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MESSANENSI

MESSANENSI

- di Mirella Formica -

La realizzazione della Fontana di Orione è in stretta connessione con la costruzione del primo acquedotto messinese poiché, vista la necessità nel XVI secolo di un maggiore approvvigionamento idrico, fu indi-pensabile canalizzare le acque del Camaro. Il progetto ideato dall'architetto Francesco La Cameola venne iniziato intorno al 1530 e  l'impresa risultò alquanto ardua a causa del perforamento di gallerie attraverso i colli Peloritani. L'inaugurazione fu celebrata nel giorno della solenne festività del Corpus Domini del 1547, dinnanzi al Magistrato ed alla cittadinanza riunita nella piazza della Cattedrale, allora Piano di Santa Maria la Nuova. Tra i molteplici festeggiamenti, le acque allacciate alla nuova conduttura ed introdotte per la porta dei Gentili furono viste scorrere da una piccola fontana provvisoria fino a quando al suo posto venne

L'arrivo del Montorsoli a Messina determinò un rinnovamento in tutta la cultura siciliana del Cinquecento. L'artista nel settembre del 1547 era già a Messina insieme all'allievo Martino Montanini. Assunta la carica di capo mastro scultore di fontane con lo stipendio di onze 110 e provvisto di alloggio a spese della città, provvide subito all'acquisto di marmi di Carrara e di altri blocchi che poté trovare a Messina. Questi vennero depositati nei magazzini della Munizione ed egli cominciò insieme ai lavoranti a preparare i vari pezzi della fontana, la quale doveva rappresentare il trionfo di Orione mitico fondatore della città, l'antica Zancle. Attesta il Vasari che l'opera venne "con molta prestezza ultimata" ma, nonostante ciò, trascorsero sei anni prima che la fontana potesse essere collocata nella piazza, come si ricava da una epigrafe datata 1553 scoperta nella galleria sotterranea del medesimo fonte. L'iscrizione conferma la data riportata dal Maurolico, contraria-mente a quella dell'anno 1551 sostenuta dal Buonfiglio.              .

Lo schema compositivo della fontana, a forma di piramide, con le coppe sovrapposte versanti acqua su di uno stelo variamente decorato, e con in cima un gruppo statuario, era allora un elemento acqui­sito alla decorazione rinascimentale, e non mancavano esempi illustri donatelliani e verrocchieschi nei cortili dei palazzi fiorentini. Preziosi antecedenti dell'Orione potrebbero anche riconoscersi in quelli della fontana del Giardino dei Boboli e delle due fonti della Villa del Castello a Firenze, crea­te da Nicolò Pericoli detto il Tribolo. Ma nella fontana del Montorsoli, se lo schema compositivo non è difforme da questi precedenti, assai maggiore è l'armonia degli elementi volumetrici e strutturali e la grazia delle decorazioni, che adeguandosi alla concezione letteraria che sta al. sottofondo del­ l'opera, si risolvono in ritmi e modulazioni assai eleganti.

La fontana è dedicata al mitico gigante Orione al quale una favolosa tradizione attribuisce la fonda­zione della città. Su di un basamento poligonale di dodici lati sono quattro vasche dentro le quali versano acqua dalle anfore quattro statue maschili, adagiate sul fianco. Esse rappresentano quattro fiumi: il Nilo, il Tevere, l'Ebro ed il Camaro. Il bordo della vasca è ornato di formelle rettangola­ri ed ovali raccordate da cornici ed elementi decorativi. Sotto ogni simulacro fluviale sono appo­sti distici latini che illustrano i simboli ed i bassorilievi scolpiti; ai lati di ognuno di essi sono due targhe ovali anch'esse istoriate.

