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Il Panificio "Cannavò"

- di Marco Giuffrida -

Ricordo dell’immediato dopoguerra:“le Tessere”. Indispensabili!
Cartoncini colorati, celesti, rosa, bianchi, pieni di caselline; ognuna riportava nome e cognome ma, soprattutto, indicava la quantità di pane che si poteva acquistare. Maschi adulti un tot, femmine adulte una quantità inferiore e, infine, per i ragazzi la quantità anche per loro assegnata dalla Legge.Il pane era razionato.Oltre a quanto prescritto non era possibile averne, salvo che comprarlo alla “borsa nera”.

Dunque, al panificio si presentavano le tessere della famiglia ottenendo la corrispondente quantità giornaliera e, da ogni tessera, veniva ritagliata la casellina corrispondente a quello specifico giorno di quella specifica settimana.
Non era molto il pane che veniva portato a casa ma era, comunque, una buona “base” per riempire gli stomachi insaziabili di noi ragazzi.
Per mano di mamma, con la zia Rosetta e la Signora “Annina” si andava al Panificio Cannavò.
Giù per il Torrente Boccetta, una traversa prima del mare, si girava a destra e si proseguiva un pò.
Il saluto d’obbligo al barbiere che insaponava o radeva visi senza sbagliare un movimento pur riuscendo a ossequiare chi, dei suoi clienti, passava in strada.
Io, bambino, ero già un suo cliente......

A seconda di come tirava il vento, si poteva capire della vicinanza del forno che spandeva nell’aria un magnifico ed invitante profumo.
Ancora qualche passo e, finalmente, il Panificio Cannavò.....
E ci si immergeva subito nel vociare della gente in attesa del proprio turno addirittura fuori dalla bottega, sul marciapiede.
Lì, ognuno, del pane lamentava qualcosa:  la troppa umidità, gli errori nel pesare, la scarsa qualità e, ipotesi forse stravagante, quella che alla farina venisse aggiunta polvere di marmo per “fregare” sul peso e recuperare farina per la borsa nera.

A me bambinetto quel chiacchierio non interessava granché e, a furia di sentirle ripetere, quelle lamentele mi sono restate indelebilmente impresse nella memoria.

Io ero affascinato dal bancone dallo spesso ripiano di marmo bianco e dalle persone, dietro, che pesavano il pane e lo mettevano nei cartocci, tagliavano le caselline dalle variopinte tessere di cartoncino stropicciato, ritiravano i soldi e davano il resto. Tutto con una velocità impressionante.

Mi sembrava di essere più piccolo di quello che ero quando, arrivato il nostro turno, mi ci trovavo proprio sotto.
Il banco mi sembrava altissimo e, quel marmo bianco con le venature grigie, mi sembrava inspiegabilmente più bianco.
Sopra, impolverata dalla farina, l’unica grande bilancia, rossa con il piatto che sembrava una culla e con la colonnina sopra la quale vi era il grande quadrante che sembrava un orologio dall’unica lancetta. L’indice, nero, roteava velocemente, quando sul piatto gettavano il pane, ed indicava il peso che, velocemente, veniva letto e, con un rapido calcolo mentale, l’esercente poteva gridare il prezzo all’acquirente per superare il brusio della tanta gente in attesa..

Tutte le donne si raccomandavano di pesare giusto che, a casa, i “picciriddi” avevano fame......
Di tanto in tanto, dal forno appena dietro e ben visibile, arrivavano ceste di pane a sostituire quelle che rapidamente si erano svuotate.

E le pesate si susseguivano veloci.
Veloci erano le forbici che tagliavano le caselline delle tessere.
Veloci erano le mani che si scambiavano i soldi a pagare e a dare il resto.
Veloce era il saluto .....“Vossia benedica”..... e si usciva facendoci largo fra la gente che, vociando, era in attesa del proprio turno anche fuori dalla bottega.

Mi giravo.......

L’indice nero della bilancia continuava a roteare rapido sul quadrante bianco di quell’unica bilancia rossa del Panificio Cannavò e potevo sentire, anche in lontananza, la voce che indicava il prezzo, superando il forte brusio e, infine, il “Vossia” o il “Voscenza benedica”......

Ultima modifica il Lunedì, 10 Ottobre 2016 08:13
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