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- di Marco Giuffrida -

Dopo alcuni tentativi di farmi frequentare l’asilo presso il “Collegio Sant’Anna”, lì, vicino casa, fu deciso che mi avrebbero iscritto, già in seconda elementare, presso i Salesiani.

In fondo, non ero interessato ad essere, al Sant’Anna, l’unico maschietto accolto in via sperimentale.

E fu così che, a quattro anni compiuti, cinque li avrei fatti poco dopo l’iscrizione e sei li avrei avuti “nell’anno scolastico in corso” (che era il successivo), nel pieno rispetto della Legge, fui accolto nelle Scuole Elementari del Salesiani.

Ma, grande problema, sapevo già leggere e scrivere dato che avevo imparato, praticamente, da solo. Ero un po’ andato controcorrente avendo iniziato a mettere, per prime, nero su bianco, parole come “cacca” e “pipì” e non mamma e papà, come sarebbe stato più opportuno e dignitoso.

Ero pure stato rimproverato ed uno scapaccione aveva siglato il successo della mia bravura ma, visto che a quelle parole sconvenienti ne avevo aggiunte molte altre, non potevo più andare in prima e, per questo, fui passato, direttamente alla seconda elementare.

Ogni mattina uscivo presto di casa perchè, prima delle lezioni, la giornata iniziava, obbligatoriamente, con la Messa.

Allora era in latino e parole come “ite”, “tantum”, “vobiscum” e “santificetur” mi affascinavano pur non comprendendone, assolutamente e naturalmente, il significato.

Il Maestro della seconda elementare, abbastanza giovane, era un laico che metteva soggezione solo a guardarlo.

Sembrava uscito dall’Inferno.

Quell’Inferno che, accuratamente, ci veniva descritto dai preti come deterrente a non commettere peccati.

“Dovete essere buoni e puri come il Beato Domenico Savio”, ci ripetevano.....

E “Lui”, il Maestro, Domenico Pietrone, grande e grosso, con il vestito grigio scuro e la fascia del lutto su un braccio, ci  guardava dall’alto in basso e non sorrideva mai.

“E’ cattivo”, dicevamo tutti. “E, per sembrare ancora più cattivo, si è anche fatto crescere la barba”, aggiungevamo.

Nero di capelli, nero di barba.... nero di umore.

            Non andavo malaccio a scuola .... solo, in disegno, dicevano, non avevo la mano felice.......

La mattinata scolastica si concludeva con un’ora al giorno di Religione.

Per questo, il rientro a casa, era appena prima delle due del pomeriggio.

Giusto il tempo di pranzare, prima che rientrasse dal lavoro il papà,  verso le quattordici e trenta..

Ho tanto invidiato quegli amici che andavano alla Scuola Pubblica: dalle otto alle dodici!

Terminata la seconda elementare, venne deciso che, visto che la terza era una ripetizione della seconda, tanto valeva che restassi lì “a rafforzarmi”.

E mi rafforzai al punto che, ripetuta quella classe, sempre per accordi fra i “Salesiani” e mio padre, sostenni un esame per passare, direttamente, dalla seconda in quarta!

Le ultime due classi delle Elementari presso i Salesiani hanno poca storia..... salvo la presenza costante, obbligatoria, all’Oratorio (allora “Beato Domenico Savio) tutti i pomeriggi liberi da impegni scolastici e, naturalmente, anche la domenica che si concludeva con la visione di qualche film del tipo “arrivano i nostri”.

Dopo “l’esame di ammissione” alle medie, con mia grande gioia, maggiore libertà e “risparmio di tempo”, frequentai la Scuola Media Pubblica.

Purtroppo non ne ricordo il nome ed i documenti, come le pagelle, sono andati persi o eliminati nei traslochi.

Si, quella Scuola doveva essere, partendo dal Torrente Boccetta ed andando verso il centro”, all’incirca, in fondo a Via Oratorio della Pace.

Anche se non ricordo il nome della Scuola, ricordo, ancora, il nome dell’insegnante di lettere: Guerrisi.

Vincenzo Guerrisi.

L’ho avuto dalla prima alla terza.

Un Uomo austero, severo ma di grandi capacità e, soprattutto, di grande umanità. Appassionato del suo lavoro e ottimo comunicatore. Amava poeti inconsueti (poeti senza rime, dicevamo noi ragazzi), amava Saba, Quasimodo.

La Metrica, in latino, era la sua passione.

“Quis fuìt orrendòs primùs qui protulit enses?”

E traduceva......

“Chi fu, cosa orrenda, colui che per primo protese la spada?

Poi, riprendeva, nella “Lingua Madre”, calcando sugli accenti in modo musicale e appassionato.

Tutto quello che so e ricordo del latino lo devo al Lui ed anche a Lui devo il piacere di leggere e, a volte, di scrivere.

Era un Uomo, comunque, capace di far sorridere e che mi ha aiutato a guardare lontano.


- di Marco Giuffrida -

Lo zio Pippo aveva comperato una casetta a Ganzirri. Una di quelle casette affiancate, squadrate, con le grandi persiane verdi che si aprivano direttamente sul cortile con una improbabile recinzione. Alte acacie facevano ombra nelle calde giornate agostane. Ci era stato proibito d’arrampicarci su quegli alberi sia per l’altezza che per le lunghe ed appuntite spine dei rami.

Con pochi passi si poteva arrivare al Lago da un lato e si era, subito, a mare dall’altro.

Era bello giocare a “nascondersi” fra le dune di sabbia, dietro le barche dei pescatori tirate a riva o fra i primi massi che avevano portato e che dovevano servire per proteggere la riva dalle mareggiate.

Ci passammo un intero mese di agosto ospiti dello zio.

In fondo, era come continuare quella convivenza che si era vissuta nei giorni della guerra appena finita.

Unica differenza, ora, c’era il papà che partiva al mattino presto per andare al lavoro e rientrava nel primo pomeriggio.

Le giornate trascorrevano pigre fra mare, compiti delle vacanze (ah, quei famigerati quadernetti da compilare e riempire....) e qualche puntatine al lago con il compito di portare a casa i cartocci di cozze o qualche anguria ancora bagnata perché tenuta in fresco nell’acqua.

Ricordo le mattinate passate all’ombra delle acacie, il tavolino fuori, ed io a far di conto e scrivere “componimenti” ed a rispondere alle domandine del diabolico quadernetto.