Nella formella sotto la statua che simboleggia il Nilo è scolpito il fiume come gigante disteso tra palme e canne, con sette puttini (le sette bocche del delta) variamente posti, forse ispirato dall'el­lenistico Nilo dei Musei Vaticani; nelle targhe ovali è rappresentato il pastorello Aci (l'amante di Galatea) lapidato da Polifemo, da una parte, e dall'altra l'idillio di Pomona e Vertumnio. Sotto la statua del Tevere è incisa la lupa con i gemelli e nelle targhe contigue Narciso trasformato in fonte e Atteone trasformato in cervo di fronte a Diana, candidamente nuda al bagno. Poi, sotto il fiume Ebro sono scolpite l'Aquila spagnola e le Colonne d'Ercole (emblema di Carlo V), Atlante da una parte e dall'altra Ercole e le Ninfe nel Giardino delle Esperidi; nelle targhe Pegaso che sale in Elicona per farvi sgorgare 1'Ippocrene, ed Europa rapita dal toro. Sotto la quarta statua, raffigu­rante il Camaro, assai modesto torrente messinese di fronte ai grandi fiumi, è scolpita una porta della città con una immagine femminile rappresentante Messina in atto di invitare il fiume ad immettersi; nelle formelle è narrata la storia di Frisso ed Elle sull'Ariete d'Oro mentre sprofondano nelle acque marine che poi dai lei presero il nome di Ellesponto. Le figure che sono rappresentate nelle formelle si ispirano, per lo più, a soggetti tratti dalle Metamorfosi di Ovidio.

Otto mostri marini in pietra scura completano e ravvivano con la diversa tonalità di colore la conca marmorea. Al centro della vasca quattro sirene alate decorano gli angoli della base quadrata, i cui lati sono ricoperti dalle ali dispiegate e dalle code ricurve delle quattro figurazioni acquatiche. Su di essa poggiano altrettanti tritoni-cariatidi, con le braccia converse sopra la testa e le code intrecciate, che sostengono una prima coppa ornata con motivi rinascimentali, e quattro Meduse, le cui chiome si intrecciano sull'orlo circolare della coppa. Dalla coppa emergono tre Najadi, che con aggraziato movimento di danza reggono la seconda tazza, anche questa decorata con motivi rinascimentali. Nella parte superiore quattro puttini a cavallo ai delfini reggono un globo sul quale si eleva Orione, col cane Sirio, la mano destra aperta in segno di saluto e la sinistra appoggiata allo scudo, nel quale campeggia lo stemma di Messina.

Mano a mano che la struttura della colonna si sviluppa verso l'alto, le sculture diminuiscono in dimensione ed aumentano in tensione e movimento. Da una posizione statica delle sirene, si passa all'intreccio delle code dei tritoni che impediscono qualsiasi movimento e gradualmente la corposità perde ogni pesantezza per assumere leggerezza di ritmo nelle figure sottili ed aggraziate delle Najadi sino ad arrivare al culmine dell'azione con la sfrenata cavalcata sui delfini dei piccoli putti che con grande vivacità tengono aperte le loro bocche permettendo all'acqua di zampillare.

II movimento e la posizione delle braccia innalzate delle varie figure per sostenere le coppe, guidano l'occhio dell'osservatore direttamente all'apice della fonte per enfatizzare maggiormente il trionfo di Orione.

La fontana attraverso la scenografica utilizzazione del marmo e dell'acqua, diviene depositaria di svariati messaggi in un medesimo contesto. Così la fontana di Orione, per la sua teatrale monumentalità, si rifà alla tradizione romana dei monumenti trionfali intesi come celebrazione permanente, e le figurazioni acquatiche che la compongono assumono i connotati di sculture parlanti, comunicando messaggi mitologici, storici e politici celati nella rappresentazione allegorica. Inoltre essa si inserisce perfettamente nella politica autocelebrativa del senato messinese dedito alla creazione di una fastosa immagine della città, che coinvolge il pubblico nel meccanicismo psicologico dello stupore, inducendolo alla riverenza.

