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MESSANENSI

MESSANENSI

- di Giuseppe Loteta -

 

Personaggi ed episodi dimenticati

(dal nr. 15 del Pagnocco)

 

In una calda giornata dell'agosto del 1943, gli eserciti inglese e americano si erano ricongiunti a Messina. I tedeschi fuggivano oltre lo Stretto. La guerra per i messinesi era finita. E lentamente la città riprese a vivere. Affossato dalle macerie, il viale San Martino, arteria principale era diventata la via Tommaso Cannizzaro, poco colpita dai bombardamenti aerei. E lì, nel caffè ad angolo poi nobilitato con la denominazione esotica di "Select", ma che allora si chiamava "Bar del Tribunale", cominciarono a riunirsi i vecchi antifascisti, appena usciti dalla galera, dal confino o da quell'altro carcere meno duro ma per loro altrettanto opprimente che erano stati la deportazione casalinga, la solitudine, lo sconforto nel ventennio appena concluso. Non erano molti, certo. Eccezioni, in un consenso al fascismo che negli anni Trenta era stato massiccio, finché la dichiarazione di guerra non aveva cambiato le carte in tavola, inimicando alla maggior parte degli italiani il regime fascista. E con loro c'era qualche ragazzo che per la prima volta sentiva parlare liberamente di democrazia, di partecipazione popolare alla vita politica e, in qualche tavolo, di rivoluzione.


Poi, subito dopo, gli antifascisti pensarono a darsi una sede, a creare strutture di partito, a prendere contatti con i paesi della provincia é con le altre città liberate. Al centro e alla destra dello schieramento politico non mancavano personalità di rilievo, a cominciare da Gaetano Martino. E c'era anche in città qualche vecchia figura della democrazia prefascista, come il costituzionalista Ettore Lombardo Pellegrino, baffoni alla Umberto I e cappellone a falde larghe in testa, appena reintegrato nella sua cattedra all'Università. Era stato lui nei primi anni Venti a rispondere picche al deputato fascista che attraversava il "Transatlantico" di Montecitorio insieme con il nuovo capo del governo e che, incontrandolo, gli aveva chiesto: "Onorevole, lei non conosce ancora Sua Eccellenza Mussolini?". Agitando nervosamente il bastone e roteando gli occhi, il professore aveva sillabato: "Non lo conosco e non lo voglio conoscere". Nascevano i separatisti, sotto la guida di Saro Cacopardo, di Renato Calapso, di Ciccio Restuccia, di Anselmo Crisafulli.

E tra gli iscritti al MIS (Movimentio Indipendentista Siciliano) erano parecchi i giovani, attratti dal miraggio di una Sicilia libera dai vincoli e dallo sfruttamento di uno Stato ita-liano accentratore, umbertino prima e fascista dopo. Alcuni di loro, fuggiti di casa, indossarono per qualche mese le uniformi dell'EVIS (Esercito Volontario per l'Indipendenza Siciliana) e ci fu anche, tra questi, chi partecipò nel catanese al conflitto a fuoco con i carabinieri che costò la vita del leader indipendentista Canepa. Nei ginnasi e nei licei cittadini molti ragazzi sfoggiavano all'occhiello della giacca il distintivo della Trinacria e allacciavano interminabili dibattiti, che spesso degeneravano in vere e proprie risse, con gli altri, gli unitari. Tra questi, ma sono soltanto i primi che mi vengono in mente, Sandro Staiti, Nazareno Saitta, Mimmo Ferraro e Gianni Cicala.


In tutti i partiti dominavano l'entusiasmo e la voglia di vivere intensamente la nuova vita democratica del Paese. A sinistra si aggiungeva la speranza di rinnovamenti profondi, non disgiunta da poco realistiche rivendicazioni del tutto e subito e da numerosi schematismi, allora difficilmente evitabili. I repubbli-cani avevano conquistato un paio di stanze nella ex "Casa Littoria", di fronte al mare, e piazzato il giornalista Silvio Longo alla direzione del "Notiziario di Messina". Tra i giovani del PRI emergeva Nino Modica, pallido e minuto ma animato da non comune forza dialettica. I socialisti avevano affittato una stanzetta in via Santa Cecilia e cominciavano a darsi un'organizzazione. Potevano contare sull'apporto del professor Miraglia, del ragioniere Peppino Lombardo, del dottore Enzo Messina, degli avvocati Sandro e Pietro Pisani, padre e figlio, dell'avvocato Franchina, del vecchio sindacalista Micio Scuderi che ogni primo maggio infilava un garofano rosso nell'occhiello della giacca e guidava un corteo per le strade cittadine intonando a tutta voce l'Inno dei lavoratori. Stefano D'Arrigo, Eugenio Fiorentino, Felice Canonico, Paolo Chiossone e altri studenti universitari avevano ricostituito la federazione giovanile socialista. Prende la tessera della federazione anche il giovanissimo Gianni Finocchiaro che negli anni successivi ne diventerà il dirigente.


In quel tempo andava sviluppandosi a Messina anche un consistente gruppo anarchico aderente alla FAI (Federazione Anarchica Italiana). Ne erano animatori Vincenzo Mazzone, un veterano che era sfuggito a una condanna a 14 anni di reclusione, inflittagli dal tribunale speciale fascista, aveva partecipato alla guerra di Spagna nelle brigate internazionali, era poi riparato nell'Africa del nord ed era ritornato a Messina subito dopo l'ingresso delle truppe alleate, e l'avvocato Placido La Torre. Ma il cervello del gruppo era Gino Cerrito, un giovane che si avviava agli studi storici (sarebbe diventato assistente di Giorgio Spini e poi docente di storia moderna nell'Università di Firenze) e che si era appena dimesso dal Partito Comunista con una veemente lettera che si concludeva con "Viva Bakunin! Viva l'anarchia! ". Con loro, Marco Parolini, Fifi Romanengo, Nino Crimi, Tullio Procaccianti e tanti altri giovani.

Anche gli anarchici avevano trovato al-loggio nell'ex "Casa Littoria", nelle stanze cha si af-facciavano sul mare. E lì, sul muro esterno, avevano piazzato uno striscione che non poteva essere ignorato dalle navi che entravano nel porto. A grandi lettere c'era scritto "Federazione Anarchica Italiana". E lì andò a trovarli per una riunione Armando Borghi, il vecchio libertario amico di Salvemini che aveva strapazzato Mussolini, quando questi aveva abbandonato il socialismo e fondato il partito fascista, prendendolo per il bavero e gridandogli in faccia: "Benito, traditore, chi ti dà i denari?". Quando Borghi arrivò a Messina, la città era soffocata da una di quelle calmerie di scirocco estive che tolgono la voglia di vivere. E il vecchio reagiva alla sua maniera, ignorando ogni conformismo. Accoglieva gli ospiti nella sua stanza d'albergo completamente nudo, ma elegantemente a suo agio come se avesse indossato un completo di lino.

