- di Mirella Formica -
Mentre il corteo delle varette aleggiava di mestizia, sottolineata sia dal silenzio corale che dai suoni funerei delle bande o dal ritmare cadenzato dei tamburi, a festa degli spampanati era proprio una festa. La particolare denominazione derivava dal fatto che alla festa, organizzata presso la chiesetta della Mercede nel quartiere Portalegni, oggi via T. Cannizzaro, partecipassero prosperose fanciulle del contado che, per l'occasione, smessi gli abiti invernali, indossassero vesti in seta fiorita, dai colori sgargianti, da cui il termine spampanati. L'antica chiesetta era situata ove oggi sorge la nuova, lungo l'argine destro del torrente Portalegni, appena fuori l'antica cinta muraria. In origine era dedicata a S. Valentino. Qui un tempo giungevano da un'atra chiesa più a monte, nella borgata di Gravitelli, i simulacri della Madonna SS. della Mercede e di Gesù Cristo risorto.
Narra la tradizione che in occasione di una di queste processioni vi fu una sorta di nubifragio che costrinse i fedeli a riparare i due simulacri nella vicina chiesetta di S. Valentino. Il temporale durò a lungo e danneggiò gravemente la chiesa di Gravitelli da cui erano partite le statue, per cui queste rimasero nella chiesetta che le aveva ospitate.
Da allora fu cura della Confraternita di San Valentino organizzare ogni anno la festa di Resurrezione, come pure si provvide a modificare la denominazione della chiesetta in Maria SS: della Mercede e Cristo Risorto in S. Valentino. Questa piccola chiesa resistette ai crolli che distrussero nel 1908 ben più imponenti edifici e nella Pasqua del 1909, a pochi mesi dal sisma, i confrati riuscirono ad organizzare la processione che procedendo per le vie ancora ingombre di cumuli di macerie, assunse particolare significato, quasi a dimostrare la volontà di rinascita dei messinesi superstiti, fedeli alle antiche tradizioni, nella loro città distrutta.
II corteo, che si partiva dalla chiesetta dopo la solenne celebrazione della santa messa era accompagnata dai tammuririddara che annunciavano il passaggio del Simulacro del Cristo Risorto che issava lo stendardo rosso crociato svolazzante, assieme alla statua della Madonna incoronata ed avvolta in un candido manto ricamato in oro. Alla processione prendevano parte numerose confraternite nei costumi tipici. Giunti in piazza Duomo, si aveva il momento più emozionante della giornata e forse il più toccante dell'intero ciclo pasquale. A1 suono delle campane, all'intonare delle bande, all'esplodere degli spari, Maria apriva le braccia rivolta al Figlio risorto e dal suo manto si liberavano in cielo festosamente stormi di passeri con un generale ed atteso significato liberatorio. Non a caso era tradizione che in tale circostanza si ponesse fine a liti, rancori o incomprensioni tra parenti, per celebrare una ritrovata unità d' affetti, la pace sollecitata dalla presenza del Cristo risorto.
Era pure uso ricevere, in cambio di un'offerta, la stampa devozionale dei due simulacri uniti dalla significativa invocazione didascalica: unum in passionem, unum in resuretionem. La si portava a casa quasi a testimonianza della partecipazione alla celebrazione della festa.
Finita la precessione e le funzioni religiose, dopo pranzo, si dava sfogo alla fase profana della festa. Intanto, la piccola chiesa era circondata da bancarelle variopinte di venditori ambulanti di calia cioè fave, ceci, semenza, atturrati, abbrustoliti misti a sabbia marina su fiammeggianti e fumose fornacelle, entro una sorta di grande padella a due manici. Tipici ed invitanti i richiami dei venditori di calia, di biscotti calabresi, di giocattoli e di giaurrina longa mezza canna, pubblicizzata dallo stesso produttore come "sapurita e ianca comu a cira". Era una specie di caramella morbida costituita da un impasto di farina, miele ed essenze aromatiche che, dopo la lavorazione a caldo, veniva stirata manualmente sino a farne una specie di cordone tagliato poi a tocchetti su di un piano di marmo all'uopo oleato.
Vi erano pure venditori di vino gerasuolo che trasportavano le loro botti sui lunghi e tipici carri trainati da buoi dalle arcuate, enormi corna. Il vino e la particolare atmosfera di festa non di rado esaltavano troppo gli animi con conseguenti ma incruenti liti.
Nel pomeriggio si procedeva alla scalata del cosiddetto albero della cuccagna o antinna. Era questo un lungo e robusto palo che veniva issato di fronte alla chiesa. A circa sei, otto metri, vi era un grande cerchio da cui penzolavano dei premi: a cuddura cu l'ova, zuccarati, agneddi pascali, salsiccia, salame, provola, frutta, ma anche una borsa con monete (un tempo) d'argento, un pollo ruspante vivo, destinato questo, però, al Cappellano della chiesa. Nella parte alta dell'antenna era sistemata con perizia dai castiddara la macchina pirotecnica i cui spari concludevano a notte la festa.
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