La scelta dei fiumi e delle sculture raffigurate nella fontana esplicita un preciso contesto storico e geografico: l'Ebro, principale fiume dell'Aragona viene inserito in omaggio alla corona spagnola; il Nilo, emblema della civiltà egiziana; il Tevere, simbolo dell'antico impero romano ed infine il Camaro, fiume di Messina, quale anima della fontana.

- di Daniele Espro -

In posizione di classifica il teatro "Vittorio Emanuele" di Messina, già "Santa Elisabetta", ricopriva uno dei primi posti in Italia per grandezza e lusso dopo i teatri "Alla Scala" di Milano, "La Fenice" di Venezia, "San Carlo" di Napoli e "Massimo" di Palermo.

Al turista in visita a Messina saltava subito all’occhio, con grande piacevolezza, la mole del teatro, costruito secondo i canoni dell’Ottocento italiano ed europeo in stile Neoclassico. La costruzione dell’imponente edificio non ebbe un solo motivo catalizzatore, ma diversi. Innanzitutto, bisogna fare un passo indietro per capire la situazione dello spettacolo a Messina agli inizi del XIX secolo.

Nel giornale "Il Faro" del 29 giugno, dell’anno 1836, Carlo Gemelli, prendendo spunto da una polemica che un ignoto viaggiatore, in visita a Messina, aveva mosso contro la Cittadinanza, affermando che «I Messinesi hanno gusto pe’ divertimenti e per ogni sorta di piaceri, meno che di teatro», replicava: «Sappia il nostro censore che l’aver noi un "infelicissimo teatro" non porta quella sua "gentile illazione" di non avere i Messinesi alcun gusto teatrale. Venga egli a vedere come presso di noi la musica è universalmente coltivata, vegga i progressi che la nostra Filarmonica Società ha fatto nel breve periodo di pochi anni nella sublime scienza musicale, e poscia di noi di non aver nessuno gusto per il teatro…».

Messina quindi, da quanto raccontatoci dal nostro Carlo Gemelli, aveva un "infelicissimo teatro"…Ma a quale teatro si riferiva?
L’angusto edificio teatrale era il teatro "Della Munizione", vecchio di circa un secolo. Non fu solo Gemelli a lamentarsi del vecchio teatro, ma anche il celebre patriota messinese Giuseppe La Farina, che in seguito ai rifacimenti subiti dal teatro all’indomani del sisma del Febbraio 1783 così diceva: «Oggi [il teatro nda.] è reputato opera sconcia e barbara. I corridoi sono angustissimi, le scale incomode e meschine, la platea lunga e disarmonica…».

Altro motivo che portò alla nascita del "Vittorio Emanuele" trae origine dalla secolare rivalità tra le città di Messina e Palermo. Il Re Ferdinando di Borbone delle II Sicilie, concedendo la costruzione del nuovo teatro, inaugurava la tattica delle concessioni nella logica di un disegno politico subdolo, volto ad acuire la secolare rivalità tra le due città siciliane.
I messinesi,approfittando della disponibilità dimostrata dal monarca volta ad accattivarsi la classe egemone della città,riuscirono ad ottenere la concessione di ulteriori privilegi come l'ormai famosa concessione del "Portofranco" (di cui la statua di Giuseppe Prinzi al porto ricorda lo storico avvenimento) e l'istituto "Maurolico".

Altri segni di distensione da parte della corona sono riscontrabili nella concessione di un servizio postale inaugurato nel 1838 con la prima vettura corriera postale Messina-Palermo.

Messina aveva richiesto al governo dei Borboni, già a partire dal 1827, un nuovo teatro, degno delle fiorenti condizioni culturali. Tuttavia, la risposta della corona borbonica non fu repentina. Bisognò aspettare qualche anno affinché il sogno ambito dai Messinesi diventasse realtà.

Le cause che ritardarono la costruzione del nuovo teatro furono di ordine squisitamente finanziario. Ma improvvisamente avvenne il miracolo.
Nel 1838, per Regio Decreto, si decise la costruzione del "Novello Real Teatro della città di Messina".
Le autorità, interpellate da S.M. Ferdinando II delle Due Sicilie, scelsero come luogo l’area ricavata dalla demolizione del teatro "Della Munizione", ma la posizione non felice dell’edificio eliminò questa proposta. E non fu la sola a decretare il rifiuto di costruire in quel luogo il nuovo teatro.