I comunisti

I comunisti, all'inizio assidui frequentatori del "Bar del Tribunale ", cominciarono a tenere le loro riunioni più riservate nell'abitazione semidistrutta dai bombardamenti dell'avvocato Peppino Schirò, in piazza Cairoli. E poi rimediarono una baracca in largo Seggiola che fu per lungo tempo la loro federazione provinciale e dopo la sezione centro. Fecero stampare le prime tessere nella tipografia dei figli del vecchio anar-chico Tommaso De Francesco, che, durante il ventennio, anziano, malandato in salute e del tutto in-nocuo, veniva sbattuto in galera ad ogni passaggio in città di un gerarca fascista perché "anarchico perico-loso".

Da Schirò e in largo Seggiola si rividero vecchi compagni e se ne conobbero di giovani e nuovi. Umberto Fiore, con il pizzetto nero che cominciava a incanutirsi, era appena ritornato da Lacedonia, dov'era stato confinato insieme a molti altri antifascisti. Fu lui il motore di avviamento della federazione, insieme con gli altri confinati che avevano fatto ritorno a Messina e con quei compagni che, pur sottoposti a misure di sorveglianza, erano rimasti in città. Si ricostituì il grup-po di giovani che negli anni Venti e Trenta erano stati gli allievi di Francesco Lo Sardo: Pietro Pizzuto, Saverio Tignino, Masi Cannarozzo, Emilio Longo, Peppino Fusco, Antonio Romeo, Pippo Lo Re, Saro Catanzaro.

Si ricongiunse con la generazione di mezzo, Pierino Mondello, Emanuele Tuccari, Vittorio Terranova. E con i giovani che affluivano numerosi al partito: Pancrazio De Pasquale, che aveva fatto le sue prime esperienze in clandestinità, ispirato dal filosofo comunista Galvano Della Volpe; Eli Conti, che comparve un giorno in federazione con la divisa di ufficiale della marina, volontario nella guerra contro i tedeschi e i fascisti, mentre la maggior parte degli studenti universitari, molti reduci dal fronte, manifestavano contro il nuovo richiamo alle armi, Pietro De Francesco, decorato al valor militare per un'azione partigiana. Ancora: Corrado Curatolo, atletico capitano della squadra di pallanuoto del centro universitario sportivo messinese, Gigi e Gaetano Calarco, Salvatore Dugo, Silvio Castagna, Eolo Cogliani, Edoardo Biondi, Dino Minniti, Nino Bonanzinga, Filippo La Maestra, Alfre¬do Bisignani, Maria Polimeni, Maria Costantino e decine di altri.


L'avvocato Giovanni Millimaggi, comunista della prima ora, si tenne in disparte. Sognava una Sicilia indi-pendente e bolscevica. Ne parlò con Togliatti, allora più noto come "Ercoli", quando il segretario del PCI venne a Messina per una manifestazione di partito che si tenne nel baraccato "Supercinema", l'ex "Cinema Casalini" del periodo fascista. Ed Ercoli lo liquidò con un lapidario e sprezzante "Tu sei pazzo ". Nella stessa occasione si verificò un curioso episodio che misura correttamente l'atmosfera che si respirava in quel tem-po. Mentre la federazione era affollata di comunisti che aspettavano il segretario, si udì una voce levarsi alta nel brusio generale: "Togliatti è un porco. Bisognerebbe tagliare la testa a Togliatti". Era il professore Giambelli, docente all'Università, matematico insigne e bislacco che girava per la città vestito di abiti consunti e spesso appesantito da un fiasco di vino o da una cartata di pescestocco che fuoriuscivano da una delle ampie tasche della giacca. Seguirono attimi di gelido silenzio, di immobilità generale. Il linciaggio era nell'aria. Fu salvato da una donna che gli stava vicino e che si mise ad urlare: "Pugliatti. Ha detto Pugliatti, non Togliatti. E con Pugliatti che ce l'ha". Rivalità accademiche che potevano costare caro all'eccentrico professore.


La "svolta di Salerno", voluta con decisione da Togliatti al suo rientro in Italia da Mosca, tardò ad affermarsi nel partito comunista di Messina. Rinuncia, almeno per ora, alla rivoluzione, accettazione provvisoria della monarchia, collaborazione con i partiti borghesi erano concetti che stentavano a farsi strada nella mentalità bordighista di molti dei vecchi iscritti al partito. Uno di questi, Carmelo Chillemi, esule a Bruxelles nel ventennio fascista, mandò al diavolo in una burrascosa riunione i dirigenti togliattiani di Messina e se ne ritornò nella capitale belga.


I giovani, invece, erano affascinati dal "partito nuovo" di Togliatti. Loro, la collaborazione con i coetanei degli altri partiti di sinistra e con i giovani anarchici la praticavano giornalmente: nel Fronte della Gioventù, nella lotta serrata ai separatisti e ai tentativi velleitari di rivalsa fascista che a Messina, come in altre città del Sud, si traducevano in azioni terroristiche poco rilevanti, ma sistematiche e continue; nelle mille occasioni che la vita democratica offriva generosamente in quegli anni. II massimo di questa collaborazione si ebbe nel 1946, durante la campagna per il referendum istituzionale.

Ogni giorno insieme, i giovani comunisti, socialisti, repubblicani e anarchici (questi ultimi avevano rinunciato al loro tradizionale astensionismo elettorale per un voto a favore della Repubblica nel referendum) giravano per la città e per i villaggi ad attaccare manifesti e a diffondere opuscoli, a improvvisare comizi e dibattiti, a scontrarsi con i monarchici che in città non erano pochi, a sostenere, nei teatri e in piazza Cairoli, i comizi degli oratori repubblicani venuti da Roma, a contrastare quelli degli oratori monarchici. E ogni comizio, di qualsiasi partito fosse, si trasformava inevitabilmente in una rissa, almeno verbale. "Repubblica! ", si gridava da una parte; "Monarchia! ", dall'altra.

E non fu poco lo scorno dei ragazzi di sinistra quando interruppero, in piazza Cairoli, il comizio del liberale e monarchico Roberto Lucifero, avanzando verso il palco con il braccio teso e le dita della mano destra inequivocabilmente piegate in modo da simboleggiare un paio di corna. Furono bloccati da un oratore imperturbabile che scandì al microfono: "Vedo avanzare verso di me una schiera di giovani che innalza l'emblema dei loro padri...". Gli indici e i mignoli ritornarono subito al loro posto.

