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I racconti di Nonna e Mamma.

- di Marco Giuffrida -

La Nonna parlava spesso del Nonno Giovanni. Lo aveva sposato che era giovane ed assieme avevano vissuto, fra gioie e difficoltà, molti anni assieme.

A Nonna Graziella piaceva raccontarci del fidanzamento, del matrimonio, della sua vita da sposata, degli anni dell’agio, degli anni della Grande Guerra e della decadenza economica.

Era ancora innamorata del suo Sposo e le piaceva canticchiare una canzoncina che recitava nel ritornello: “io sono la tua Regina e tu sei il mio Re”. Non ricordo il resto. Non ricordo l’autore ma doveva essere una canzone, all’incirca, degli anni sessanta.

Lei, al tempo del matrimonio, aveva, più o meno, diciotto anni (era del 1884) ed il Nonno, credo, quattro anni di più.

Era un bell’uomo il Nonno. Abbastanza alto, con dei bei baffoni, il volto sereno almeno così come appare nelle foto.

Andava a trovare la fidanzata e poteva “anche” starle abbastanza vicino solo, fra loro, c’era la mamma, la futura suocera, la mia bisnonna Adele!

Raccontava, pure, che qualche bacetto ci scappava nei rari momenti di distrazione dell’”Angelo Custode”. Certo “aveva paura di poter restare incinta”, ma come rinunciare ad una manifestazione d’affetto o a un momento di tenerezza?

Il Nonno aveva una Farmacia – Drogheria nel centro di Catania. Comprava, perfino, il cacao e faceva la cioccolata nel laboratorio della sua Bottega. Esistevano a casa mia, ancora dopo tanti anni, le forme di latta stagnata con cui facevano le “tavolette”.

La Nonna ci raccontava dei primi anni di matrimonio con il “suo” Giovanni. La loro era una vita agiata. Possedevano una villa padronale a Cibali, località in prossimità di Catania. Avevano diverso personale di servizio: la cuoca, il giardiniere, il cocchiere e, oltre ad altro personale,compreso un giovane di colore, vi era, anche, una donna addetta esclusivamente alla “toilette” della Nonna: la “pettinatrice”.

Avevano avuto quattro figli: due femmine e due maschi. La prima, Maria, era morta di scarlattina all’età di tre anni. Il secondo, Vincenzo (Enzo), poi Adele (Adeluzza), mia madre, ed infine, il più giovane, Agatino (Tino).

Gli aneddoti erano tanti.

Ricordava, ad esempio, l’illuminazione stradale a gas. Al tramonto, il “U lampiunaru”, il Lampionaio, passava per le vie e, con una lunga asta apriva il rubinetto posto alla base della lanterna e, con la fiammella sempre accesa,sulla punta della stessa asta, provvedeva ad accendere la fiamma.

Aveva vissuto, la Nonna, gli anni delle grandi trasformazioni a cavallo della fine dell’Ottocento e dei primi del Novecento: l’industrializzazione, il passaggio dal gas all’elettricità e, nel 1924 la radio per ricevere le prime trasmissioni.

Si intendeva anche di calcio, Nonna Graziella. Ricordava, infatti che, nel 1908, fu presentata la squadra che, allora, si chiamava Pro Patria e che dopo qualche tempo cambiò il nome in Catania.

Ancora ricordava Caviezel, titolare della Pasticceria Svizzera in via Etnea. “Vicino a dove il Nonno aveva la Farmacia-Drogheria”. E, con dovizia di particolari, descriveva le bontà  che producevano che, al solo ricordo, fanno venire, anche oggi, l’acquolina in bocca.

Era, la Nonna, di poco più giovane del giornalista Nino Martoglio e dell’attore Angelo Musco di cui ricordava molti particolari, le loro collaborazioni, e, soprattutto il loro carattere. Personaggi incisivi e presenti nelle vie della Città di Catania.

Ricordava pure, aveva sei anni, l’inaugurazione del Teatro Massimo Bellini, cuore musicale della Catania dell’epoca e citava il nome di molti interpreti.