Sulla via Ferdinanda (pressoché l’attuale via Giuseppe Garibaldi), infatti, sorse all’indomani del terremoto del 1783 un carcere costruito sulle rovine della chiesa e convento del Carmine, dove erano stati precedentemente sepolti numerosi uomini illustri messinesi, come ad esempio lo storico Costantino Lascaris e il pittore lombardo Polidoro Caldara da Caravaggio.

Si decretò quindi di costruire proprio in questo luogo il nuovo teatro. Ferdinando II delle Due Sicilie inviava così da Catania all’Intendente del Vallo di Messina, Don Giuseppe De Liguoro, un rescritto con cui ordinava di costruire il teatro sull’area delle vecchie prigioni, che erano considerate come uno scempio alla bellezza architettonica della lunga via Ferdinanda, che era il centro propulsore della vita economica e sociale della città.
Molti cittadini, all’indomani della decisione di demolire il tetro edificio, vollero portarsi il vanto di aver demolito, anche loro, una o più pietre della prigione, al momento in cui venne fatta "tabula rasa" dell’area (di circa mq.2.971) su cui sorgerà il teatro.

Ma a chi poter intitolare questo nuovo "tempio delle Muse"? La risposta era semplice. Per rendere omaggio alla madre di Ferdinando II delle Due Sicilie, la regina Isabella, si decide di chiamare l’edificio con il titolo di "Teatro Regina Isabella", in seguito cambiato in "Santa Elisabetta", in onore sempre della medesima.

Il giorno 20 Dicembre del 1838 cominciava così la demolizione dell’edificio carcerario. I detenuti furono trasferiti nel castello di Roccaguelfonia (dove attualmente sorge il sacrario di "Cristo Re"). Fu quindi bandito il concorso per la costruzione del teatro, che vide tra i partecipanti molti illustri uomini della Messina del tempo, quali Letterio Subba e Carlo Falconieri.

Presidente della commissione giudicatrice fu Antonio Niccolini, uomo di origine toscana ma napoletano per adozione. E forse fu proprio per volere di quest’ultimo, che vincitore del concorso non fosse un Messinese, ma un napoletano, il cui nome era Pietro Valente. Questi, uomo molto colto e apprezzato nell’ambiente partenopeo, era, infatti, docente di Architettura civile presso l’Università di Napoli.
I concorrenti Messinesi contestarono tale assegnazione, e le critiche al Niccolini non furono poche. Tuttavia, il Valente, rimase il fautore del nostro teatro Vittorio Emanuele II. Il progetto prevedeva una facciata a tre ordini con un corpo avanzato munito di portico. Lateralmente, invece, il teatro prevedeva nel progetto numerose finestre distinte fra i tre piani totali del nuovo edificio.

La prima pietra fu posta il 23 Aprile 1842, con solenne cerimonia, tra la generale euforia del pubblico presente. Il rustico del teatro fu pronto straordinariamente in pochi mesi. L’ 8 Giugno del 1846 fu bandito invece il concorso per il sipario del novello edificio. Vincitore risultò il messinese Michele Panebianco. L’apertura del teatro fu decisa per il 12 Gennaio 1852, giorno del quarantaduesimo compleanno di Ferdinando di Borbone. Il teatro,la serata inaugurale,risultò stracolmo di persone. Si decise l’apertura con l’opera "Il Trionfo della Pace", azione melodrammatica di Felice Bisazza con musiche di Antonio Laudamo.