Il frinire delle cicale mi teneva compagnia fino a quando....... non arrivava il permesso d’andare al mare.

Naturalmente accompagnati e sotto l’occhio vigile di almeno uno degli adulti.

Cinque ragazzi: le figlie dello zio Pippo, Graziella e Giulia, mio fratello Antonino, mio cugino Giovanni, io e, a sorvegliarci, la zia Rosetta e la mamma Adele ed. a volte, la nonna Graziella.

Naturalmente bisognava restare prossimi alla riva pena, disobbedendo, il rientro a casa a Messina dando l’addio al mare comodo comodo ed al divertimento.

E fu durante una di queste scorribande a mare che avvenne la scoperta ad una cinquantina di bracciate dalla riva.

Chi se ne accorse per primo fu Giovanni che riemerse con un aggeggio di metallo in mano. Lo tenne a pelo d’acqua per qualche istante e, poi, lo lascio ricadere.

Pochi istanti dopo, mio fratello ed io eravamo già sul posto a…. controllare.

Le cuginette, più piccole erano a riva a giocare sul bagnasciuga.

E fu un susseguirsi di immersioni ed emersioni, sempre portando a pelo d’acqua gli oggetti più piccoli (che ce ne erano di lunghi quanto noi ragazzi) per poi lasciarli ricadere.

Le donne, tranquille, osservavano l’attività senza riuscire a mettere a fuoco la situazione vuoi perché il sole le abbagliava, vuoi perché intente ad altro, vuoi perché mai avrebbero pensato che i loro figli e nipoti avessero nuotato, inconsciamente, sopra una polveriera!

Fu la nonna ad accorgersi e capire quando, lasciata casa, si era avvicinata alla riva per raggiungere la famiglia……..

Lanciò un urlo che ricordo ancora dopo sessant’anni! “I picciriddiiiii” più altre parole che neppure ci provo a scrivere in dialetto.

La zia Rosetta e la mamma Adele, a quel punto entrarono in azione a loro volta urlando di lasciare tutto e di tornare a riva.

Puntualmente obbedimmo e, per l’ultima volta, lasciammo cadere ciò che avevamo in mano e, fatte le cinquanta e più bracciate, tornammo, spaventati, a riva.

Chi avrebbe mai pensato alle bombe a mare e lì vicino alla riva?

Tutti i manifesti affissi negli androni delle scuole mostravano ordigni diversi, tutti da non toccare con, a fianco, le immagini di ragazzini senza una mano, senza una gamba…… Bombe che si trovavano semi sepolte fra le macerie o, addirittura, in bellavista…. Ma a mare…. Dentro il mare….

Tutti a casa!!!!

Attendemmo l’arrivo dello zio Pippo e del papà che, subito, furono messi al corrente di ciò che era accaduto.

Tutti restammo “consegnati” a casa.

La nonna, la zia e la mamma, quando parlottavano fra loro, nel ricordare l’accaduto, si mettevano a piangere. Noi, per contro, eravamo preoccupati, per castigo, di dover rientrare a Messina e perdere l’opportunità di avere il mare lì bello e che pronto, tutti i giorni e tutte le ore del giorno. Ma, tutto sommato eravamo convinti che fosse un’esagerazione delle donne di casa e che, quindi, più di una sgridata, non ci saremmo presi.

Verso le cinque, finalmente, il papà si decise a venir fuori dopo aver riposato che, fra andare da Ganzirri in città, il lavoro e rientrare dopo le quattordici, con il caldo estivo non era roba da poco.

E…. di nuovo, tutti al mare!!

Fu il più grande di noi, mio cugino Giovanni, che, a nuoto, accompagnò il papà a vedere ciò che aveva causato lo spavento delle donne di casa.

Il mare terso e la non eccessiva profondità confermarono immediatamente che, nonna, mamma e zia, non si erano sbagliate: adagiate sul fondale vi era un bel mucchietto di ordigni di diversa dimensione e lunghezza.

Il pomeriggio seguente erano già sul posto i Carabinieri che si fecero accompagnare in mare da un pescatore.

Guardarono bene, attraverso un bidone con il fondo di vetro immerso nell’acqua e, a riva, parlarono di, almeno, una cinquantina di ordigni.

Pochi giorni dopo vi fu un gran via vai di militari e, le bombe, caricate su una chiatta, furono portate al largo e fatte esplodere.

Ci assicurarono che non vi sarebbe stata una moria di pesci perchè si erano allontanati a causa del rumore e dal disturbo prodotti dalle imbarcazioni.

Fu un boato, quello dell’esplosione, che ricordò quelli, abbastanza recenti, che avevano tolto sonno e vita ai messinesi. Una colonna d’acqua si sollevò alta ma, dopo pochi minuti, il mare tornò tranquillo.

Scesero i sommozzatori a controllare che tutte le bombe fossero esplose. Poi, finalmente tornò la tranquillità.

Mangiammo molto pesce nei giorni successivi….. e non tornammo neppure a Messina.

Ci fu concesso, ancora, di fare il bagno ma, solo, sul bagnasciuga o poco più, in una zona ben definita e dopo un accuratissimo controllo dello zio e del papà……

I Manifesti

Mag 02, 2024

- di Marco Giuffrida -

Ancora nel ’48 potevo vedere, affissi all’interno degli androni delle scuole, i manifesti che ricordavano le “miserie” che la guerra, da poco finita, aveva seminato.

Grandi e coloratissimi, invitavano a non toccare e raccogliere nulla da terra ed ad usare la massima prudenza nel camminare in zone dove vi erano macerie non ancora rimosse.

Potevo osservare, non senza un pizzico di raccapriccio ed orrore, le immagini di un ragazzino senza una gamba e con le sue brave stampelle di legno e di un altro senza una mano con in bell’evidenza il moncherino fasciato.

“Loro” avevano preso e, poi, giocato con qualcosa di assolutamente pericoloso.

Ed ancora, scritte minacciose che intimavano, a ragione, di non toccare “oggetti come questi” e, sotto, vi erano sciorinate le immagini di bombe piccole e grandi, a mano, proiettili ed ordigni di ogni tipo.

L’impatto, entrando ed uscendo dalla scuola, era sempre piuttosto forte nel vedere le immagini di quei bambini e, a dire la verità, l’attenzione dei grandi era sempre massima.