Messina città monarchica

Nei mesi che precedettero il referendum i giovani monarchici erano molti e ben organizzati. I ragazzi della sinistra facevano più del possibile, ma il confronto con gli avversari era decisamente impari. Se ne ebbe la prova soprattutto il 29 maggio del 1946, quando venne a Messina Umberto di Savoia, da poche settimane re, per salutare i sudditi dall'alto del balcone centrale del palazzo della prefettura, invitandoli implicitamente a votare per la monarchia. Quel giorno furono lì, prima che la folla dei fedeli rendesse impossibile l'accesso alle posizioni più ambite. L'appuntamento era sotto il balcone, tra il palazzo e il Nettuno del Montorsoli. Non in molti, trenta o quaranta, aspettarono che la piazza si gremisse. E poi il re apparve. Inconfondibilmente lui, il principe di Piemonte delle copertine della "Domenica del Corriere", anche se leggermente invecchiato e ormai quasi calvo. La folla esplose in un applauso che sembrò in-terminabile, inframmezzato da squillanti "Viva il re!", "Viva la casa Savoia!", "Monarchia, monarchia!". Quando subentrò il silenzio, Umberto si sporse lentamente dal balcone, alzò le braccia e regalò al suo pubblico un gran sorriso. 

E allora, nella piazza paralizzata, tutti udirono nettamente il giudizio dei giovani di sinistra, ritmato e urlato: "Buffone! Buffone!". L'udì per primo il re, da pochi metri d'altezza. E il sorriso si spense dal volto reale come un fuoco fatuo. Umberto si ritrasse, parve d'improvviso meno alto, più umano, quasi rassegnato, come l'avremmo rivisto anni dopo nelle fotografie dell'esilio.


Fu un attimo. E si scatenò il finimondo. I primi a reagire furono i marinai di tre navi da guerra ormeggiate nel porto, istigati dagli ufficiali che avevano fatto del giuramento al re una questione d'onore e di bastone. Poi i monarchici di città e il sottoproletariato messinese, entusiasta dei pacchi di pasta e delle scarpe spaiate che i seguaci del re erano andati distribuendo nei quartieri popolari. Alcuni "disturbatori", dopo un meticoloso pestaggio, furono issati di peso oltre la balaustra della passeggiata a mare e lanciati in acqua. Altri, abbandonati per terra con ancora un barlume di conoscenza. Altri ancora, più fortunati, riuscirono a scappare e a rifugiarsi in un caffè di piazza Municipio, tirandosi dietro la saracinesca e aspettando il tardivo, ma per quella volta auspicato, arrivo della "Celere". Ma non era finita lì. L'indomani, 30 maggio, era l'ultimo giorno utile per la propaganda elettorale, prima della pausa di riflessione che avrebbe preceduto il voto. In piazza Cairoli erano fissati per le diciassette un comizio dei separatisti e per le diciotto una manifesta¬ione repubblicana.

Al balcone, per gli indipendentisti, c'era Anselmo Crisafulli, avvocato di grido e buon oratore. Parlava ancora lui quando la piazza cominciò a riempirsi di cartelloni inneggianti alla Repubblica e di bandiere tricolori senza lo stemma sabaudo. E anche, curiosamente, di marinai. Erano quelli del giorno prima, tutti armati con un manganello nascosto dentro il giubbotto. E fu subito scontro. Dalle proporzioni preoccupanti, tanto da fare accorrere in poco tempo interi reparti di polizia e di carabinieri. Ma le cariche non bastavano a separare i contendenti. E a questo punto i carabinieri ricorsero alle armi.

Non spararono ad altezza d'uomo, s'intende. Ma in aria, per intimorire e cercare di riportare un po' d'ordine in piazza. Non tutti i colpi, però, finirono in cielo. Alcuni trapassarono il muro della casa dove al balcone stavano ancora i separatisti, a pochi centimetri dalle loro teste. E allora Crisafulli, che non aveva capito molto di ciò che stava accadendo in piazza e credeva si trattasse di un tentativo di interrompere il suo comizio, riprese il microfono che aveva abbandonato all'inizio dei tafferugli e cominciò a gridare: "I carabinieri ci sparano addosso? Ebbene sappiano che noi non ci facciamo intimidire. Assalteremo le loro caserme, prenderemo le loro armi, proclameremo l'indipendenza della Sicilia". Ci vollero ore perché tutto finisse.


Due giorni dopo, il 2 giugno, Messina diede 78.343 voti alla monarchia e appena 13.446 voti alla repubblica. Ma in molte altre città italiane andò diversamente.

- di Marco Giuffrida -

 

Anni 1955, 1956. Ma è storia questa che certamente comincia qualche anno prima. E comincia in Piazza Municipio quando solo ai margini, in prossimità dei marciapiedi, vi erano file di alte palme. La domenica, “trascinati” dalla presenza di un giovane, Donatello Romano, si andavano a vedere volare gli aeromodelli.

Donatello, alto, magro, capelli e barba di un bel rosso rame, arrivava a bordo di un motorino che si era costruito su un telaio recuperato fra i residuati bellici. Era il mezzo pieghevole di certe truppe paracadutate americane. Subito, Donatello, si metteva all’opera e, dopo pochi minuti, rombante, si levava in volo e cominciava a girare in circolo un piccolo aereo a motore che controllava con dei lunghi fili.

Aveva le mani d’oro ma, soprattutto amava le novità e ingegnandosi con quello che si riusciva a trovare sul mercato a “quei tempi”, costruiva i modellini e le cose più impensabili. Dal motorino, come ho scritto, allo slittino, per arrivare agli alianti di tutte le dimensioni. Aerei a motore a scoppio e  ad elastico “passando”, poi, ad un grande motoscafo radiocomandato, che presentò un agosto in Fiera. E per finire, costruì anche un aliscafo radiocomandato che riproduceva e, in qualche modo anticipava, quello in montaggio presso i Cantieri Rodriguez di Messina.

Splendido modello che faceva sognare con le sue evoluzioni e, soprattutto, che appena presa velocità si sollevava dall’acqua e navigava sostenendosi sull’ala a “V” a prora. Donatello con al collo la grossa e pesante scatola del radiocomando, spostando leve e premendo pulsanti, inviava i comandi necessari per la navigazione. Questo non passò inosservato a chi dirigeba quei Cantieri  e il “nostro” Donatello fu chiamato a svolgere non ricordo bene quale lavoro. Probabilmente per preparare modelli per le esposizioni o per ulteriori studi dell’Azienda.