Per ricordare l’evento fu fatta collocare nel peristilio del "Santa Elisabetta" una lapide marmorea, oggi non più esistente, che così recitava:

«I messinesi
Avendo edificato questo Teatro
Lo aprirono nell'anno MLCCCLII
Il di' 12 del mese di Gennaio
Natale di Re Ferdinando II
Per attestare solennemente la loro profonda gratitudine
E la divozione non peritura verso il Principe Generoso
Il quale dopo aver restituito con la Università degli Studi
Un domicilio alle più severe discipline
Accrebbe la magnificenza della Città
Concedendole
Uno splendido albergo delle arti più gentil

Nel 1853 il Municipio di Messina affidava a Saro Zagari, l’incarico di eseguire le decorazioni esterne del nuovo tempio della musica messinese.
Il “Vittorio Emanuele” si inserì così nella vita del popolo messinese, tra la contentezza generale. Dopo 56 anni, però, si giunse così a quella fatidica alba del 28 Dicembre 1908. Il terremoto risparmiò quasi per interno il teatro (se si esclude la parte posteriore), ma l’ignoranza, l’abbandono, e la distruzione da parte dell’uomo, lo ridussero ad un rudere.
Già la ditta Ciocchetti negli anni 50, con la scusa dei danni bellici causati dall’ultimo conflitto mondiale al vecchio edificio, eliminava la bellissima sala del teatro, che anche i manuali di fisica, per la sua acustica, avevano definito perfetta.

Nel 1980 ciò che rimaneva del teatro “Vittorio Emanuele”, distrutto per mano dell’uomo a partire dagli anni 50 del XX secolo, lasciava il cittadino messinese per sempre, ormai lontano dal vissuto storico. Ciò che rimaneva dello stabile venne distrutto e gettato nella discarica di Maregrosso. I messinesi, comunque, riuscirono a riappropriarsi del loro teatro e la scommessa durata ormai 77 anni fu così vinta.

Il 25 Aprile del 1985, a centotrentatré anni dalla prima storica inaugurazione, il “Vittorio” ritornava a nuova vita, tra la commozione generale.

Palazzo Zanca

Nov 21, 2024

- di Alessandra Basile -

Del 1924 è il Palazzo municipale, realizzato su disegno dell'architetto palermitano Antonio Zanca occupa l'isolato  324 del Piano Regolatore, delimitato con contorno di pen­tagono dalla piazza Municipio, dalla via Consolato del Mare (già via Rovere), dalla piazza Circolare Antonello da Messina, dal Corso Cavour e dalla via S. Camillo. Esso è costituito da padiglioni a doppia elevazione oltre il piano cantinato, collegati fra loro da apposite gallerie e sviluppati perifericamente ad un grande cortile.

Notevoli le sculture del fastigio, degli artisti messinesi Bonfiglio e Sutera, e, all'interno, gli affreschi dell'aula consiliare di Adolfo Romano e Daniele Schmeidt, un busto di Antonello e un Colapesce, di Bonfiglio. L'affresco raffigurante l'Ultima Cena che Alonzo Rodriguez dipinse nel 1617, è stato collocato nella Sala Giunta.  Le pareti di alcune sale e di un corridoio sono ornate da quadri e sculture di proprietà del Comune o ceduti in uso al Museo Nazionale.

SAN GIOVANNI ROTONDO (FOGGIA) - Dal prossimo primo giugno sarà permanente l'ostensione del corpo di san Pio da Pietralcina nella chiesa inferiore a lui intitolata a San Giovanni Rotondo. Sarà il prefetto della Congregazione delle cause dei santi, card.Angelo Amato, a presiedere la celebrazione eucaristica per l'inizio dell'esposizione.

La notizia é stata annunciata dall'Ufficio stampa dei Frati minori cappuccini della provincia religiosa 'Sant'Angelo e padre Piò. L'unica ostensione delle reliquie del frate delle stimmate si é tenuta dal 24 aprile 2008 al 24 settembre 2009.