Non trascurava, nei suoi racconti, di fare sfoggio di date e di riferimenti precisi:

“Era il 1908 e mancava poco al Natale”.......

Fluente scorreva il racconto della Nonna. Il 20 di quel dicembre, infatti, nasceva mia Madre.

Era la terza figlia. Una femmina ed una grande gioia che, la prima appunto, Maria, aveva raggiunto gli Angeli.

Otto giorni dopo, era mattina, ricordava la Nonna, che un sussultare della casa aveva svegliato tutti. Erano abituati alle bizze dell’Etna, il Mongibello, ma, quella scossa, aveva sapore diverso.

“I lampadari ballavano, ed i bicchieri e le stoviglie avevano tintinnato a lungo nelle credenze. Ma, quello che aveva impressionato, era stata la durata e, soprattutto la potenza di quella scossa”.

No, non era l’avvio di una eruzione. E per rassicurare se stessa e noi bambini, si faceva il segno della croce.

“Resici conto, continuava la nonna, che non era a Catania il problema, ci rasserenammo anche se, il pensiero andò a quei poveri “mischini” che, probabilmente, erano restati coinvolti nel sisma”.

La notizia di dove era accaduto non lo conobbero subito.

Fu il Nonno, ricordava, a portare a casa la notizia che con Messina non si poteva comunicare e non ci si poteva arrivare e che, forse, neppure in Continente si poteva passare. Doveva essere accaduto qualcosa di “grosso”.

“Mischini”. Si, poveracci! E sempre di più si cominciava ad intravedere l’entità della catastrofe, man mano che le notizie prendevano corpo.

Dapprima il pensiero, il desiderio, l’esigenza di dare e, soprattutto, di come fare arrivare ciò che poteva servire. Era però, sempre e solo attraverso il Nonno, che “scendeva” a Catania per il suo lavoro, che riceveva le poche informazioni.

Il suo negozio era luogo di incontri di Autorità, di Militari, di alti Prelati, dei Signori della Città. Tutta gente che “sapeva” e riferiva di morti, molti morti, di gente che, gli occhi sbarrati, girava inebetita per una città che non esisteva più e dove, a malapena, si potevano osservare le tracce di quelle che erano state case e chiese. Le strade erano tutte ingombre di macerie.

Questo riportava chi “sapeva”.

“I primi furono i Russi con le loro navi da guerra a scendere a Messina per portare aiuto, pensate, i Russi!”, sottolineava con enfasi la Nonna Graziella che, via via scendeva nei dettagli, scavando nei meandri della sua memoria.

Nell’immane sciagura, apparve la putrida razza degli sciacalli che si addentrò in mezzo alle rovine alla ricerca di danaro e preziosi, oltraggiò i corpi senza vita, mutilandoli, per meglio e più rapidamente appropriarsi delle gioie che, quelle poveracce e quei poveracci, ancora, indossavano.

Questo raccontavano “chiddi che sapianu” nella bottega del nonno che, puntualmente, riportava alla “sua” Graziella che ne restò impressionata al punto che, dopo oltre cinquanta anni, ricordava ancora ogni più piccolo e truce dettaglio.

Spiegava:

“Allora Messina divenne come zona di guerra e fu istituito il coprifuoco per fermare questa ignobile gente con l’ordine, addirittura, di sparare a vista”.

Poi:

“Messina divenne città morta, in balia, solo, dei soccorritori, alcuni dei quali non brillarono per carità ed onestà perché, in qualche modo, si sostituirono, essi stessi, agli sciacalli e, raccontava, a noi divenuti più grandicelli, che, questi loschi individui spedivano i loro macabri bottini, utilizzando le Regie Poste, che, diligentemente ed efficacemente, avevano tempestivamente, riaperto i loro uffici”.

Ricordava, anche, la guerra, la “Grande Guerra”, momento di esaltazione ed inizio delle sfortune della sua famiglia.

Il Nonno partì Volontario per il “Nord”. Avevano bisogno di tutto e di tutti e lui, con la sua esperienza di “Farmacista - Droghiere” fu inviato, aggregato alla “Sanità”, nella zona di Cogollo, nel vicentino, presso il Monte Cengio.

