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Il braciere

- di Marco Giuffrida -

Le lunghe e ventose serate invernali dell’immediato dopo guerra ci vedevano, a volte, seduti nel grande e spoglio soggiorno attorno ad una specie di ampio e basso catino di rame.

La brace restata nei fornelli della cucina veniva trasferita nel fondo di questo braciere e, quando possibile, si aggiungeva un po’ di carbone e, appena pronto, si portava nel centro del soggiorno, oramai privo di quasi tutti i mobili o perché rubati o perchè distrutti o persi durante il vano correre, sfollando, per sfuggire ai bombardamenti.

Ci si sedeva attorno cercando di “assorbire” quel poco di calore che quel fuoco quasi spento riusciva ad emanare e quando era possibile si ascoltava la radio.

Per questo, lo zio Pippo (Giuseppe) unico maschio adulto della famiglia allargata, girava la manopola della “Ducati” e, nella speranza che non mancasse la corrente elettrica, si metteva alla ricerca di una stazione che trasmettesse notizie. Noi ragazzi imparammo a conoscere il “gong” di Radio Londra, l’apertura dei notiziari di “Radio Mosca” e, a volte, si riusciva a “tirar fuori” qualcosa di assolutamente italiano.

Uno spiraglio alla finestra consentiva un minimo ricambio d’aria per assicurarci di respirare aria sufficientemente pulita: l’ossido di carbonio aveva decimato più di qualche famiglia......

Tutti avevamo le coperte sulle spalle per ripararci da quella sottile ma penetrante lama di freddo. Le coperte, al momento di andare a dormire, venivano rimesse sui letti.

Se la radio trasmetteva qualcosa, il silenzio era assoluto per distinguere meglio dai fischi e dai disturbi le parole di chi dava le notizie. Se non si riusciva ad ascoltare nulla ecco che, spenta la radio, inevitabilmente, la discussione fra i “grandi” andava al quotidiano passato e recente: lo zio raccontava un po’ delle sue avventure giornaliere per andare e tornare dal lavoro.

Sempre meglio oggi, diceva, di quando, quegli stessi itinerari, doveva percorrerli sotto il rischio di qualche improvviso bombardamento o, peggio, dell’arrivo di qualche aereo che, passando a bassa quota,  mitragliava su tutto e su tutti.

Pronto, comunque, al lugubre suono della sirena, a cercare il Rifugio che, raramente, era a portata di mano.

Sempre più spesso portava notizie di amici ritrovati, di qualche militare tornato e, questo, apriva il cuore e dava speranza al ritorno del papà e, aggiungeva la nonna del suo figlio Agatino.....  lo zio Tino che si pensava in Africa (e lo era) prigioniero degli inglesi.

C’era, sempre, lo spazio per qualche preghiera proposta dalla nonna, poi, pian piano, cominciando da noi più piccoli, la coperta sopra le spalle, si andava a letto.

Le uniche luci erano quelle della radio e delle braci quasi spente.

Uscendo dal soggiorno, si respirava l’aria fredda ma pulita del corridoio e, infine, quella, ancora più fredda, della camera da letto.

Si, subito a letto!

Due cavalletti in ferro, alcune assi di legno ed un materasso in crine e, quelle lenzuola che avevano accompagnato la famiglia durante il pellegrinare, durante i bombardamenti, alla ricerca di un posto più sicuro.

Coprivo anche il viso, per vincere il freddo e per “nascondermi” alle paure in cui, quei ricordi di guerra, mi avevano proiettato e, soprattutto, per non sentire la sirena, qualora avesse ancora suonato.

Era freddo.

Sentivo freddo.

Mancava il calore del braciere e quello della compagnia dei familiari..........

Ultima modifica il Lunedì, 10 Ottobre 2016 08:15
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