 

Insieme con il card. Amato - è detto in una nota - "giungeranno in pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo, per venerare le spoglie del Santo, tutti i collaboratori che prestano il loro servizio presso il Dicastero". Concelebreranno la funzione dell'ostensione l'arcivescovo di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo, mons. Michele Castoro; l'arcivescovo segretario della medesima Congregazione, mons. Marcello Bartolucci e numerosi sacerdoti, cappuccini e diocesani. Il corpo di san Pio da Pietrelcina resterà nello stesso luogo, cioé nell'intercapedine del plinto centrale della chiesa inferiore, custodito in un'urna di vetro.

(Ansa)

- di Alessandro Fumia -

 

Gli esperimenti di trasmissione elettromagnetica in codice, ebbero le prime applicazioni fin dai primi anni del XIX secolo.

Le scoperte di Gugliemo Marconi e i segnali radio sperimentati ed applicati a Messina, hanno messo la nostra città, sotto l'attenzione della opinione pubblica internazionale. Nell'immaginario collettivo degli anni del primo novecento, Messina veniva ricordata come la patria della scienza in rapporto, ai segnali elettromagnetici e radio. Numerosi esperimenti del genere vennero effettuati in Sicilia e a Messina in modo particolare; questo stato di cose, favorì lo stereotipo, di immaginare Messina, come culla di una nuova frontiera.

A tale motivo, l'ingegnere tedesco Helmut Hoelzer all'inizio del 1942, ebbe costruito un computer analogico per calcolare e simulare le traiettorie possibili di un'arma il razzo V-2. Il team di Hoelzer riuscì a sviluppare un sistema modulato per l'emissione di segnali di nuova generazione. La portata dell'innovativa soluzione fu tale, che entusiasmò oltre misura i suoi ideatori. Ricordando questo nuovo apparecchio frutto di genere, delle applicazioni avviate a Messina vollero, allo stesso modo, rimanere nel solco tracciato decenni prima da Marconi, denominando l'incredibile apparecchiatura sistema di telemetria Messina.

Il brevetto ben presto, venne adoperato e applicato per la teleguida dei razzi V2 tanto famosi e tristemente noti agli inglesi, che subirono in quegli anni, moltissime distruzioni e perdite. L'idea dell'ingegnere tedesco di teleguidare razzi armati attraverso onde elettormagnetiche, sbalordì il mondo. Quel progetto fu possibile dalla costituzione di un gruppo di lavoro di prima scelta. Nel mese di ottobre del 1939, mentre lavorava per la Telefunken società di elettronica di Berlino, Hoelzer ha incontrato Ernst Steinhoff, Hermann Steuding e Wernher von Braun per quanto riguarda i progetti di guida del veivolo.

Alla fine del 1940 a Peenemünde Hoelzer era capo del progetto militare, sviluppando un sistema di guida-piano che alternava un segnale trasmesso da due antenne a breve distanza a parte (onde medie sperimentato la prima volta a Messina nel 1926), fabbricando pure un dispositivo di miscelazione tubo a vuoto tedesco: che corresse per la quantità di moto per non turbare un oggetto che era stato spostato di nuovo in pista di lancio.

Con la caduta del 1941, il miscelatore di Hoelzer è stato utilizzato per fornire al razzo V-2 la misurazione della frequenza invece di utilizzare i normali giroscopi. La telemetria wireless ebbe le prime apparizioni nelle radiosonde; la prima volta fu sviluppata nel 1930 da Robert Bureau in Francia e da Pavel Molchanov in Russia. Il sistema di temperatura modulata Mochanov e misurazioni della pressione effettuò uno schema metrico convertendo i wireless nel codice Morse. Il razzo tedesco V-2 ha utilizzato un sistema di segnali radio multiplex primitivi chiamati "Messina-1" capaci di segnalare quattro parametri del razzo armato. Di fatto la prima evoluzione dell'arma missile, come viene conosciuto oggi.


Il "timelapse" realizzato da Google nel 2012, consente  come una macchina del tempo,  di osservare i cambiamenti del mondo fino al 1984.

