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DIALOGO DI UN GIORNALISTA E DI UN PROFESSORE SULL’UNIVERSITÁ

 

Professore, ci aiuti a capire: c’è o non c’è rapporto tra l’attuale fase di declino dell’Università italiana (documentata da tutte le graduatorie nazionali e internazionali) e il progressivo familismo, nepotismo, clientelismo che ne invade le strutture, come evidenzia anche il sitocercauniversita.cineca.it., e come si apprende dai giornali un giorno sì e l’altro pure?

Sì, c’è. L’Università è, notoriamente, una delle grandi malate della nostra nazione: non si può coprire il sole con un dito per malinteso amor di patria o di campanile. Ma bisogna distinguere: c’è ancora oggi un’Università sana, seria, impegnata, attiva. Anche qui, a Messina. Dobbiamo tutti lottare contro l’Università del nepotismo, del pressappochismo culturale, del provincialismo miope, del clientelismo, del facilismo concorsuale, che grava, come un inutile barraccone, sulle spalle del contribuente: serve solo «a portare in cattedra somari e somare», come diceva Giuseppe Petronio, «per diritto ereditario o per meriti di letto e di servizio (servitù n.d.r.)».

Per restare a Messina, si direbbe che il nostro Ateneo, non goda di buona salute sul terreno scientifico e professionale: negli ultimi trent’anni, si contano sulle dita di una mano gli studiosi la cui fama ha oltrepassato i confini dello Stretto.

Abbiamo l’obbligo di guardare in faccia la realtà: le illusioni sono dei bambini e dei mistificatori. In effetti, dopo la generazione postbellica dei Pugliatti, dei Falzea, dei Panuccio, dei Mazzarino (per citare i primi nomi che vengono alla memoria), la pianta sembra essersi inaridita. Frutti buoni ancora se ne raccolgono, ma sempre meno. Certo, la desertificazione non è solo locale e le cause sono molteplici. L’Università di Messina, poi, non è fuori del mondo: non è, né può essere, immune dai difetti obiettivi, storici del territorio su cui gravita: mentalità clientelare, assistenziale; menefreghismo (minnifuttu), mancanza di imprenditorialità, di posti di lavoro, di una vera, degna classe dirigente. Epperò, la riforma dell’Università fa tutt’uno con la riforma della società e della politica messinese nel suo complesso: Messina o si salva tutta (ma non con i metodi, le politiche d’antan) o si perde tutta, definitivamente. La stampa può e deve appoggiare questo tentativo: la città e l’Università hanno bisogno di un salutare scossone. Messina potrebbe, invero, diventare (o ridiventare), per la sua stessa posizione geografica, una sorta di cerniera internazionale, tra continenti diversi, con grande vantaggio della ricerca, dell’economia, del lavoro e dei giovani, soprattutto, che qui, stando così le cose, o scoppiano o scappano.

 

Pensa che la recente riforma universitaria abbia mutato la gestione di quest’istituzione in meglio o in peggio?

 

Ci sono tutti e due gli aspetti. L’autonomia, per esempio, vero perno della riforma, ha consentito una maggiore considerazione delle realtà locali e delle nuove professioni, ma, ampliando a dismisura i corsi di laurea e le materie d’insegnamento, ha spesso prodotto insegnanti improvvisati (e raccomandati), che non hanno – ovviamente – insegnato niente a nessuno, nonché enormi sperperi di tempo, di risorse e d’intelligenze: non pochi giovani ricercatori, oppressi da forti carichi didattici, non hanno più fatto ricerca. Per non dire della divaricazione netta tra la gestione dell’Università e la ricerca scientifica. Nel senso che un professore non può più fare ambedue le cose. Perciò, chi si dedica a una delle tante attività gestionali non fa, di norma, altro. C’è, però, qualcosa di buono nella riforma: per esempio, la fine delle Facoltà, che erano diventate una gabbia, una camicia di Nesso, per la ricerca e la didattica, nonché un inutile, anche oneroso (economicamente) doppione. Ma la riforma dipartimentale rischia di diventare una riforma a metà, se non si passa alla creazione di “Scuole” tra Dipartimenti omogenei, come suggerisce la riforma, per evitare che i Dipartimenti divengano monocrazie parcellizzate e ugualmente costose. Va anche nel senso giusto, in teoria, la Valutazione della Ricerca. È pure preferibile, almeno sulla carta, il nuovo sistema di reclutamento dei docenti, ma il migliore, tra quelli finora sperimentati, resta il sistema anglosassone: vedi ROARS. Non si dimentichi, infine, che un colpo mortale potrebbe avere inferto all’Università la politica dei tagli governativi alla ricerca. Si può, dunque, sperare. Si deve lottare. Ma non c’è da stare allegri.

 

Non dovrebbero farsi sentire di più i professori preparati come lei che, con i suoi studi «innovativi», pare abbia rivoluzionato la critica alfieriana? Sembra che i bravi si defilino, rassegnandosi allo status quo e divenendo praticamente complici del degrado.

Ci sono tanti professori preparati a Messina. Io faccio quello che posso e non vorrei fare la figura del grillo parlante. Dirò, per conforto dei giovani capaci e sprotetti, che non ho mai portato la borsa ad alcuno e che sono diventato professore ordinario di Letteratura Italiana, pur non avendo un “maestro” alle spalle – a Messina non c’era, ai miei tempi, una Scuola di Letteratura Italiana – e nonostante gli impedimenti locali. Epperò credo che solo lo spirito di Colapesce, che condivido con tutti gli uomini di mare, mi ha consentito di portare a compimento l’impresa alfieriana cui lei accennava. Io ho patito il clientelismo vecchio e nuovo: ne conosco i malefici effetti. Comunque, il sistema baronale langue e io, toccando ferro, sono vivo.

 

Se un giovane capace volesse oggi intraprendere la carriera universitaria, che cosa si sentirebbe di consigliargli, magari per evitare di ripetere degli errori che spesso vengono commessi?

 

Che sia libero e difenda la sua libertà-dignità; che sia spinto da un forte desiderio di sapere e di portare un poco di ordine nel caos dell’universo: in ciò consiste la vocazione alla ricerca. E che scelga soprattutto un vero maestro, cioè un professore che ha fatto fare un passo in avanti alla sua disciplina. I professori universitari, soprattutto ordinari, che non hanno modificato nemmeno di una virgola la loro disciplina, magari fanno i professori universitari, ma non lo sono.

Ultima modifica il Lunedì, 08 Gennaio 2018 18:47
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