Si rigirava foto ingiallite, fra le mani, la nonna.

Le foto del Suo Giovanni, le foto del Suo “Re”!

Che tenerezza, oggi, rivedere quelle stesse foto ancora più sbiadite e ingiallite.

Lui, il Nonno, i suoi primi piani, vicino ai ruderi delle case distrutte dalle bombe.

Lui, il Nonno, che conosceva solo la Sua Montagna, l’Etna, ora ai piedi delle Prealpi Venete, la neve caduta fino a valle, in un inferno di fuoco, di sangue e di morte.

Era partito convinto, il Nonno, che quel viaggio verso l’ignoto, quel sacrificio per una Terra che non aveva mai visto, per la Patria che amava, quel viaggio, Lui, doveva farlo.

Per questo diede un bacio alla Sua “Graziella” a cui affidò i tre figli rimasti e partì. Era certo di essere supportato dal Socio e dai dipendenti della Sua Azienda.

Vi sono note tenere, a volte gioiose, dietro quelle immagini che, oggi, fanno parte del mio “patrimonio”: dediche alla Mamma, alla Moglie ed il ricordo dei figli.

Posso immaginare cosa videro quegli occhi perché è da anni che frequento quei luoghi Sacri e che, ancora adesso, portano le tracce di un conflitto lungo e feroce. E tutte le immagini che posseggo ne sono un’ulteriore conferma.

Anche alcuni russi, i Nonni, avevano soccorso, pur in questi frangenti che lì, in quella lontana Terra dell’Est, era scoppiata la rivoluzione. Aveva, a ricordo di quel periodo, gelosamente conservati, alcuni Rubli di carta, coloratissimi e grandissimi!

Finalmente tornò a casa il nonno, “U me’ marituzzu”, ma trovò ciò che non avrebbe mai pensato

Ciò che non avrebbe mai voluto e dovuto pensare:

La “sua” ditta sull’orlo del fallimento, con il socio che aveva “mangiato” tutto ciò che di buono era stato costruito.

Il Nonno non intese accettare l’umiliazione del fallimento, così fu licenziata la servitù, venduta la villa di Cibali e alienata buona parte dell’arredamento per pagare i debiti.

La famiglia si trasferì a Catania in una viuzza dietro l’attuale Tribunale e il Nonno trovò lavoro presso l’Economato del Comune. La famiglia, pur in ristrettezze, continuò a vivere dignitosamente. Erano restati alcuni mobili, qualche quadro ed altri oggetti che, allo smembrarsi della famiglia, furono distribuiti dapprima ai figli, poi a noi nipoti e, ancora oggi, fanno bella mostra nelle nostre case.

Arrivarono pure gli anni della grande depressione, dell’inflazione alle stelle e della grande fatica di vivere. Ma questo non contava: la famiglia, felice, era riunita.

Solo, continuava la nonna, il Nonno, già debilitato dalle privazioni della guerra e deluso dalle vicende al rientro, ebbe ad ammalarsi. Un “brutto male” dissero, lo aveva colpito. Oggi, in piena tranquillità, sentiremmo dire ai medici: “cancro ai polmoni”.

La malattia lo consumò in poco tempo. Così, il Nonno, andò ad occupare quella metà della tomba che aveva fatto costruire per tempo. Lui e la Sua Graziella dovevano restare uniti nella Vita e nella Morte.

Si asciugava gli occhi, la Nonna e si passava la mano fra i capelli, sempre più bianchi e sempre più radi ma orgogliosamente lunghi e raccolti a “tuppu” e assicurati con forcine di tartaruga.

Il più vecchio dei figli, Enzo, si sposò a Catania, il più giovane, Tino,  si arruolò ed andò in Africa con lo speciale Corpo di Polizia e Nonna e Mamma restarono sole a vivere nella casa di famiglia con quel poco di pensione che spettava e, probabilmente, con l’aiuto economico dei figli.

Raccontava, anche, del fidanzamento della sua “Adeluzza” con mio Padre, “Santuzzu” o “Santino”, a seconda dell’umore.