Grazie ai satelliti Landsat e in collaborazione con U.S. Geological Survey, Nasa e il Time, ha confezionato lo "storico" delle immagini satellitari scattate dal 1984 ad oggi, permettendo di tornare indietro nel tempo ed osservare i cambiamenti del nostro pianeta.

Ghiacciai che si sciolgono e laghi che si prosciugano a causa del riscaldamento globale. Espansione di città come Las Vegas o Dubai.

Deforestazione della Foresta Amazzonica e crescita a dismisura della città di Shanghai: in soli 28 anni di mutamenti.

E tra 50?

 

http://world.time.com/timelapse/


È dottore in Lingue. Onorificenza conferitagli dalla facoltà di Studi umanistici dell'Università di Cagliari

PALERMO – Laurea honoris causa per Andrea Camilleri. Tutti in piedi e un lungo applauso lo ha accolto questa mattina nell'Aula Magna del Rettorato di Cagliari. La Facoltà di Studi Umanistici dell'Università gli ha conferito la laurea magistrale in Lingue e letterature moderne europee e americane. Il padre del commissario Montalbano da oggi è perciò dottore.

LECTIO MAGISTRALIS - Il legame che unisce Camilleri alla Sardegna ha origini antiche. “Mio padre è stato ufficiale della Brigata Sassari anche agli ordini di Emilio Lussu, per il quale nutriva una autentica venerazione. Aveva da sempre il desiderio di tornare in quest'isola”, ha raccontato lo scrittore nella sua lectio magistralis, “Riflessioni su un capitolo di Svevo”, dove in un excursus che ha toccato Verga, Deledda, Pirandello e Svevo sul contrasto generazionale vecchi e giovani ha commosso la platea con i ricordi legati al padre e al lontano ritrovato legame.

CON LA SUA LINGUA PARLA AL MONDO - “Grande linguista, con il suo alto valore letterario ha la capacità di parlare ai lettori sparsi in Italia e nel mondo”. E' una sintesi della motivazione del conferimento della laurea. “Scrittore italiano nato in Sicilia”, così si definisce l'autore di numerosi romanzi di successo e “creatore di una scrittura ad alta intensità civile e di architetture narrative che aiutano a capire come la diversità sia un valore piuttosto che un ostacolo”. Nella laudatio del preside Giuseppe Marci, che ha ripercorso la carriera umana e artistica di Camilleri, c'è in parte il senso dell'universalità del grande romanziere per il quale “i dialetti sono lingue vere del paese”, baluardi contro il colonialismo linguistico.

 

Corriere del Mezzogiorno (Foto Ansa)

 

Il primo Papa giunto dalle Americhe è il gesuita argentino Jorge Mario Bergoglio, 76 anni, arcivescovo di Buenos Aires dal 1998. È una figura di spicco dell’intero continente e un pastore semplice e molto amato nella sua diocesi, che ha girato in lungo e in largo, anche in metropolitana e con gli autobus.

 

«La mia gente è povera e io sono uno di loro», ha detto una volta per spiegare la scelta di abitare in un appartamento e di prepararsi la cena da solo. Ai suoi preti ha sempre raccomandato misericordia, coraggio e porte aperte. La cosa peggiore che possa accadere nella Chiesa, ha spiegato in alcune circostanze, «è quella che de Lubac chiama mondanità spirituale», che significa «mettere al centro se stessi». E quando cita la giustizia sociale, invita a riprendere in mano il catechismo, i dieci comandamenti e le beatitudini. Nonostante il carattere schivo è divenuto un punto di riferimento per le sue prese di posizione durante la crisi economica che ha sconvolto il Paese nel 2001.

 

Nella capitale argentina nasce il 17 dicembre 1936, figlio di emigranti piemontesi: suo padre Mario fa il ragioniere, impiegato nelle ferrovie, mentre sua madre, Regina Sivori, si occupa della casa e dell’educazione dei cinque figli.