“Lui” lavorava all’Ufficio Imposte (o qualcosa del genere) presso l’Intendenza di Finanza dove mio Padre era Funzionario. Nell’accettare questa nuova attività si mise in “aspettativa”, di questo ne sono certo e lo ricordo bene.

La domenica, comunque, tutti rispettavamo l’appuntamento ed io mi aggregavo, sempre se ero libero da riunioni o uscite con gli Scout. Donatello arrivava sul suo motorino color panna che aveva battezzato per la forma “Il Panino” ed io, assieme a qualche altro interessato, ero lì pronto a dargli una mano. Altre volte invece l’appuntamento era lungo la Passeggiata a Mare, per collaudare o provare le sue imbarcazioni.

Affascinante!

Anche a mio Padre piaceva assistere a queste prove e, un giorno, “loro adulti”, si misero a discutere di modelli ma, anche di navi vere, tanto che Donatello si impegnò a chiedere alla Direzione del Cantiere il permesso di farci vedere da vicino l’Aliscafo in costruzione: “La Freccia del Sole” o qualcosa del genere. Un Nome che “sapeva” di bello, di speranza, di luce.

Il permesso, però, non giunse subito perché gli estranei non erano ammessi di buon grado. Ma il modo cortese di Donatello e, probabilmente, il ruolo di mio Padre, ebbero la meglio e superarono ogni reticenza.

Andammo a piedi dal Torrente Boccetta fino alla Zona Falcata del Porto dove vi era il Cantiere. Non ho certo ricordo dei dettagli, ma dopo avere incontrato Donatello all’ingresso, fummo condotti in un grande capannone dove, ad assemblaggio quasi ultimato, illuminato da potenti fari troneggiava l’Aliscafo.

Nulla a che vedere con quelli maestosi ed enormi dei giorni odierni, ma per quegli anni era certamente un’imbarcazione “importante” e, sicuramente, complessa: un autentico “Mostro” della Tecnica!

Fu visione di pochi minuti con semplici descrizioni della funzione delle “ali” e del lungo asse che, uscendo dalla carena, dalla “Sala Macchine” andava fino all’elica. Attorno allo scafo vi era un brulicare di Operai e di Tecnici dediti alle loro mansioni: ognuno sapeva dove andare e cosa fare. Pareva quasi di osservare un grande e laborioso formicaio.

C’era di che sentirsi piccoli piccoli al di sotto di quelle capriate metalliche che nascondevano un’autentica perla della Marineria. Si, gli ospiti erano appena tollerati e, per tanti aspetti, dopo avere lavorato in Aziende “Operative” posso affermare che avevano ragione sia per motivi di sicurezza che di riservatezza.

Allora non fui in grado di rendermene conto e mi dispiacque molto quando ci allontanarono dalla zona di lavoro.

Fummo condotti in un ufficio/laboratorio. Doveva essere la “tana” di Donatello, dove in scala ridotta, naturalmente, potemmo prendere visione del “Mostro” in lavorazione e di altri “battelli” più avveniristici. Frutto, forse, di una fantasia fertile e capace di anticipare i tempi.

Purtroppo lasciai Messina proprio nel periodo in cui furono fatte le prove di navigazione e non ebbi il tempo e la possibilità di potere “volare” con quel battello, “l’Aliscafo”, sul mio Mare.

Peccato!

La "Notturna"

Nov 21, 2024

- di Marco Giuffrida -

 

Messina, una volta l’anno, per dieci ore, diventava “circuito”. Alcune strade erano transennate e nei punti ritenuti più pericolosi venivano messe delle balle di paglia.

Motori rombanti di tutte le cilindrate e potenze li sentivamo ruggire da lontano.

Noi ragazzi riuscivamo ad avvicinarci alle vetture allineate in ipotetici box, dove meccanici si davano da fare per gli ultimi ritocchi alla messa a punto. Scendevamo verso il mare a frotte, dal “Boccetta”, per andare a curiosare e vedere vetture da sogno, o altre che erano elaborazioni e rielaborazioni di macchine commerciali, con carrozzerie modificate e le meccaniche “spremute” fino all’inverosimile.

I gas di scarico, l’odore di benzina e degli oli lubrificanti superavano quello del vicinissimo mare.

Ad una certa ora avveniva la partenza ed allora cominciava il “rodeo” a cui potevamo assistere soltanto un pochino perché, “volenti o nolenti” si doveva rientrare per andare a letto.

Ci si allontanava un po’ frastornati ed un po’ “ubriachi” per il rumore e per avere respirato per ore i gas di scarico che impregnavano l’aria fino a saturare le vie vicine. Di tanto in tanto, per fortuna, il benevolo e “fedele” vento messinese “rimescolava” l’aria consentendoci di “assorbire” qualcosa di sicuramente migliore.

Biondetti, Marzotto, questi i nomi di due Piloti che, a torto o a ragione, mi ritornano in mente assieme alle “Marche” Ferrari, Bugatti, BMW, Alfa Romeo ed altre più o meno note.

Forse tutti questi nomi che ho citato non appartengono alla “Notturna” ma ad altre gare siciliane, che erano segno di Rinascita dopo la guerra.

Erano corse più o meno importanti che attraversavano la mia Città suscitando interesse e curiosità rendendo perfino sopportabile il disagio che causavano alla vita corrente..

Forse qualche riferimento è errato  e qualche imprecisione c’è stata nel mio scrivere. Spero i miei eventuali errori siano compresi e mi siano perdonati.

Troppi sono gli anni trascorsi.

- di Walter Bramanti -

Alla fine della guerra (1940 /44) eravamo bambini, e, poi adolescenti, negli anni 50 eravamo ragazzi o poco più, insomma eravamo i ragazzi che sono cresciuti giocando tra le “ Villette del Torrente Boccetta “ , oggi, Viale Boccetta.

Ebbene si, quei ragazzi di ieri nel trascorrere degli anni sono divenuti, gradatamente: studenti, poi professionisti, quindi adulti, ed ora avanti negli anni, ma coi  ricordi  sempre vivi scolpiti nel cuore in modo indelebile di quella fanciullezza spensierata ed appagante, di quella gioia di vivere che allora si annidava in fondo all’anima bambina. Un mix che poi si incuneava nell’ Essere, corroborando ed affinando la sensibilità di uomini e di cittadini : giocherelloni e leali, volenterosi e corretti.