Ma incombevano altri eventi che, in parallelo, accompagnarono il matrimonio e la Vita dei miei genitori.

Declamava, la Nonna, le grandi capacità del genero: “du cuncursi, vinsi!”  E’ vero, uno in Magistratura ed uno presso il Ministero delle Finanze. Ma, Santo, doveva ancora fare il militare ed il matrimonio sembrava, nell'immediato, irraggiungibile.

Eppure una soluzione la trovarono. Da Ufficiale, anche se di leva, avrebbe percepito uno stipendio e, questo, avrebbe reso tutto possibile e fattibile.

Così, nel ’38, si sposarono “Adeluzza e Santuzzu”. Fecero perfino il viaggio di nozze a Tivoli.

Poco tempo dopo, però, la partenza di Papà per il Reggimento. Strani venti aleggiavano in Italia ed in Europa e, neppure il tempo di capire il perché ed il per cosa,  eccolo in guerra sul fronte greco.

E qui, siamo fra il 1937 ed il 1939 e i racconti della Nonna si intrecciavano con quelli di Mamma.

Due donne, un figlio appena nato, mio fratello Antonino, ed un nipote, Giovanni di due anni maggiore, si trovarono ad affrontare i primi momenti di grande esaltazione popolare, le “adunate oceaniche”, ma, anche, i razionamenti.

Dovettero ad un tratto donare l’oro per la Patria: qualche gioiello, meglio se la fede, infilata dentro un’urna messa nel centro di una piazza, perché l’Italia, nel bel mezzo di un embargo, in guerra, allo stremo ed impoverita, potesse tornare grande e potente.

Ma ciò che pesava di più era il sapere il Marito, il Papà, il Genero che, dopo un breve saluto alla Famiglia, imbarcato, era partito per la Grecia.

Poi le notizie, la posta con qualche foto di quest’uomo alto e magro dal naso “importante”. Quasi tutti primi piani e mezzi busti al punto che, io piccino, credetti, ad un certo punto, d’avere un padre senza gambe.

Poi  non ci fu più molto da pensare dai primi giorni di gennaio del 1941 fino alla metà di agosto del 1943.

Ricordavano, Nonna e Mamma, il suono lugubre della sirena che annunciava l’inizio dei bombardamenti: porte e finestre spalancate, per salvaguardare vetri e serramenti dagli spostamenti d’aria e la casa alla mercé degli “sciacalli”, e, di corsa, al rifugio al riparo dagli scoppi delle granate e delle schegge.

Poi a casa e, al primo ululato d’allarme, ancora al rifugio.

Alla fine, sollecitata anche dalle Autorità, la decisione: - troppo pericoloso restare in Città con due “picciriddi” e due donne incinte” -.

Dunque si sfolla.

Dove? Ma verso la campagna e il mare prima, poi a Faro Superiore con la speranza di sfuggire ai bombardamenti a tappeto, sempre più frequenti e sempre più intensi, che di giorno e di notte distruggevano la Città.

Lo zio Giuseppe, “Pippo”, il capo delle Famiglie riunite, organizzò la fuga schivando fortunosamente i bombardamenti ed i  mitragliamenti degli aerei che, di giorno, passavano a bassa quota.

La permanenza a Faro Superiore durò pochissimo perché, già al primo sorgere del sole si scopre che la collina è piena di  “nidi di contraerea”. Pochi giorni e si scappò ancora ripassando per Messina. E qui il racconto faceva tremare la voce a Nonna e Mamma e, spesso, il grembiule serviva loro ad asciugare qualche lacrimuccia. Oltre che dalle schegge, dagli spostamenti d'aria e quant'altro di “bello” può sfornare la guerra, ecco la casa danneggiata e profanata anche dai ladri, dagli “sciacalli”: molti mobili rotti alla ricerca di qualche nascondiglio, dietro i cassetti, dietro le ante, nella speranza di trovare dei doppi fondi e, nascosto, chi sa che, chi sa cosa. Sparito tutto ciò che era possibile portare via facilmente: dalla poca biancheria restata a tutto ciò che di piccolo e metallico c'era.

