi. Istituito nel 1983 raccoglie una collezione etno-antropologica di attrezzi di lavoro, prodotti artigianali, arredi e costumi dei centri dei Nebrodi. Esso prevede una suddivisione in tre sezioni: la donna ed il lavoro femminile; la vita ed il lavoro pastorale e contadino; il folclore e il sentimento religioso.

 

 


 

Tradizioni

 

La Fiera Storica di Sant’Agata di Militello è la manifestazione più antica ed importante non solo per la comunità santagatese, ma per tutto l’hinterland ed anche al di fuori del territorio regionale. Risale infatti al medioevo e si è sviluppata con sempre maggiore fortuna per l’affermarsi del comune nebroideo quale nodale punto di scambi. Si svolge nei mesi di aprile e di novembre, nei giorni 14 e 15, costituendo il primo e l’ultimo raduno dell’anno per mercanti e compratori. Al mercato dei generi di consumo, che si svolge lungo il Viale della Regione Siciliana, si affianca quello tradizionale del bestiame, che prima aveva luogo sulla spiaggia mentre oggi e stato dirottato in un ampio spazio nei pressi  del vecchio "macello" comunale in prossimità del torrente "Inganno".  Come momento di incontro rappresenta assume un grande significato tanto dal punto di vista culturale, sociale ed economico per tutti gli operatori ed abitanti dell’intero territorio dei Nebrodi. Malgrado la crisi che interessa da tempo il settore zootecnico, la fiera di novembre conserva ancora una propria positiva consistenza.

Per quanto riguarda le tradizioni religiose, la festa più sentita è quella del Santo Patrono San Giuseppe il giorno 19 marzo. Dopo la celebrazione della Santa Messa si svolge lungo le vie del paese la solenne Processione.
La seconda domenica di agosto si svolge la replica di tale festa, istituita per gli emigranti. Alla Processione seguono eventi musicali giochi e fuochi pirotecnici. Da ricordare anche la festa della Madonna dei Pescatori la prima domenica di agosto con la processione in mare di barche addobbate ed illuminate.

 

 

di Michele Cappotto

 

La processione della Madonna della Catena che è la prima patrona di San Piero. Il suo culto ebbe inizio a Palermo dove si narra sia avvenuto il miracolo della liberazione di alcuni condannati a morte da parte della Madonna. Fu la famiglia degli Orioles che incoraggiò la diffusione della devozione nei confronti di questa madonna in San Piero e in tutti i comuni vicini. La festa di S. Biagio ricade la prima domenica di ottobre perché i sampietrini coglievano l'occasione sia per ringraziare il santo patrono per il raccolto e per dare vita alla fiera cittadina basata sul mercato delle nocciole. Nel tempo di Pasqua si celebra la processione delle "Varette" che si svolge in maniera suggestiva la notte del Venerdi Santo: al lume delle torce le donne vestite di nero portano in processione l'Addolorata, cioè la sacra immagine conservata nella chiesa di Santa Maria, nel cui sguardo è scolpito tutto il dolore di una madre per il figlio morto.

Ai fabbri ferrai è affidato il Crocifisso in segno di pentimento per avere costruito i chiodi della crocifissione; ai muratori l'Ecce Homo; agli studenti il Gesù Morto; ai contadini il Cristo penitente nell'orto. La congregazione degli incappucciati infine accompagna l'intera processione. Si tratta infatti di uomini avvolti in un saio nero che mostrano solo gli occhi attraverso due fori del cappuccio.
Come espressioni sociali e folcloristiche della citta' si annoverano altresì il Corteo Storico e la “Dama Castellana” che si organizzano a luglio e ad agosto. Il corteo, in particolare, rievoca la visita di re Federico d’Aragona che si svolse dal 3 al 9 dicembre del 1356 in un contesto storico importante; nel paese infatti vi era stata una sommossa popolare contro il barone Orioles che si comportava in maniera ingiusta e crudele nei confronti dei suoi sudditi. Il Re Federico venne con l’ intenzione di domare la rivolta ma, sentite le giustificazioni dei sampietrini, rese loro giustizia e fu per sei giorni onorato e festeggiato.