Del resto (se la memoria non mi inganna o fuorvia), esisteva un “Istituto”, quello dei “Mutilatini” (forse di Don Gnocchi) che ospitava quei bambini che, a causa dell’esplosione di ordigni rinvenuti e con cui avevano giocato, o perché coinvolti in qualche bombardamento o mitragliamento, avevano perso un arto o erano restati gravemente menomati.

Anni duri ed allo stesso tempo pieni di speranza quelli dopo il 1945.

C’era, innanzi tutto da superare l’angoscia della guerra.

E  quei manifesti macabri, che spiccavano su tutti muri, dentro gli edifici pubblici, non davano una mano.....

Fuori, sui muri delle case, c’era dell’altro e di tutt’altro tono:

Vi erano i manifesti politici.

Lotte feroci fra Partiti che volevano, a seconda del colore, porre l’Italia sotto il Blocco comunista dell’Unione Sovietica o sotto quello occidentale degli Stati Uniti.

Ma, questo, apparteneva ai discorsi dei grandi.

Io, (e questo lo ricordo bene) oltre ai simboli dei Partiti con i loro motti ed i “faccioni” dei loro candidati, potevo osservare feroci vignette satiriche dove, ad esempio, una specie di “Uomodrago” mangiava bambini.....

Messina, come penso tutte le altre città italiane, era tappezzata di manifesti che coprivano, del tutto o in parte, le scritte nere sui muri che inneggiavano al Duce o raccomandavano, imperiosamente:

“Zitto, il nemico ti ascolta”.

Manifesti, striscioni di ogni tipo, comunque, non riuscivano a nascondere, neppure in parte, le brutture dei muri danneggiati degli edifici.

Per me, bambino, comunque, poco o nulla significava quel “clamore” dato che, niente di utile, in modo diretto o indiretto, me ne veniva.

Salvo che in un’occasione, a dire il vero!

Da questa propaganda, infatti, ci fu anche qualcosa che giunse fino a me!

Non so come e da dove, un giorno arrivò a casa uno striscione di tela blu con scritto in bianco “Vota Democrazia Cristiana” e, a lato, il simbolo del Partito....

La nonna e la mamma si ingegnarono a tagliare e cucire, per noi ragazzi, dei pantaloni corti. Evitarono, accuratamente, di utilizzare la parte con il  grande simbolo.

“Troppo vivi i colori per la tintura”, sentenziò la nonna che se ne intendeva.

Infatti, fu acquistata della polvere (Inferno) che, sciolta in acqua bollente, sarebbe servita per colorare il tessuto.

Fu scelto un blu scuro capace di coprire le grandi lettere bianche della propaganda e rendere il tessuto omogeneo nel colore.

Tutto, all’inizio, andò bene, poi, dopo i primi lavaggi, pian piano, il colorante cominciò a sbiadire e, lentamente, cominciarono a comparire, in blu sempre più chiaro e fino al bianco originale, le lettere della propaganda.

A me toccò buona parte della lettera “S” ed un pezzetto di “T”!

A quel punto: “I vostri pantaloncini li userete solo per casa”, fu il commento laconico di mamma.

La Ghiacciaia

Mag 02, 2024

- di Marco Giuffrida -

Negli anni cinquanta, il frigorifero lo si conosceva solo perché si vedeva in qualche film americano.

Era uno strano mobile panciuto, lucido, bianco, con una grande maniglia cromata nel mezzo dello sportello.

Quando veniva aperto, una luce fioca illuminava l’interno e, in genere, il o la protagonista del film tirava fuori una vaschetta con cubetti di ghiaccio che metteva nei bicchieri già mezzi pieni di liquore.

Tutto, naturalmente, in un rigoroso bianco e nero.

Solo qualche rivista, timidamente, cominciava a presentare questo elettrodomestico e, in rari casi, si poteva vedere anche qualche fotografia o qualche fedelissimo disegno a colori.

In Italia, forse, retaggio di pochissimi......

Chi poteva, possedeva una ghiacciaia.

La ghiacciaia.....  un mobile più o meno grande di legno, con l’apertura dall’alto. Sul fronte, uno sportello dove veniva introdotto un grosso pezzo di ghiaccio.

L’interno di questo mobile era foderato di zinco e di zinco era rivestito il vano dove veniva introdotto, posato su una griglia, il ..... “generatore di freddo”.

L’acqua del disgelo veniva raccolta in una vaschetta posta sul fondo del mobile.

La buona coibentazione data dal legno, consentiva d’avere cibi freschi e, soprattutto,  di potere conservare quelli che si deterioravano facilmente.

Naturalmente era, la ghiacciaia, un qualcosa che si adoperava solo d’estate.

Ogni giorno passavano in strada dei carretti con cui trasportavano dei grossi parallelepipedi di ghiaccio, lunghi più o meno un metro e di circa venti centimetri di lato, coperti e separati fra loro da sacchi di iuta.

A seconda delle dimensioni della ghiacciaia si chiedeva al venditore di portarne fin sull’uscio di casa, un quarto, mezza o, addirittura, una “balata” intera.

Per un attimo l’uomo scopriva il primo strato e, con una specie di punteruolo, provvedeva ad incidere, al posto giusto, con forti colpi, il ghiaccio fino a staccarne la quantità richiesta che avvolgeva in uno straccio di iuta e, così coperto, lo consegnava fin sulla porta di casa .

Velocemente, si portava il prezioso solido fino in cucina, si apriva lo sportellino e si introduceva il ghiaccio nel suo vano.

Era delizioso potere bere un po’ di acqua fresca magari resa frizzante dalle polverine “Idrolitina”, con due bustine o, un po’ più avanti nel tempo le “Idriz” con l’unica bustina magica.

Ottimo era, anche, poter mangiare qualche fetta d’anguria fredda. Ininfluente per noi ragazzi, ma certamente più importante per la mamma, il poter conservare i cibi avanzati o quelli in attesa d’essere cucinati e che, diversamente, si sarebbero deteriorati.

Mi piaceva scendere in strada e vedere l’operazione sul carretto, del taglio della “balata”

L’uomo impugnava il suo punteruolo e, nel colpire quella translucida superficie, sollevava una miriade di frammenti di ghiaccio che saltavano fin sul viso. Girava il blocco e continuava a segnarne ogni lato, infierendo con il suo ferro.

Ad un tratto, la quantità voluta si staccava.

Spesso, restava sulla tela di iuta qualche frammento più grosso che mi veniva dato in regalo. Eludendo l’attenzione e gli “ordini” della mamma (l’igiene innanzi tutto), in un angolo, non visto, mi deliziavo a succhiarlo ed a rigirarmelo in bocca.