Ed, in ciascuno dei “ ragazzi del Boccetta “ di ieri, quella gaiezza, quella voglia sfrenata di giocare, di vivere e di amare, sì di amare la vita, non si è mai assopita, neppure negli anni che si sono succeduti. Eppure, il dopoguerra non era un periodo storico florido, gli effetti della guerra erano evidenti e tangibili ed il reddito familiare era esiguo. 
E, se il tempo inesorabilmente trascorso, ha impresso una patina di antico alle vicende di ieri, certi ricordi sono ancora vivi e palpitanti di quella parte del vissuto, che in quanto tale è intimamente legato ai ragazzi del Boccetta. Quella parte scanzonata della vita,  appartiene a ciascuno, impreziosita dai ricordi incancellabili dei giochi bambini, delle marachelle, di quelle fantasiose proiezioni di vita con tanti sogni nel cassetto, con mille idee sostanziate di purezza di sentimenti, strutturati di valori fondanti, cesellati nell’Essere del ragazzo di un tempo, quali : famiglia, scuola, onestà, Dio.
Tutto il mondo di allora era fatto di “piccolezze “ senza ricchezze, solo giuochi innocenti alla luce del sole. E, già non esistevano i cellulari, non si possedevano i motorini e neppure  le auto di papà, le ragazze non erano a portata di mano e si sconosceva l’esistenza della droga, dello sballo e del bullismo. 

Ecco perché nel caleidoscopio delle altalenante vicende della vita di oggi, ritornano piacevolmente in mente come un filmato, i momenti esaltanti di quella fanciullezza trascorsa e sono e restano come ricordi di episodi inestinguibili, che hanno permeato la vita di ciascuno. 
Ritornano in mente le prime partitelle di calcio, (prima con le palle di pezza che venivano  confezionate in casa), poi con una palla di gomma –non sferica, anzi quasi a foggia  di rombo-  giocate “supra u muntarozzu “ (spazio che allora esisteva allocato tra l’isolato 374 a / 374 b e 374 c  del torrente Boccetta ) .
Poi, in successione: gli incontri di calcetto avevano luogo, nello spazio a monte della Chiesa dell’Immacolata, spazio –allora, in terra battuta- poi asfaltato ove successivamente è stata allocata la Statua di S. Francesco di Assisi; e, dopo si partecipava agli incontri ed ai tornei  nel campo di calcio dei Salesiani – nella vecchia sede del Torrente Boccetta- indi,  la partecipazione ai tornei di calcio più impegnativi ai Salesiani  “San Luigi “ sulla Circonvallazione.   

Nei lunghi pomeriggi estivi si giocava a “palla prigioniera “ nelle Villette –site nella zona bassa del Boccetta- , con la partecipazione  occasionale di qualche ragazzina vicina di casa. Via, via crescendo venivano organizzati  i primi balli, rigorosamente in casa ed in famiglia, sotto lo sguardo vigile e scrupoloso dei genitori, che a cerchio sedevano nel sala dove i maschietti, trepidanti ed impacciati, cingevamo con il braccio destro la vita –e, senza stringere- della timida e pudica ragazzina vicina di casa, seguendo con attenzione il tempo del tango, del valzer o della mazurca. Talvolta, si riusciva a sussurrare furtivamente qualche parolina nell’orecchio alla graziosa damina, o, a sfiorare i capelli col viso, approfittando del fatto che la mamma –dalla posizione di vedetta- si era distratta scambiando qualche frase con la vicina di posto.   

Seguirono negli anni a venire, i percorsi scolastici diversi, e poi gli impegni di lavoro con  lo scorrere ineluttabile della la vita, che fecero da sparti acque ed ognuno si incamminò per strade diverse.
Percorsi diversi, vite diverse, destini diversi.
Ma, pur sempre tutti i percorsi dei ragazzi del Boccetta si sono incanalati su binari e su itinerari strutturati, con un  comune denominatore  di valori, anche se in un vissuto diversificato di carriere, tra le vicissitudini della vita, talvolta in salita, ma con una energia corroborata da solidi concetti del vivere, dell’agire e dell’essere Uomini.
Sempre, figli del tempo, ma ancor prima e sempre creature sensibili e di sani principi, di famiglie amorevoli, compatte ed aggreganti, attorno al calore ed all’afflato umano di un focolare, nutriti di affetto e raccolti attorno ai genitori ed ai fratelli. Un insieme di elementi strutturanti la personalità che hanno consentito di divenire membri a ben diritto, di un società sempre più convulsa ed emarginante. 

Però, non è mai deragliato il percorso dei ragazzi del Boccetta, percorso di vita sempre vissuto su tracciati etici, ispirato da sentimenti corroborati di affetto e con concetti profondamente assimilati e sacri di:  famiglia, rispetto ed affetto inestinguibili.
Il tracciato descritto è solo un profilo che attiene alla storia semplice, ma significativa dei ragazzi del Boccetta di ieri, con la rievocazione nitida e struggente dei luoghi , che erano la cornice stupenda ed ineguagliabile di quell’infanzia passata. Quei luoghi rivivono in ciascuno in termini idealizzati, perchè luoghi rivivono sempre nella memoria di ciascuno perché erano affrescati  con i colori e le visioni suggestivi degli occhi e dei sentimenti della splendente giovinezza.

In definitiva, dei ragazzi del Boccetta –ora avanti negli anni- ho voluto mettere in rilievo, soprattutto ed innanzi tutto, la semplicità e gaiezza della loro infanzia, la poesia della loro anima, il percorso della loro crescita e della loro formazione fatta di piccoli, semplici e sani giuochi, che li hanno aiutato a crescere in armonia, ora dopo ora e giorno dopo giorno, con un cuore di bambini, semplicemente innamorati della vita, dei suoi valori e dei suoi Beni. 

- di Marco Giuffrida -

Con un brivido ho avuto la sensazione di risentire il richiamo. Il grido che rimbalzava da una scala all’altra degli Isolati, quel giorno che dopo quasi cinquanta anni, tornato a Messina,  ho voluto avvicinarmi a quella che fu la mia “prima” casa. Un parallelepipedo squadrato con i segni del tempo e certe “ferite”, evidentemente mai curate, che conoscevo.

A fine guerra, a quel grido, chi aveva un “Prigioniero” si accertava soltanto di avere messo in sicurezza il fuoco, spegneva le rare luci, “raccoglieva” la famiglia e usciva.

Gruppetti di persone sparute nelle traverse, convergendo nelle strade più importanti, presto formando un vero fiume umano. Destinazione, il Porto!

L’occhio attento al mare aperto, sullo sfondo la Calabria, per annunciare l’arrivo delle navi traghetto o di qualche nave militare.

Noi bambini eravamo letteralmente trascinati e tenuti stretti per mano, ad evitare di essere persi nella calca, che all’avvicinarsi del Molo o degli imbarcaderi si ingrossava.