Di grande fama ed effetto è la tradizionale sfilata di carri del “Carnevale sampietrino”, con grande tripudio di musica e colori,  che si svolge la domenica successiva al giovedì grasso.

 


 

Storia

 

Antichissimo centro le cui origini risalgono al tempo della colonizzazione greca della Sicilia. I Greci chiamarono la zona “Petra” (roccia) che successivamente sarebbe diventata “Santus Petrus”. Ma è anche probabile che tale nome derivi da un monastero delle suore Benedettine risalente al 730 d.c. chiamato appunto San Pietro e che oggi ospita il palazzo Municipale. Nel corso dei secoli ebbe un grande sviluppo sotto il dominio degli Arabi (827) che si integrarono perfettamente con la popolazione locale tanto che ne è testimonianza l’omonimo quartiere che ancora oggi porta il nome di Arabile, sul versante meridionale a ridosso del fiume, caratterizzato da case piccole, addossate e strette stradine scalini in pietra.

I Normanni a loro volta  hanno lasciato tracce indelebili della loro civiltà nell’architettura e persino nel linguaggio: i suoi abitanti infatti parlano un dialetto particolare che ha specifiche influenze piemontesi e provenzali a causa della fusione di quello locale con quello dei soldati al seguito di Ruggero d’Altavilla provenienti dal Monferrato (1100 circa). San Piero divenne dominio regio per passare poi al dominio feudale

e alla baronia. Si susseguirono varie baronie: dagli eredi del giudice De Manna, ai baroni Orioles, Caccamo-Orioles ed  infine i Corvino-Orioles(1812). Nel periodo risorgimentale molti furono i sampietrini che seguirono Garibaldi nella campagna contro i Borboni.

 


 

Beni Culturali

 

Il centro storico offre subito la bellezza architettonica della cinquecentesca Chiesa di Santa Maria, che presenta rifiniture artistiche non comuni tanto da essere infatti  ritenuta una delle chiese più belle della provincia.

All’esterno, accanto alla bellissima facciata adornata da un portale datato 1580 e da sette statue di santi, si trova il maestoso campanile barocco, alto più di trenta metri arricchito con finestre scolpite e unito alla chiesa con attraverso un’arco romanico.

L’interno è caratterizzato da un bellissimo soffitto in legno scolpito a cassettoni ottagonali con al centro un alto rilievo della Madonna Assunta, dorata in oro zecchino, circondata da angeli. L’interno è a tre navate: bellissime sono le colonne, le arcate, il portale della sacrestia e le finestre realizzate in pietra locale finemente scolpita. Bellissimi il pulpito, la fonte battesimale e l’ambone tutti in marmo rosso.

Poco distante dal centro si trova il Convento dei Carmelitani Calzati, dalla struttura architettonica sobria ma con il suo bel portale in pietra arenaria finemente intagliata sormontato da un robusto frontone sorretto da due colonne con capitelli corinzi. Ampio il chiostro, ma anche i locali interni, non solo quelli destinati alle attività lavorative comuni dei frati ma anche le celle destinate alla loro vita privata, cosa questa non consueta per una simile struttura. Il convento custodiva pure una famosa biblioteca che però è andata perduta.

Fondato nel 1570 fu attivo fino al 1866 anno in cui avvenne la confisca di tutti i beni della curia ecclesiale. Dopo anni di indifferenza ed abbandono il convento è stato finalmente recuperato e ristrutturato anche per essere destinato ad attività espositive e convegni, e conserva ancora oggi in parte alcuni elementi dell’originaria bellezza.