Questo, sicuramente fino al 1957.

Verso la fine degli anni sessanta, quasi ogni famiglia ebbe il suo elettrodomestico.... il frigo.

Si, quel mobile bianco, proprio come gli americani.

Il ghiaccio, ora, veniva prodotto in casa, ma il sapore.... il sapore non era più lo stesso.

 

 - di Marco Giuffrida -

Fra la seconda metà degli anni quaranta e primi anni cinquanta il latte poteva dirsi merce preziosa e, comunque, di non facile approvvigionamento.

Credo, per i genitori, rappresentasse un vero problema farne trovare una tazza ad ogni mattina ai propri figli, ai propri ragazzi.

Fra le macerie delle case, in quegli anni, non era insolito vedere un pastore con un piccolo gregge di capre che brucavano quel po’ di erba che, in mezzo a quella devastazione era riuscita a crescere.

Bastava prendere gli accordi ed ecco che il pastore veniva dietro la porta di casa e lì, sotto gli occhi, dell’acquirente la capretta veniva munta.

Correvo sempre a vedere l’insolita operazione.

Cercavo di vedere, già dall’ingresso nel portone, l’arrivo dell’uomo con la capra. Un bastone di legno dall’impugnatura lucida , una sacca di tela a tracolla e, naturalmente l’animale condotto per le corna.

Il saluto era quello di rito: “Voscenza benedica!”

La mamma era lì sulla porta nell’angolo semibuio del grande pianerottolo, in attesa, con il suo recipiente in mano.

L’uomo costringeva la capra in un angolo, trattenendola contro il muro con un ginocchio, e dalla sacca estraeva la “misura”, un recipiente di lamiera stagnata da un quarto o da mezzo litro.

Si inginocchiava a terra e, tenendo con una mano il recipiente prescelto sotto le mammelle, con l’altra, iniziava a mungere. Mi piaceva sentire il rumore metallico dei primi getti di latte sul fondo della “misura”.

Mia madre si raccomandava di non fare troppa schiuma che, quella, i “picciriddi” non potevano berla.

Riempita la misura, il latte veniva versato nel recipiente di casa e, dopo avere ricevuto i soldi, il pastore riponeva nella sua sacca la “misura”, prendeva il suo bastone e, guidando la sua capra giù dalle scale, raggiungeva di nuovo il suo piccolo gregge.

Pian piano, però, negli scaffali dei negozi si cominciarono a vedere dei barattoli con un’etichetta bianca e blu..... quella del latte condensato “Nestlè”.

Un fluido denso e bianco che fuoriusciva lentamente da uno dei due fori che, su uno dei due fondi del barattolo, venivano praticati: uno per far uscire il latte, il secondo per fare entrare l’aria.

Quando potevo, di nascosto, andavo a succhiare quella dolcissima leccornia.

Si, quella morbida pasta, veniva diluita con acqua e, riscaldata, forniva proteine, vitamine e grassi al sapore approssimativo di latte.

Meglio di niente.

Quando il barattolo era quasi vuoto, si apriva completamente perché potesse essere versata dell’acqua e risciacquato l’interno, in modo da recuperarne, completamente, il contenuto.

Naturalmente la “densità”e la “qualità” del prodotto finito dipendevano da due principali fattori: la disponibilità di soldi per comprare i barattoli e la disponibilità di quella merce nei negozi......

Dunque, tutto divenne più semplice e immediato, e, certamente, più asettico ed igienico.

Sparirono, però, il rito della venuta del pastore e della mungitura e sparì, soprattutto, il sapore del latte di capra fresco.

Don Candeloro

Mag 02, 2024

 - di Marco Giuffrida -

Era una persona anziana, un pescatore di Ganzirri o, più probabilmente, di Capo Faro, non ricordo bene........

Aveva ospitato la mia famiglia, per qualche tempo, quando, sfollando, cercava riparo dai bombardamenti su Messina.

Era, in quel fuggire, raccontavano la mamma e la nonna, come cadere dalla padella nella brace.

Infatti, il primo entroterra era fortificato con la contraerea ma, restare in città significava subire, ogni notte, lo sgancio di decine e decine di bombe che stavano sistematicamente radendo al suolo e sventrando la città.

La costa, però, non era meglio.....

Di fuga in fuga, presso la casa di Don Candeloro, per qualche tempo, la mia famiglia, allargata a quella dello zio Pippo (Giuseppe), trovò ospitalità, lì, vicino al mare.

Lui, Don Candeloro, uno dei riferimenti riconosciuti della zona, era un uomo basso, tarchiato con la pelle bruciata dal sole, le mani grandi e ruvide e con il dorso nero come il catrame.

Affettuoso e dolcissimo ma capace di fulminarti con un’occhiata.

Aveva conservato grande simpatia per la mia famiglia e, soprattutto, custodiva nel suo cuore moltissimo affetto per noi ragazzi.

Restò in contatto e, finché restammo a Messina non mancò mese che non ce lo trovassimo a bussare alla porta per portarci in dono un po’ del suo pescato.

“U pisci fa beni ai picciriddi”. Questo era il suo saluto.....

Ma non c’erano solo acciughe per i bambini.... alle volte, aprendo i cartocci, vi erano, anche tranci di tonno, aguglie con la loro lisca verde smeraldo, spatole, fette di pesce spada o polipi, seppie, cefali......

C’era di che gioire per il pasto ricco e saporito che si poteva pregustare.

Non so quali difficoltà incontrasse per arrivare fino in Città, ma Lui, Don Candeloro, ci fu sempre a quell’appuntamento di ogni mese.......

Scorza dura ma con il sorriso limpido e lampi in quegli occhi neri che ti scrutavano con affetto. Uomo di gran fede e di grandi superstizioni che praticava e viveva senza, in cuor suo, contraddizione alcuna.

Scacciava il malocchio (e la malattia), diceva, con le sue preghiere.

Si faceva dare, se c’era qualcuno malato in casa, un piatto fondo con dell’acqua, poi il cartoccetto col sale e la bottiglia dell’olio.

Sciorinando avemarie, gloria e padrenostri a raffica, segnava col sale, in quattro punti, a croce, i bordi del piatto senza toccare l’acqua e, continuando a pregare, versava alcune gocce di olio che, così come ci si aspettava, galleggiavano subito. Lui, devoto ed imperterrito, continuava con le sue preghiere e le strane litanie fino a quando, all’improvviso, l’olio non galleggiava più e andava a depositarsi sul fondo.