Dialoghi “secchi” soverchiavano il clamore!

- “Sicuri semu?”

- “Cu fu ca detti a notizia?”

- “Priai a Madunnuzza e forsi oggi ci semu”.

Forse!

Questi i dialoghi e le domande ricorrenti che andavano a navigavano in un vuoto di risposte che non trovavano spazio fra la folla assiepata, dietro a transenne di legno grigio, con cui avevano creato corridoi all’uscita del molo o della Stazione Marittima, quella dei Traghetti.

Un grande balzo all’indietro nel tempo, anche se lì dove mi trovavo, di fronte al portone della mia vecchia casa, quasi tutto era cambiato.

In un attimo ho rivisto i muri delle case danneggiati dalle granate e dalle bombe; ho rivisto i palazzi semidiroccati con lembi di manifesti che inneggiavano al Duce, o che imponevano il silenzio perché il nemico era in ascolto...

Il clamore della folla diventava tuono quando i traghetti, o la navi militari, annunciavano l’ingresso in porto con il suono cupo della sirena.

A volte (e la delusione era massima), dal ventre delle navi militari, non usciva alcuna persona e dai traghetti poche donne calabresi, vestite con i loro abiti caratteristici, il cesto in equilibrio sulla testa e pochi ortaggi da vendere.

Al ritorno “in Continente”, le stesse donne, venduti i loro prodotti, avrebbero riattraversato lo Stretto nascondendo in tasche cucite sotto le loro ampie vesti, i pacchi cilindrici di sale per farne contrabbando.

Altre volte, finalmente, dalle navi, uscivano uomini emaciati, grigi come gli abiti che indossavano: “I Prigionieri”.

Questi uomini, magri, sfiniti dalle privazioni, dalla fame, dalla stanchezza, sfilavano nei corridoi formati dalle transenne cercando di riconoscere o di essere riconosciuti......

Gli occhi vividi, lucidi scrutavano i volti delle persone in attesa, abbozzavano qualche sorriso e ricambiavano qualche saluto nell’avanzare lento della fila.

Il silenzio irreale, sottolineato dallo strascichio di scarpe, a tratti veniva rotto da grida di gioia e da irrefrenabili pianti di commozione:

- “Ninuzzu!.....”

- “Maria!.......”

- “Concetta!....”

- “Turi!....”

E le grida di richiamo si mescolavano ai singhiozzi che, con le lacrime, lo compresi da adulto, scioglievano le tensioni e le paure accumulate in anni di silenzi drammatici e di attesa.

Accadde per molti ed anche alla mia famiglia. Ad ogni arrivo, passato l’ultimo dei Prigionieri, restava solo il mesto ritorno a casa con la speranza. Qualche tempo dopo, magari con un po’ di fortuna all’indomani, di sentire ancora il grido “i Prigiunieri arrivanu.....” e rifare lo speranzoso pellegrinaggio al Porto.

Giunse anche per mia madre il giorno che tornò a casa, dalla Germania, il suo “Santuzzu”, che comandato in Grecia prima e in Albania poi, all’atto dell’Armistizio era stato catturato ed internato.

Gli era stato dato di scegliere: tornare in Italia per combattere nella neonata Repubblica di Salò, o essere internato. Mio Padre, che già non aveva accettato il Fascismo e meno ancora il Nazi-Fascismo prima della guerra, per coerenza scelse la seconda opzione.

Fu internato a Wietzendorf – Campo 83.

“Avevo giurato fedeltà al Re e non al Duce. Poi a chi si sarebbe dovuto obbedire giacché chi doveva dare ordini era sparito?”

Questo diceva quelle rare volte che apriva una “finestra” su quell’infelice periodo del suo passato. Ma fu uno dei pochi fortunati che riuscì a tornare a Casa e questo, a noi tutti, fu sufficiente.

“Adeluzza” aveva rigirato per mesi una cartolina bianca della Croce Rossa in cui era annunciato che il Tenente Santo Giuffrida, Ufficiale dell’Esercito, era stato fatto prigioniero dai tedeschi, che stava bene e che avrebbe dovuto attendere da lui notizie e l’indirizzo per, poi, potergli scrivere........

Nei lunghissimi mesi successivi, avevo visto la mamma leggere e rileggere quella scarna corrispondenza, passata alla censura dai tedeschi, dove ogni numero, anche le date, ogni nome di luogo e di persona veniva cancellato con tratti di spesso inchiostro nero, per togliere ogni possibile riferimento di luogo e di tempo.

Negli ultimi periodi, sbaragliate le ultime linee di difesa tedesche, con il convergere verso la Germania delle truppe americane, inglesi e russe, era calato il silenzio che sembrava essere foriero, solo, di cattive notizie e poco si riusciva a sapere e comprendere dalle trasmissioni in italiano di Radio Londra di cui, a volume bassissimo e quando possibile, i “grandi” si mettevano all’ascolto.

Ho precisa memoria di questi viaggi “dell’attesa” preso stretto per mano, per non esser perso, e trascinato verso il porto.......

Finalmente, un giorno, inaspettatamente, da una di quelle file di uomini emaciati e grigi se ne staccò uno, che avvicinandosi al nostro gruppetto prese colore...

- “Adeluzza mia !!!!”

- “Santuzzu !!!!”

E quell’uomo grigio, magrissimo, con abiti militari dismessi ma dignitoso e pulito, si tolse la bustina militare che aveva in capo, abbracciò stretta mia madre e la baciò con una tenerezza impossibile da dimenticare.

Anche loro scoppiarono in pianto così come avevo visto per gli altri. Poi fu la volta del saluto per i membri presenti della famiglia e, infine, arrivò il mio turno.

Io, il più piccolo che mai aveva conosciuto e visto.

E mi sollevò, quell’uomo grigio, vestito di grigio, stringendomi a se baciandomi, dopo avere messo sul mio capo la sua bustina.......

Fu in quel momento che conobbi mio padre “intero” che l’unica immagine a me nota era la foto “mezzo busto” di un uomo in divisa militare e con i baffi. Un uomo che mia madre diceva essere mio padre. Un vero atto di fede per me piccolino... io, figlio di un uomo senza gambe...

La guerra.....

La maledetta ed inumana guerra aveva lasciato segni dappertutto: nei cuori, nelle menti, nei corpi, nelle città, nelle case.....

Ho ancora il preciso ricordo di quel giorno e del “Suo” ritorno a casa. Potrei ripercorrere quegli itinerari della speranza e quello della gioia del ritorno anche oggi, sempre che non siano state fatte, nel frattempo, modifiche alle strade. Potrei scrivere i nomi delle vie se il Tempo non me ne avesse attenuato il ricordo, creandomi una confusione indescrivibile in testa...