 

Diplomatosi come tecnico chimico, sceglie poi la strada del sacerdozio entrando nel seminario diocesano. L’11 marzo 1958 passa al noviziato della Compagnia di Gesù. Completa gli studi umanistici in Cile e nel 1963, tornato in Argentina, si laurea in filosofia al collegio San Giuseppe a San Miguel. Fra il 1964 e il 1965 è professore di letteratura e psicologia nel collegio dell’Immacolata di Santa Fé e nel 1966 insegna le stesse materie nel collegio del Salvatore a Buenos Aires. Dal 1967 al 1970 studia teologia laureandosi sempre al collegio San Giuseppe.

 

Il 13 dicembre 1969 è ordinato sacerdote dall’arcivescovo Ramón José Castellano. Prosegue quindi la preparazione tra il 1970 e il 1971 in Spagna, e il 22 aprile 1973 emette la professione perpetua nei gesuiti. Di nuovo in Argentina, è maestro di novizi a Villa Barilari a San Miguel, professore presso la facoltà di teologia, consultore della provincia della Compagnia di Gesù e rettore del Collegio.

Il 31 luglio 1973 viene eletto provinciale dei gesuiti dell’Argentina. Sei anni dopo riprende il lavoro nel campo universitario e, tra il 1980 e il 1986, è di nuovo rettore del collegio di San Giuseppe, oltre che parroco ancora a San Miguel. Nel marzo 1986 va in Germania per ultimare la tesi dottorale; quindi i superiori lo inviano nel collegio del Salvatore a Buenos Aires e poi nella chiesa della Compagnia nella città di Cordoba, come direttore spirituale e confessore.

 

È il cardinale Quarracino a volerlo come suo stretto collaboratore a Buenos Aires. Così il 20 maggio 1992 Giovanni Paolo II lo nomina vescovo titolare di Auca e ausiliare di Buenos Aires. Il 27 giugno riceve nella cattedrale l’ordinazione episcopale proprio dal cardinale. Come motto sceglie Miserando atque eligendo e nello stemma inserisce il cristogramma ihs, simbolo della Compagnia di Gesù. È subito nominato vicario episcopale della zona Flores e il 21 dicembre 1993 diviene vicario generale. Nessuna sorpresa dunque quando, il 3 giugno 1997, è promosso arcivescovo coadiutore di Buenos Aires. Passati neppure nove mesi, alla morte del cardinale Quarracino gli succede, il 28 febbraio 1998, come arcivescovo, primate di Argentina, ordinario per i fedeli di rito orientale residenti nel Paese, gran cancelliere dell’Università Cattolica.

 

Nel Concistoro del 21 febbraio 2001, Giovanni Paolo II lo crea cardinale, del titolo di san Roberto Bellarmino. Nell’ottobre 2001 è nominato relatore generale aggiunto alla decima assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, dedicata al ministero episcopale. Intanto in America latina la sua figura diventa sempre più popolare. Nel 2002 declina la nomina a presidente della Conferenza episcopale argentina, ma tre anni dopo viene eletto e poi riconfermato per un altro triennio nel 2008. Intanto, nell’aprile 2005, partecipa al conclave in cui è eletto Benedetto XVI.

 

Come arcivescovo di Buenos Aires — tre milioni di abitanti — pensa a un progetto missionario incentrato sulla comunione e sull’evangelizzazione. Quattro gli obiettivi principali: comunità aperte e fraterne; protagonismo di un laicato consapevole; evangelizzazione rivolta a ogni abitante della città; assistenza ai poveri e ai malati. Invita preti e laici a lavorare insieme. Nel settembre 2009 lancia a livello nazionale la campagna di solidarietà per il bicentenario dell’indipendenza del Paese: duecento opere di carità da realizzare entro il 2016. E, in chiave continentale, nutre forti speranze sull’onda del messaggio della Conferenza di Aparecida nel 2007, fino a definirlo «l’Evangelii nuntiandi dell’America Latina».

Viene eletto Sommo Pontefice il 13 marzo 2013.


L'Osservatore Romano, Anno LXIII, numero 12

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