Dopo un altro po’ di preghiere, segni di croce e benedizioni, chiedeva che il liquido venisse gettato “in un posto dove, per un anno, non si sarebbe dovuti passare”.

“Dormiteci sopra questa notte che, con l’aiuto di Dio, domani sarà un altro giorno e starete bene” diceva nel suo dialetto stretto e che io non sarei in grado di riportare e scrivere.

Poi si accomiatava salutando con grande rispetto e devozione le donne di casa, cominciando dalla nonna ed accarezzando sul capo noi bambini.

Quando tornò mio padre dalla prigionia in Germania, appena fu possibile, Don Candeloro volle che ci recassimo tutti a casa sua, per fare festa, per rincontrare la sua famiglia e per fare conoscere a noi, ora ragazzi grandicelli, il suo lavoro e, soprattutto, la pesca del pescespada.

Fu un’esperienza bellissima e che ricordo ancora.

Io più piccolo e leggero fui fatto salire sulla “Feluca” nera.

Nera perché il pesce dal basso non ne individuasse facilmente la sagoma ed il pericolo.

Era, proprio, la Feluca, la protagonista finale della pesca. Sarebbe stata lei l’imbarcazione che avrebbe inseguito e consentito la cattura del pescespada.

Presto fummo in mare aperto, al seguito della barca grande, quella con l’alta antenna, da dove, la vedetta, scrutando fra le onde, avrebbe visto e segnalato la preda.

Perlustrarono il mare che amavano e conoscevano. Tutti agivano secondo regole ben conosciute. Non occorrevano parole.

A un tratto il grido: “Eccolo!”.

E la Feluca nera si staccò seguendo le indicazioni che, a gran voce, venivano gridate dall’alto della barca grande.

“Più a destra, a sinistra, avanti.... vai, vai”.

Tutto in un dialetto stretto con parole secche e precise.

Poi, “l’aggancio”.

L’uomo, aggrappato ad un corto palo sulla Feluca, scorse il pescespada e iniziò lui a dare ordini ai rematori mentre il fiocinatore era pronto, a prua, a scorgere e colpire, da vicino, la preda.

Fu un inseguimento lungo e faticoso, con gli uomini ai remi, tesi al massimo nello sforzo di dare velocità e precisione alla rotta della barca.

Ancora:“Più a destra, a sinistra, avanti.... vai, vai”. Ma senza gridare troppo, quasi un sussurro sibilato, appena al disopra del frusciare della prua dell’agile e leggera barca e del tuffarsi ritmico e veloce dei remi in acqua.

Poi....

“U vitti”, gridò il fiocinatore che, rapido, scagliò l’attrezzo colpendo sul dorso il grosso pesce.

La corda a cui era legata la fiocina si srotolò in fretta con un rumore di vento......

Credetti che tutto fosse finito.

Si dovette, invece, seguire con pazienza la preda, per sfinirla, ad evitare che potesse, con un guizzo, staccarsi dall’arpione.

E, dunque, la barca nera, quasi trainata dal pescespada, vagò per diverso tempo. Poi, pian piano, la sagola, legata alla fiocina, fu accorciata fino a portare la Feluca sopra la vittima sfinita che, poco dopo, non senza fatica e rischio, venne tirata a bordo.

Era un pesce grosso, nero, dalla lunga lucida spada che, di tanto in tanto, dava qualche guizzo lì sulle assi del fondo della barca, non ancora rassegnato alla sua fine.

Aveva dato filo da torcere a quegli uomini che, ora stanchi, si rilassavano, dando piccoli e ritmici colpi di remo per mantenere la rotta.

Fu ucciso e privato subito delle interiora che, meno il cuore, vennero gettate in mare.

La scena era cruenta ma, pur essendo giovanissimo, mi è restato in mente il senso di gran rispetto dei pescatori per la loro vittima.

La “loro” era stata una lotta leale.......

Il cuore venne tagliato e, poi, diviso fra quegli uomini.

Ne fu offerto un pezzetto anche a me, con una goccia di limone.

Lo mangiai.

Forse, sarebbe meglio dire, lo inghiottii intero quel pezzetto di carne.

Cercai di farlo con disinvoltura vincendo l’iniziale ribrezzo.

Don Candeloro ammiccò soddisfatto alla sua Gente e mi sorrise.

Assorbivamo con il cuore della preda, strana comunione, anche il suo coraggio.

Arrivò affranto, un giorno, quando seppe dall’ex attendente di mio padre (di Sant’Angelo di Brolo), che “u Dutturi” era stato promosso e trasferito.

Nella fretta di raggiungerci e sapere meglio, si era accorto sull’autobus, che si era messo solo un calzino e, per allentare la tensione, lo faceva notare ridendo, fra i singhiozzi di un pianto irrefrenabile, mentre, con un grande fazzoletto a quadri, si asciugava le lacrime ed il sudore.

Io dodicenne, mi dicevo, io non piango.

Io ho mangiato il cuore del pescespada, Re dello Stretto e, ora, ho il suo coraggio......

- di Marco Giuffrida -

La Nonna parlava spesso del Nonno Giovanni. Lo aveva sposato che era giovane ed assieme avevano vissuto, fra gioie e difficoltà, molti anni assieme.

A Nonna Graziella piaceva raccontarci del fidanzamento, del matrimonio, della sua vita da sposata, degli anni dell’agio, degli anni della Grande Guerra e della decadenza economica.

Era ancora innamorata del suo Sposo e le piaceva canticchiare una canzoncina che recitava nel ritornello: “io sono la tua Regina e tu sei il mio Re”. Non ricordo il resto. Non ricordo l’autore ma doveva essere una canzone, all’incirca, degli anni sessanta.

Lei, al tempo del matrimonio, aveva, più o meno, diciotto anni (era del 1884) ed il Nonno, credo, quattro anni di più.

Era un bell’uomo il Nonno. Abbastanza alto, con dei bei baffoni, il volto sereno almeno così come appare nelle foto.

Andava a trovare la fidanzata e poteva “anche” starle abbastanza vicino solo, fra loro, c’era la mamma, la futura suocera, la mia bisnonna Adele!