Fu quello un percorso lento e gioioso lungo le vie disastrate e fino poi all’incrocio con il Torrente Boccetta, la parte coperta di questo “improbabile” corso d’acqua, arredata con aiuole di oleandri e panchine semicircolari in pietra, guarnite al centro con piccole palme.

Poi, finalmente, la casa!

L’isolato 374.

L’edificio quadrato con il grande ed inaccessibile cortile interno, e la vista sulla Chiesa dell’Immacolata. Era quella una delle case I.N.C.I.S. del quartiere.

“Santuzzu arrivau!”

E il grido di gioia rimbombò nell’androne quadrato di quelle scale, dove gli amici ed i vicini attendevano, ad ogni uscita della mia famiglia, la buona notizia.

Finalmente fummo tutti dentro la casa dal lungo corridoio buio, impregnata dal familiare acre odore della cucina, dove ancora si usava il carbone per i fornelli e, spalancando il balcone del soggiorno, si aveva la vista dritta dritta della “Madonnina”.

Il Miracolo

Nov 21, 2024

- di Marco Giuffrida -

Si, ho assistito ad un Miracolo!
Non ricordo come e perché, ma circolò la notizia che presso la chiesa di Montalto sarebbe arrivata da un paesetto della Provincia una giovanissima Veggente.
Il giorno annunciato, già al mattino presto, la mia famiglia si unì alla marea di gente che dalla periferia si dirigeva al Santuario. Una processione lenta ed affollatissima da cui ad un tratto ci staccammo e, per non so quali vie o scorciatoie, arrivammo proprio vicinissimi all’ingresso della Chiesa. Una posizione, malgrado la folla, di vero privilegio.
E la vidi arrivare, la Veggente!

Una giovanissima.

Una bambina, con una tunichetta azzurra, accompagnata dalla madre e dal padre e da un numero incredibile di persone che uscirono da una macchina arrivata lì vicino chi sa come, vista la confusione che regnava. La polizia stentava a trattenere i molti che volevano toccare quell’essere piccolo dai grandi occhi neri e dai capelli lunghi e corvini.
Stendevano la mano verso “a Santuzza” mano che, rapidamente, tiravano indietro e baciavano a ripetizione.

Il drappello, accolto da alcuni preti con i paramenti, entrò nella chiesa affollata.

Poco dopo, quasi un gigantesco e sconnesso eco, le preghiere recitate all’interno del Santuario venivano ripetute anche all’esterno.
In un latino che, via via si approssimava, le orazioni fuoriuscivano dalla chiesa e, come un’onda, di spandevano verso le file più esterne e lontane della folla.
Il coro di Ave, di Pater e delle Litanie durò fino a poco prima del mezzogiorno.

Poi, improvviso, scese un profondo silenzio che durò un tempo che, a tutti, parve interminabile.
Ad un tratto, sulla soglia della chiesa, apparve la Veggente accompagnata dai sacerdoti e, dietro, dai genitori.
La bambina confabulò con il gruppetto di prelati e laici, infine tese la sua piccola mano ed indicò il Cielo. Il Sole......
Le “retrovie” tendevano a spingere e la folla, in un silenzio incredibile, ondeggiava.
I volti e gli occhi di tutti, man mano, incautamente, si protesero verso il sole e le mani si alzarono a riparare e proteggere, per come possibile, dai raggi cocenti e penetranti.
Nulla!
Nulla!
Nulla!

Poi, chi sa da chi, chi sa da dove, un’invocazione, un urlo:
“Madunnuzza!.......”
“U suli! U suli.... U suli casca!”
E tutti vedemmo il disco infuocato ruotare, abbassarsi, e poi tornare al suo posto.
Una volta.
Due volte.
Tre volte.

La bambina, nella sua tunichetta azzurra, le mani giunte, sembrava totalmente assente, come in un altro luogo.
Poi un altro grido. Una donna, lì, vicino a noi, che urlò,  malgrado il tentativo di un poliziotto di zittirla:
“U suli! U suli cancia culuri!!”
E, tutti, vedemmo il sole diventare dapprima giallo intenso, poi verde, poi bianco e poi blu.
Sempre ruotando e sempre abbassandosi per ritornare, per fortuna, sempre al suo posto.
“U suli! U suli!” il grido ricorrente.

Tutti per un pezzetto a testa in alto ma senza altre segnalazioni di mutamenti della nostra Stella.
Il silenzio per qualche istante la fece da padrone poi, pian piano si trasformò in mormorio...
“U Miraculu.....  u Miraculu..... a Maddunnuzza fici u Miraculu”
E, ad un tratto, il mormorio si trasformò in preghiera...... e da preghiera in brontolio e poi in vociare.
La bambina fu riportata dapprima in chiesa e, poco dopo, caricata con la famiglia, all’interno della vettura che, con l’aiuto dei tanti poliziotti presenti, riuscì ad aprirsi un varco per scendere verso la città e dirigersi, si disse, verso il paesetto d’origine, lì, nell’entroterra, oltre Ganzirri, Capofaro e Mortelle.

Al passaggio dell’auto, sempre quelle braccia tese, la mano, dapprima alla bocca, lanciavano un bacio per poi, rapidamente, tornare alla bocca.......

Tornammo verso casa tenendoci vicini per non essere separati dal flusso della marea di gente.
Molti avevano gli occhi rossi: per la commozione o, forse, per aver guardato troppo il sole ....

- di Marco Giuffrida -

Ricordo dell’immediato dopoguerra:“le Tessere”. Indispensabili!
Cartoncini colorati, celesti, rosa, bianchi, pieni di caselline; ognuna riportava nome e cognome ma, soprattutto, indicava la quantità di pane che si poteva acquistare. Maschi adulti un tot, femmine adulte una quantità inferiore e, infine, per i ragazzi la quantità anche per loro assegnata dalla Legge.Il pane era razionato.Oltre a quanto prescritto non era possibile averne, salvo che comprarlo alla “borsa nera”.

Dunque, al panificio si presentavano le tessere della famiglia ottenendo la corrispondente quantità giornaliera e, da ogni tessera, veniva ritagliata la casellina corrispondente a quello specifico giorno di quella specifica settimana.
Non era molto il pane che veniva portato a casa ma era, comunque, una buona “base” per riempire gli stomachi insaziabili di noi ragazzi.
Per mano di mamma, con la zia Rosetta e la Signora “Annina” si andava al Panificio Cannavò.
Giù per il Torrente Boccetta, una traversa prima del mare, si girava a destra e si proseguiva un pò.
Il saluto d’obbligo al barbiere che insaponava o radeva visi senza sbagliare un movimento pur riuscendo a ossequiare chi, dei suoi clienti, passava in strada.
Io, bambino, ero già un suo cliente......