La permanenza a Messina durò il tempo che servì allo Zio Pippo per organizzare un altro viaggio della speranza.

La meta: Pezzolo. Un carro trainato da buoi il mezzo di trasporto.

La descrizione, drammatica ed imprecisa, dell'attraversamento della Città, partendo dal Torrente Boccetta, la ricordo solo in parte.

Raccontavano, Nonna e Mamma: di sera, nel buio di una città oscurata, le strade squassate e ingombre di rovine. Tre Donne, con due neonati in braccio e altri due bambini di cinque e tre anni, sedute a lato del pianale. Le adulte, nei limiti delle loro possibilità, incaricate, anche, a sorreggere tutto quello che era stato possibile caricare e lo Zio, a piedi, dietro, a controllare che nulla, durante il percorso, andasse perduto a causa dei sobbalzi.

Finalmente, dopo qualche ora di avventuroso cammino, ecco Ponte Shiavo! Ma ci fu un problema e grosso. Il carro carico era troppo alto per passare sotto il ponte troppo basso. La scelta senza alternative fu rapidissima. Si scaricò il carro e, dopo averlo fatto passare, si cercò di ricaricarlo trasferendo a mano le masserizie. Non ci fu molto tempo: era notte fatta e, per prudenza fu abbandonato quasi tutto con la vana speranza di recuperare qualcosa l'indomani,.

Tutti eravamo magri e le rarissime foto lo provano e lo ricordano. Quel poco che si riusciva a trovare da mangiare lo si acquistava alla “borsa nera”. Quello di cui si aveva diritto, con le “tessere annonarie” era troppo poco. La Nonna, la Mamma, e la Zia avevano venduto tutto ciò che avevano potuto ed anche di più, restando senza alcun ricordo che fosse di fidanzamento o di matrimonio. Perfino la biancheria non indispensabile fu alienata o barattata. Si sopravviveva, in casa d'altri, neppure troppo al riparo da eventuali rischi bellici dato che, tutte le colline costiere, erano armate e fortificate.

Bombardamenti, mitragliamenti, fughe per cercare riparo, ansie a non finire e, finalmente, la guerra, almeno in Sicilia, volse al termine. Via i Tedeschi, arrivati gli “Alleati” e terminato il rischio delle bombe dal cielo, ecco, finalmente, il ritorno a Casa.

Lo zio Pippo, il fratello di Mamma, sua Moglie, la Zia Rosetta con la loro figlioletta Graziella, La Nonna, la Mamma Adele, il cugino Giovanni, mio fratello, ed io: un'unica famiglia “allargata” che riprende possesso dell'appartamento INCIS in via Torrente Boccetta.

Oltre che a “sopravvivere” tutti ce la mettono tutta per dare vivibilità a ciò che si è salvato e si comincia a sperare nel ritorno del papà di cui, da prima dell'armistizio, non si hanno più notizie.

In Sicilia la guerra poté dirsi finita, ma non al Nord, in “Continente”. Si ebbe notizia, da una cartolina della Croce Rosa di Ginevra, che “l'Uomo senza gambe”, il Papà, era vivo ma prigioniero in Germania. Vi fu una scarna corrispondenza fra mia Madre e mio Padre. Poche lettere erano state scambiate, con luoghi e date cancellati dalla censura militare, e, forse vi era stato il tentativo di spedire anche qualche pacco con generi di prima necessità.

A Grandi passi si arrivò al 1945.

E qui si fermano i racconti dei “Vecchi” o, meglio, cominciano a confondersi con i miei e ne trovano continuità.

Furono riattivate le comunicazioni con la Calabria, dopo avere liberato il Porto dai relitti dei bombardamenti ed iniziò il servizio delle Navi traghetto. Anche le vie di comunicazione, al Nord, cominciarono ad essere riattivate e cominciò, nell'Italia distrutta, affamata ma, finalmente in pace, la ricerca dei congiunti e, finalmente, in Sicilia, cominciò l'arrivo dei primi reduci.

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