Raccontava, pure, che qualche bacetto ci scappava nei rari momenti di distrazione dell’”Angelo Custode”. Certo “aveva paura di poter restare incinta”, ma come rinunciare ad una manifestazione d’affetto o a un momento di tenerezza?

Il Nonno aveva una Farmacia – Drogheria nel centro di Catania. Comprava, perfino, il cacao e faceva la cioccolata nel laboratorio della sua Bottega. Esistevano a casa mia, ancora dopo tanti anni, le forme di latta stagnata con cui facevano le “tavolette”.

La Nonna ci raccontava dei primi anni di matrimonio con il “suo” Giovanni. La loro era una vita agiata. Possedevano una villa padronale a Cibali, località in prossimità di Catania. Avevano diverso personale di servizio: la cuoca, il giardiniere, il cocchiere e, oltre ad altro personale,compreso un giovane di colore, vi era, anche, una donna addetta esclusivamente alla “toilette” della Nonna: la “pettinatrice”.

Avevano avuto quattro figli: due femmine e due maschi. La prima, Maria, era morta di scarlattina all’età di tre anni. Il secondo, Vincenzo (Enzo), poi Adele (Adeluzza), mia madre, ed infine, il più giovane, Agatino (Tino).

Gli aneddoti erano tanti.

Ricordava, ad esempio, l’illuminazione stradale a gas. Al tramonto, il “U lampiunaru”, il Lampionaio, passava per le vie e, con una lunga asta apriva il rubinetto posto alla base della lanterna e, con la fiammella sempre accesa,sulla punta della stessa asta, provvedeva ad accendere la fiamma.

Aveva vissuto, la Nonna, gli anni delle grandi trasformazioni a cavallo della fine dell’Ottocento e dei primi del Novecento: l’industrializzazione, il passaggio dal gas all’elettricità e, nel 1924 la radio per ricevere le prime trasmissioni.

Si intendeva anche di calcio, Nonna Graziella. Ricordava, infatti che, nel 1908, fu presentata la squadra che, allora, si chiamava Pro Patria e che dopo qualche tempo cambiò il nome in Catania.

Ancora ricordava Caviezel, titolare della Pasticceria Svizzera in via Etnea. “Vicino a dove il Nonno aveva la Farmacia-Drogheria”. E, con dovizia di particolari, descriveva le bontà  che producevano che, al solo ricordo, fanno venire, anche oggi, l’acquolina in bocca.

Era, la Nonna, di poco più giovane del giornalista Nino Martoglio e dell’attore Angelo Musco di cui ricordava molti particolari, le loro collaborazioni, e, soprattutto il loro carattere. Personaggi incisivi e presenti nelle vie della Città di Catania.

Ricordava pure, aveva sei anni, l’inaugurazione del Teatro Massimo Bellini, cuore musicale della Catania dell’epoca e citava il nome di molti interpreti.

Non trascurava, nei suoi racconti, di fare sfoggio di date e di riferimenti precisi:

“Era il 1908 e mancava poco al Natale”.......

Fluente scorreva il racconto della Nonna. Il 20 di quel dicembre, infatti, nasceva mia Madre.

Era la terza figlia. Una femmina ed una grande gioia che, la prima appunto, Maria, aveva raggiunto gli Angeli.

Otto giorni dopo, era mattina, ricordava la Nonna, che un sussultare della casa aveva svegliato tutti. Erano abituati alle bizze dell’Etna, il Mongibello, ma, quella scossa, aveva sapore diverso.

“I lampadari ballavano, ed i bicchieri e le stoviglie avevano tintinnato a lungo nelle credenze. Ma, quello che aveva impressionato, era stata la durata e, soprattutto la potenza di quella scossa”.

No, non era l’avvio di una eruzione. E per rassicurare se stessa e noi bambini, si faceva il segno della croce.

“Resici conto, continuava la nonna, che non era a Catania il problema, ci rasserenammo anche se, il pensiero andò a quei poveri “mischini” che, probabilmente, erano restati coinvolti nel sisma”.

La notizia di dove era accaduto non lo conobbero subito.

Fu il Nonno, ricordava, a portare a casa la notizia che con Messina non si poteva comunicare e non ci si poteva arrivare e che, forse, neppure in Continente si poteva passare. Doveva essere accaduto qualcosa di “grosso”.

“Mischini”. Si, poveracci! E sempre di più si cominciava ad intravedere l’entità della catastrofe, man mano che le notizie prendevano corpo.

Dapprima il pensiero, il desiderio, l’esigenza di dare e, soprattutto, di come fare arrivare ciò che poteva servire. Era però, sempre e solo attraverso il Nonno, che “scendeva” a Catania per il suo lavoro, che riceveva le poche informazioni.

Il suo negozio era luogo di incontri di Autorità, di Militari, di alti Prelati, dei Signori della Città. Tutta gente che “sapeva” e riferiva di morti, molti morti, di gente che, gli occhi sbarrati, girava inebetita per una città che non esisteva più e dove, a malapena, si potevano osservare le tracce di quelle che erano state case e chiese. Le strade erano tutte ingombre di macerie.

Questo riportava chi “sapeva”.

“I primi furono i Russi con le loro navi da guerra a scendere a Messina per portare aiuto, pensate, i Russi!”, sottolineava con enfasi la Nonna Graziella che, via via scendeva nei dettagli, scavando nei meandri della sua memoria.

Nell’immane sciagura, apparve la putrida razza degli sciacalli che si addentrò in mezzo alle rovine alla ricerca di danaro e preziosi, oltraggiò i corpi senza vita, mutilandoli, per meglio e più rapidamente appropriarsi delle gioie che, quelle poveracce e quei poveracci, ancora, indossavano.

Questo raccontavano “chiddi che sapianu” nella bottega del nonno che, puntualmente, riportava alla “sua” Graziella che ne restò impressionata al punto che, dopo oltre cinquanta anni, ricordava ancora ogni più piccolo e truce dettaglio.

Spiegava:

“Allora Messina divenne come zona di guerra e fu istituito il coprifuoco per fermare questa ignobile gente con l’ordine, addirittura, di sparare a vista”.

Poi:

“Messina divenne città morta, in balia, solo, dei soccorritori, alcuni dei quali non brillarono per carità ed onestà perché, in qualche modo, si sostituirono, essi stessi, agli sciacalli e, raccontava, a noi divenuti più grandicelli, che, questi loschi individui spedivano i loro macabri bottini, utilizzando le Regie Poste, che, diligentemente ed efficacemente, avevano tempestivamente, riaperto i loro uffici”.