A seconda di come tirava il vento, si poteva capire della vicinanza del forno che spandeva nell’aria un magnifico ed invitante profumo.
Ancora qualche passo e, finalmente, il Panificio Cannavò.....
E ci si immergeva subito nel vociare della gente in attesa del proprio turno addirittura fuori dalla bottega, sul marciapiede.
Lì, ognuno, del pane lamentava qualcosa:  la troppa umidità, gli errori nel pesare, la scarsa qualità e, ipotesi forse stravagante, quella che alla farina venisse aggiunta polvere di marmo per “fregare” sul peso e recuperare farina per la borsa nera.

A me bambinetto quel chiacchierio non interessava granché e, a furia di sentirle ripetere, quelle lamentele mi sono restate indelebilmente impresse nella memoria.

Io ero affascinato dal bancone dallo spesso ripiano di marmo bianco e dalle persone, dietro, che pesavano il pane e lo mettevano nei cartocci, tagliavano le caselline dalle variopinte tessere di cartoncino stropicciato, ritiravano i soldi e davano il resto. Tutto con una velocità impressionante.

Mi sembrava di essere più piccolo di quello che ero quando, arrivato il nostro turno, mi ci trovavo proprio sotto.
Il banco mi sembrava altissimo e, quel marmo bianco con le venature grigie, mi sembrava inspiegabilmente più bianco.
Sopra, impolverata dalla farina, l’unica grande bilancia, rossa con il piatto che sembrava una culla e con la colonnina sopra la quale vi era il grande quadrante che sembrava un orologio dall’unica lancetta. L’indice, nero, roteava velocemente, quando sul piatto gettavano il pane, ed indicava il peso che, velocemente, veniva letto e, con un rapido calcolo mentale, l’esercente poteva gridare il prezzo all’acquirente per superare il brusio della tanta gente in attesa..

Tutte le donne si raccomandavano di pesare giusto che, a casa, i “picciriddi” avevano fame......
Di tanto in tanto, dal forno appena dietro e ben visibile, arrivavano ceste di pane a sostituire quelle che rapidamente si erano svuotate.

E le pesate si susseguivano veloci.
Veloci erano le forbici che tagliavano le caselline delle tessere.
Veloci erano le mani che si scambiavano i soldi a pagare e a dare il resto.
Veloce era il saluto .....“Vossia benedica”..... e si usciva facendoci largo fra la gente che, vociando, era in attesa del proprio turno anche fuori dalla bottega.

Mi giravo.......

L’indice nero della bilancia continuava a roteare rapido sul quadrante bianco di quell’unica bilancia rossa del Panificio Cannavò e potevo sentire, anche in lontananza, la voce che indicava il prezzo, superando il forte brusio e, infine, il “Vossia” o il “Voscenza benedica”......

Il braciere

Nov 21, 2024

- di Marco Giuffrida -

Le lunghe e ventose serate invernali dell’immediato dopo guerra ci vedevano, a volte, seduti nel grande e spoglio soggiorno attorno ad una specie di ampio e basso catino di rame.

La brace restata nei fornelli della cucina veniva trasferita nel fondo di questo braciere e, quando possibile, si aggiungeva un po’ di carbone e, appena pronto, si portava nel centro del soggiorno, oramai privo di quasi tutti i mobili o perché rubati o perchè distrutti o persi durante il vano correre, sfollando, per sfuggire ai bombardamenti.

Ci si sedeva attorno cercando di “assorbire” quel poco di calore che quel fuoco quasi spento riusciva ad emanare e quando era possibile si ascoltava la radio.

Per questo, lo zio Pippo (Giuseppe) unico maschio adulto della famiglia allargata, girava la manopola della “Ducati” e, nella speranza che non mancasse la corrente elettrica, si metteva alla ricerca di una stazione che trasmettesse notizie. Noi ragazzi imparammo a conoscere il “gong” di Radio Londra, l’apertura dei notiziari di “Radio Mosca” e, a volte, si riusciva a “tirar fuori” qualcosa di assolutamente italiano.

Uno spiraglio alla finestra consentiva un minimo ricambio d’aria per assicurarci di respirare aria sufficientemente pulita: l’ossido di carbonio aveva decimato più di qualche famiglia......

Tutti avevamo le coperte sulle spalle per ripararci da quella sottile ma penetrante lama di freddo. Le coperte, al momento di andare a dormire, venivano rimesse sui letti.

Se la radio trasmetteva qualcosa, il silenzio era assoluto per distinguere meglio dai fischi e dai disturbi le parole di chi dava le notizie. Se non si riusciva ad ascoltare nulla ecco che, spenta la radio, inevitabilmente, la discussione fra i “grandi” andava al quotidiano passato e recente: lo zio raccontava un po’ delle sue avventure giornaliere per andare e tornare dal lavoro.

Sempre meglio oggi, diceva, di quando, quegli stessi itinerari, doveva percorrerli sotto il rischio di qualche improvviso bombardamento o, peggio, dell’arrivo di qualche aereo che, passando a bassa quota,  mitragliava su tutto e su tutti.

Pronto, comunque, al lugubre suono della sirena, a cercare il Rifugio che, raramente, era a portata di mano.

Sempre più spesso portava notizie di amici ritrovati, di qualche militare tornato e, questo, apriva il cuore e dava speranza al ritorno del papà e, aggiungeva la nonna del suo figlio Agatino.....  lo zio Tino che si pensava in Africa (e lo era) prigioniero degli inglesi.

C’era, sempre, lo spazio per qualche preghiera proposta dalla nonna, poi, pian piano, cominciando da noi più piccoli, la coperta sopra le spalle, si andava a letto.

Le uniche luci erano quelle della radio e delle braci quasi spente.

Uscendo dal soggiorno, si respirava l’aria fredda ma pulita del corridoio e, infine, quella, ancora più fredda, della camera da letto.

Si, subito a letto!

Due cavalletti in ferro, alcune assi di legno ed un materasso in crine e, quelle lenzuola che avevano accompagnato la famiglia durante il pellegrinare, durante i bombardamenti, alla ricerca di un posto più sicuro.

Coprivo anche il viso, per vincere il freddo e per “nascondermi” alle paure in cui, quei ricordi di guerra, mi avevano proiettato e, soprattutto, per non sentire la sirena, qualora avesse ancora suonato.

Era freddo.

Sentivo freddo.

Mancava il calore del braciere e quello della compagnia dei familiari..........

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