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Pasquale Ermio - “Come Eracle e Iolao” -

 

 

- di Rossella Arena -

“Come Eracle e Iolao”: ricominciare da se stessi

Con la sua nuova fatica letteraria Pasquale Ermio, poeta di origini calabresi, da lungo tempo esponente attivo della vita culturale messinese, regala un viaggio poetico introspettivo alla ricerca della serenità perduta.

Tra sapienti citazioni mitologiche, spunti filosofici sull’esistenza e sussurrati consigli sul bel vivere Pasquale Ermio, dopo la sua prima silloge di successo “Venti in versi”, ci riprova e  “Come Eracle e Iolao” ricomincia da se stesso, dalla sua interiorità, tra convinzioni e dubbi. Stavolta, però, il Nostro, raggiunta la piena maturità letteraria, estende la sua prospettiva lirica mirando a un pubblico più esperto. All’ombra del telaio costruito dalla sua prima fatica letteraria, egli infatti dischiude con abile mano, fin dalle prime emblematiche righe, una tela di Penelope che il lettore potrà scorrere avanti e indietro, con lo sguardo acuto dell’intelligenza e le ali del cuore, componendo e disfacendo insieme all’autore ricordi e sensazioni di una intensa vita. Alla fine l’ordito rivelerà a chi ne saprà accarezzare le morbide trame tutti i suoi segreti e il filo d’Arianna celato dal poeta stesso nel labirinto delle sue profonde elucubrazioni mentali, sfavillerà di pagina in pagina, di poesia in poesia, come una cometa che punti disperatamente laddove l’elisir della serenità regala all’uomo i suoi benefici. Ma se il finale è lieto e confortante, come l’autore calabrese ci ha abituato, l’esordio dell’opera “Come Eracle e Iolao” prepara ed alimenta un’atmosfera più cupa, nella quale chi legge è trascinato nei temuti meandri del proprio pensiero, fino a guardare dritto negli occhi  l’Idra che è dentro ognuno di noi.  Il monito è chiaro, fin dai primi versi di “Senza”, “Russu morti” e“Flash”: su ogni uomo costretto ad incedere in precaria postura sulla cedevole terra bruna e su percorsi tortuosi e accidentati come un equilibrista tra viottoli e mulattiere altrimenti impercorribili, giungerà prima o poi la malattia, la sofferenza, l’insuperabile difficoltà. E la fine dei giorni arriverà greve come spettro in agguato e sorprenderà incredule le umane ed effimere vittime nell’ultimo preagonico battito di ciglia. Il male arriverà e come l’Idra sarà falcidia inesorabile che tronca ogni accenno di germoglio, perfidia di vipera, crudezza di murene fino a fagocitare le carni di ciascuno di noi rinchiudendole nella solitudine di pozzi paralleli a quelli di altri uomini, crudelmente sorpresi in tutta la loro infinita fragilità e solitudine sotto gragnole di ciottoli ed enormi massi, celati da beffardi cartelli che a nessuno  è dato saper leggere prima del tempo.

Più avanti, senza parole di fronte al dolore, Pasquale Ermio sospende per qualche lunghissimo attimo i suoi passi lirici; quasi si chiude in se stesso e come in “Elusa guarigione”, in “Oltre il tramonto” o in “Imperfezione umana” finisce per minimizzare, per poi escludere del tutto dal suo eloquio lirico la punteggiatura, quasi a voler rappresentare in modo più evidente anche stilisticamente la perdita di appigli e riferimenti tanto grafici, quanto reali. L’intento però non è abbandonarsi allo sconforto, ma piuttosto cancellare ogni limite all’ispirazione, affinché possa penetrare in libertà nel mistero dell’esistenza, dando ascolto ai suoi più misteriosi sussurri. Inizia così ad affacciarsi nel poeta Ermio e nell’uomo Pasquale la speranza di giungere a percepire intorno a sé tracce confortanti del perfetto disegno divino in mezzo alla “imperfettibilità” umana che tutti ci accomuna e ci condanna, noi uomini grandi e celebri come Napoleone, o solo persone comuni, eroi come tanti, inosservati e anonimi. Ed è proprio in questa amara e realistica presa di coscienza del male e della sofferenza insita nella vita dell’uomo da parte di Pasquale Ermio che la nuova opera si distingue dalla precedente e con forza si afferma come esempio di lirica d’Arte. La visione pessimista del poeta, infatti, si libera dai ristretti vincoli autobiografici, si eleva all’universale e abbracciando la varia umanità trova nell’Idra riassunto e personificazione simbolica, esprimendosi in tutta la sua impietosa essenza in immagini e vocaboli liricamente ricercati, a tratti ermeticamente imposti. Intenzionalmente dispersi tra i versi dell’una e dell’altra poesia, parole essenziali e figure retoriche efficaci danno la suggestione al lettore che esse si autoalimentino, si moltiplichino, si diffondano autonomamente al rinvigorirsi delle riflessioni e dei ricordi del poeta, allo stesso modo come l’Idra nell’immaginario classico centuplica le sue immonde teste. Ma il contrasto tra le due opere finisce qua. E’ facile infatti notare come entrambe, profuse dalla stessa anima ispiratrice, si cerchino l’una con l’altra, come padre e figlio, fino a ricongiungersi e confluire nel confortevole tepore delle persone e dei valori cari al poeta. L’amore, l’amicizia, la solidarietà, gli affetti familiari, i bei ricordi, le piccole gioie quotidiane sono le uniche preziose vie di fuga offerte alla fragile umanità, le uniche ragioni che rinnovano in essa la fiducia nell’aspettare l’alba sin dal canto del gallo.

Il Mito ci tramanda che l’Idra è inattaccabile dalla esclusiva forza divina di Eracle, ma è vulnerabile all’intervento della lungimiranza, delle emozioni più intense e sincere, della fede e della saggezza dell’umano Iolao, che Pasquale Ermio scopre in se stesso e da se stesso ricominciando avanza verso il futuro lasciandosi alle spalle, a beneficio di altri, traccia generosa del proprio poetico ed umano itinerario di salvezza.

Ultima modifica il Domenica, 16 Ottobre 2016 19:31
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