Ricordava, anche, la guerra, la “Grande Guerra”, momento di esaltazione ed inizio delle sfortune della sua famiglia.

Il Nonno partì Volontario per il “Nord”. Avevano bisogno di tutto e di tutti e lui, con la sua esperienza di “Farmacista - Droghiere” fu inviato, aggregato alla “Sanità”, nella zona di Cogollo, nel vicentino, presso il Monte Cengio.

Si rigirava foto ingiallite, fra le mani, la nonna.

Le foto del Suo Giovanni, le foto del Suo “Re”!

Che tenerezza, oggi, rivedere quelle stesse foto ancora più sbiadite e ingiallite.

Lui, il Nonno, i suoi primi piani, vicino ai ruderi delle case distrutte dalle bombe.

Lui, il Nonno, che conosceva solo la Sua Montagna, l’Etna, ora ai piedi delle Prealpi Venete, la neve caduta fino a valle, in un inferno di fuoco, di sangue e di morte.

Era partito convinto, il Nonno, che quel viaggio verso l’ignoto, quel sacrificio per una Terra che non aveva mai visto, per la Patria che amava, quel viaggio, Lui, doveva farlo.

Per questo diede un bacio alla Sua “Graziella” a cui affidò i tre figli rimasti e partì. Era certo di essere supportato dal Socio e dai dipendenti della Sua Azienda.

Vi sono note tenere, a volte gioiose, dietro quelle immagini che, oggi, fanno parte del mio “patrimonio”: dediche alla Mamma, alla Moglie ed il ricordo dei figli.

Posso immaginare cosa videro quegli occhi perché è da anni che frequento quei luoghi Sacri e che, ancora adesso, portano le tracce di un conflitto lungo e feroce. E tutte le immagini che posseggo ne sono un’ulteriore conferma.

Anche alcuni russi, i Nonni, avevano soccorso, pur in questi frangenti che lì, in quella lontana Terra dell’Est, era scoppiata la rivoluzione. Aveva, a ricordo di quel periodo, gelosamente conservati, alcuni Rubli di carta, coloratissimi e grandissimi!

Finalmente tornò a casa il nonno, “U me’ marituzzu”, ma trovò ciò che non avrebbe mai pensato

Ciò che non avrebbe mai voluto e dovuto pensare:

La “sua” ditta sull’orlo del fallimento, con il socio che aveva “mangiato” tutto ciò che di buono era stato costruito.

Il Nonno non intese accettare l’umiliazione del fallimento, così fu licenziata la servitù, venduta la villa di Cibali e alienata buona parte dell’arredamento per pagare i debiti.

La famiglia si trasferì a Catania in una viuzza dietro l’attuale Tribunale e il Nonno trovò lavoro presso l’Economato del Comune. La famiglia, pur in ristrettezze, continuò a vivere dignitosamente. Erano restati alcuni mobili, qualche quadro ed altri oggetti che, allo smembrarsi della famiglia, furono distribuiti dapprima ai figli, poi a noi nipoti e, ancora oggi, fanno bella mostra nelle nostre case.

Arrivarono pure gli anni della grande depressione, dell’inflazione alle stelle e della grande fatica di vivere. Ma questo non contava: la famiglia, felice, era riunita.

Solo, continuava la nonna, il Nonno, già debilitato dalle privazioni della guerra e deluso dalle vicende al rientro, ebbe ad ammalarsi. Un “brutto male” dissero, lo aveva colpito. Oggi, in piena tranquillità, sentiremmo dire ai medici: “cancro ai polmoni”.

La malattia lo consumò in poco tempo. Così, il Nonno, andò ad occupare quella metà della tomba che aveva fatto costruire per tempo. Lui e la Sua Graziella dovevano restare uniti nella Vita e nella Morte.

Si asciugava gli occhi, la Nonna e si passava la mano fra i capelli, sempre più bianchi e sempre più radi ma orgogliosamente lunghi e raccolti a “tuppu” e assicurati con forcine di tartaruga.

Il più vecchio dei figli, Enzo, si sposò a Catania, il più giovane, Tino,  si arruolò ed andò in Africa con lo speciale Corpo di Polizia e Nonna e Mamma restarono sole a vivere nella casa di famiglia con quel poco di pensione che spettava e, probabilmente, con l’aiuto economico dei figli.

Raccontava, anche, del fidanzamento della sua “Adeluzza” con mio Padre, “Santuzzu” o “Santino”, a seconda dell’umore.

Ma incombevano altri eventi che, in parallelo, accompagnarono il matrimonio e la Vita dei miei genitori.

Declamava, la Nonna, le grandi capacità del genero: “du cuncursi, vinsi!”  E’ vero, uno in Magistratura ed uno presso il Ministero delle Finanze. Ma, Santo, doveva ancora fare il militare ed il matrimonio sembrava, nell'immediato, irraggiungibile.

Eppure una soluzione la trovarono. Da Ufficiale, anche se di leva, avrebbe percepito uno stipendio e, questo, avrebbe reso tutto possibile e fattibile.

Così, nel ’38, si sposarono “Adeluzza e Santuzzu”. Fecero perfino il viaggio di nozze a Tivoli.

Poco tempo dopo, però, la partenza di Papà per il Reggimento. Strani venti aleggiavano in Italia ed in Europa e, neppure il tempo di capire il perché ed il per cosa,  eccolo in guerra sul fronte greco.

E qui, siamo fra il 1937 ed il 1939 e i racconti della Nonna si intrecciavano con quelli di Mamma.

Due donne, un figlio appena nato, mio fratello Antonino, ed un nipote, Giovanni di due anni maggiore, si trovarono ad affrontare i primi momenti di grande esaltazione popolare, le “adunate oceaniche”, ma, anche, i razionamenti.

Dovettero ad un tratto donare l’oro per la Patria: qualche gioiello, meglio se la fede, infilata dentro un’urna messa nel centro di una piazza, perché l’Italia, nel bel mezzo di un embargo, in guerra, allo stremo ed impoverita, potesse tornare grande e potente.

Ma ciò che pesava di più era il sapere il Marito, il Papà, il Genero che, dopo un breve saluto alla Famiglia, imbarcato, era partito per la Grecia.

Poi le notizie, la posta con qualche foto di quest’uomo alto e magro dal naso “importante”. Quasi tutti primi piani e mezzi busti al punto che, io piccino, credetti, ad un certo punto, d’avere un padre senza gambe.