L’attigua chiesa, ad una navata separata dal transetto da un ampio arco, è dedicata alla Madonna del Carmine la cui statua marmorea è custodita sul bellissimo altare centrale in stile barocco. Da ammirare sono poi gli affreschi, di splendida fattura, tra cui uno grandioso al centro del soffitto, datato 1722 realizzato dal maestro Spanò, già alunno del convento. Interessanti anche tre antiche tele che raffigurano San Francesco da Paola, il Profeta Elia e S. Umberto con episodi della sua vita. Ubicata sotto la chiesa è la cripta dei frati: un tesoro di storia, tradizioni e di civiltà ancora tutto da recuperare e rivalorizzare.

Il Duomo invece risale alla seconda metà del 1300; è stato più volte ristrutturato nel corso dei secoli a causa di terremoti (specie quello del 1783). Presenta al suo interno preziose opere di scultura della scuola del Gagini come Maria SS. dell'Idria e di S. Caterina da Siena.

Da ammirare infine la Chiesa della Madonna delle Grazie, costruita nel 1611 è una struttura architettonica semplice con un bel campanile e con un portale in pietra arenaria  sormontato da un piccolo tabernacolo con timpano. All’interno due lesene sormontate da capitelli corinzi ornano l’unico Altare. Originale e molto graziosa è la cupola del campanile a forma di piramide costituita da numerosi semidischi di ceramica colorata e sormontata da una Croce.

Nella zona centrale del borgo, oltre ad abitazioni nobiliari caratterizzate da pregevoli affreschi (Palazzo Boscogrande),  si trova una bellissima opera del barocco siciliano: la monumentale fontana di San Vito. Essa venne eretta nel 1686 per volere di Giuseppe Caccamo barone di San Piero Patti. E’ caratterizzata dalla forma piramidale sopra una gradinata di marmo. L’altra monumentale fontana è quella del Tocco (costruita nel 1875 in marmo bianco di carrara) sita presso il sagrato della Chiesa di S. Maria.

 

 


 

Tradizioni

 

La processione della Madonna della Catena che è la prima patrona di San Piero. Il suo culto ebbe inizio a Palermo dove si narra sia avvenuto il miracolo della liberazione di alcuni condannati a morte da parte della Madonna. Fu la famiglia degli Orioles che incoraggiò la diffusione della devozione nei confronti di questa madonna in San Piero e in tutti i comuni vicini. La festa di S. Biagio ricade la prima domenica di ottobre perché i sampietrini coglievano l'occasione sia per ringraziare il santo patrono per il raccolto e per dare vita alla fiera cittadina basata sul mercato delle nocciole. Nel tempo di Pasqua si celebra la processione delle "Varette" che si svolge in maniera suggestiva la notte del Venerdi Santo: al lume delle torce le donne vestite di nero portano in processione l'Addolorata, cioè la sacra immagine conservata nella chiesa di Santa Maria, nel cui sguardo è scolpito tutto il dolore di una madre per il figlio morto.

Ai fabbri ferrai è affidato il Crocifisso in segno di pentimento per avere costruito i chiodi della crocifissione; ai muratori l'Ecce Homo; agli studenti il Gesù Morto; ai contadini il Cristo penitente nell'orto. La congregazione degli incappucciati infine accompagna l'intera processione. Si tratta infatti di uomini avvolti in un saio nero che mostrano solo gli occhi attraverso due fori del cappuccio.
Come espressioni sociali e folcloristiche della citta' si annoverano altresì il Corteo Storico e la “Dama Castellana” che si organizzano a luglio e ad agosto. Il corteo, in particolare, rievoca la visita di re Federico d’Aragona che si svolse dal 3 al 9 dicembre del 1356 in un contesto storico importante; nel paese infatti vi era stata una sommossa popolare contro il barone Orioles che si comportava in maniera ingiusta e crudele nei confronti dei suoi sudditi. Il Re Federico venne con l’ intenzione di domare la rivolta ma, sentite le giustificazioni dei sampietrini, rese loro giustizia e fu per sei giorni onorato e festeggiato. Di grande fama ed effetto è la tradizionale sfilata di carri del “Carnevale sampietrino”, con grande tripudio di musica e colori, che si svolge la domenica successiva al giovedì grasso.

 

 

 

 

 

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