Poi  non ci fu più molto da pensare dai primi giorni di gennaio del 1941 fino alla metà di agosto del 1943.

Ricordavano, Nonna e Mamma, il suono lugubre della sirena che annunciava l’inizio dei bombardamenti: porte e finestre spalancate, per salvaguardare vetri e serramenti dagli spostamenti d’aria e la casa alla mercé degli “sciacalli”, e, di corsa, al rifugio al riparo dagli scoppi delle granate e delle schegge.

Poi a casa e, al primo ululato d’allarme, ancora al rifugio.

Alla fine, sollecitata anche dalle Autorità, la decisione: - troppo pericoloso restare in Città con due “picciriddi” e due donne incinte” -.

Dunque si sfolla.

Dove? Ma verso la campagna e il mare prima, poi a Faro Superiore con la speranza di sfuggire ai bombardamenti a tappeto, sempre più frequenti e sempre più intensi, che di giorno e di notte distruggevano la Città.

Lo zio Giuseppe, “Pippo”, il capo delle Famiglie riunite, organizzò la fuga schivando fortunosamente i bombardamenti ed i  mitragliamenti degli aerei che, di giorno, passavano a bassa quota.

La permanenza a Faro Superiore durò pochissimo perché, già al primo sorgere del sole si scopre che la collina è piena di  “nidi di contraerea”. Pochi giorni e si scappò ancora ripassando per Messina. E qui il racconto faceva tremare la voce a Nonna e Mamma e, spesso, il grembiule serviva loro ad asciugare qualche lacrimuccia. Oltre che dalle schegge, dagli spostamenti d'aria e quant'altro di “bello” può sfornare la guerra, ecco la casa danneggiata e profanata anche dai ladri, dagli “sciacalli”: molti mobili rotti alla ricerca di qualche nascondiglio, dietro i cassetti, dietro le ante, nella speranza di trovare dei doppi fondi e, nascosto, chi sa che, chi sa cosa. Sparito tutto ciò che era possibile portare via facilmente: dalla poca biancheria restata a tutto ciò che di piccolo e metallico c'era.

La permanenza a Messina durò il tempo che servì allo Zio Pippo per organizzare un altro viaggio della speranza.

La meta: Pezzolo. Un carro trainato da buoi il mezzo di trasporto.

La descrizione, drammatica ed imprecisa, dell'attraversamento della Città, partendo dal Torrente Boccetta, la ricordo solo in parte.

Raccontavano, Nonna e Mamma: di sera, nel buio di una città oscurata, le strade squassate e ingombre di rovine. Tre Donne, con due neonati in braccio e altri due bambini di cinque e tre anni, sedute a lato del pianale. Le adulte, nei limiti delle loro possibilità, incaricate, anche, a sorreggere tutto quello che era stato possibile caricare e lo Zio, a piedi, dietro, a controllare che nulla, durante il percorso, andasse perduto a causa dei sobbalzi.

Finalmente, dopo qualche ora di avventuroso cammino, ecco Ponte Shiavo! Ma ci fu un problema e grosso. Il carro carico era troppo alto per passare sotto il ponte troppo basso. La scelta senza alternative fu rapidissima. Si scaricò il carro e, dopo averlo fatto passare, si cercò di ricaricarlo trasferendo a mano le masserizie. Non ci fu molto tempo: era notte fatta e, per prudenza fu abbandonato quasi tutto con la vana speranza di recuperare qualcosa l'indomani,.

Tutti eravamo magri e le rarissime foto lo provano e lo ricordano. Quel poco che si riusciva a trovare da mangiare lo si acquistava alla “borsa nera”. Quello di cui si aveva diritto, con le “tessere annonarie” era troppo poco. La Nonna, la Mamma, e la Zia avevano venduto tutto ciò che avevano potuto ed anche di più, restando senza alcun ricordo che fosse di fidanzamento o di matrimonio. Perfino la biancheria non indispensabile fu alienata o barattata. Si sopravviveva, in casa d'altri, neppure troppo al riparo da eventuali rischi bellici dato che, tutte le colline costiere, erano armate e fortificate.

Bombardamenti, mitragliamenti, fughe per cercare riparo, ansie a non finire e, finalmente, la guerra, almeno in Sicilia, volse al termine. Via i Tedeschi, arrivati gli “Alleati” e terminato il rischio delle bombe dal cielo, ecco, finalmente, il ritorno a Casa.

Lo zio Pippo, il fratello di Mamma, sua Moglie, la Zia Rosetta con la loro figlioletta Graziella, La Nonna, la Mamma Adele, il cugino Giovanni, mio fratello, ed io: un'unica famiglia “allargata” che riprende possesso dell'appartamento INCIS in via Torrente Boccetta.

Oltre che a “sopravvivere” tutti ce la mettono tutta per dare vivibilità a ciò che si è salvato e si comincia a sperare nel ritorno del papà di cui, da prima dell'armistizio, non si hanno più notizie.

In Sicilia la guerra poté dirsi finita, ma non al Nord, in “Continente”. Si ebbe notizia, da una cartolina della Croce Rosa di Ginevra, che “l'Uomo senza gambe”, il Papà, era vivo ma prigioniero in Germania. Vi fu una scarna corrispondenza fra mia Madre e mio Padre. Poche lettere erano state scambiate, con luoghi e date cancellati dalla censura militare, e, forse vi era stato il tentativo di spedire anche qualche pacco con generi di prima necessità.

A Grandi passi si arrivò al 1945.

E qui si fermano i racconti dei “Vecchi” o, meglio, cominciano a confondersi con i miei e ne trovano continuità.

Furono riattivate le comunicazioni con la Calabria, dopo avere liberato il Porto dai relitti dei bombardamenti ed iniziò il servizio delle Navi traghetto. Anche le vie di comunicazione, al Nord, cominciarono ad essere riattivate e cominciò, nell'Italia distrutta, affamata ma, finalmente in pace, la ricerca dei congiunti e, finalmente, in Sicilia, cominciò l'arrivo dei primi reduci.

 Introduce: Giuseppe Amedeo Mallandrino. Relazionano: M. Bonanno, E. Li Mandri, A. Corradini. Intervengono: G. Ruggeri, F. Ferrara, C. Romeo, A. Samonà. Coordina: A. Caristi. Al pianoforte: David Carfì.

 

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