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Spigolature messinesi di Giuseppe RANDO

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Giuseppe Rando2

In tre diversi frangenti, occorsimi alcuni giorni fa, ho avuto modo di riconoscere la fondatezza del giudizio di quanti – messinesi e no – parlano di scetticismo dei miei concittadini. Al riguardo esistono, in città, due scuole di pensiero: c’è chi lega tale scetticismo al sottosviluppo meridionale e c’è chi lo spiega in termini … genetici, considerandolo come un lascito (pervenutoci per via cromosomica) dei coloni greci che abitarono la città dello Stretto nella notte dei tempi. La seconda tesi – sia detto en passant – non sarebbe dispiaciuta a Pirandello.

Come che sia, io non avrei dubbi sullo scetticismo messinese, che potrebbe costituire una vera e propria categoria dello spirito nostrano: le tre diverse occasioni, di cui sopra, lo comprovano, invero, a sufficienza. Vediamo.

Nel primo caso, discutevo con alcuni amici sugli effetti disastrosi della crisi a Messina, ma, ricordando il lungimirante progetto di due illustri colleghi sulla futura citta metropolitana e due recenti articoli di due valenti giornalisti della «Gazzetta» sui freni imposti allo sviluppo economico della città e sul malcostume politico-mafioso imperante, notavo, con piacere, che qualcosa sta cambiando «in Danimarca»: «chiaramente dalla parte del cittadino e della verità» – chiosavo – «senza reticenze e senza mistificazioni».

Apriti cielo. Non che – si badi – la mia “scientifica” notazione venisse contestata da sinistra o da destra. Si negava, invece, letteralmente il caso, cioè mi si prendeva per visionario: «Macché; ma che dici, che cosa hai letto; nessun cambiamento; tu sei ingenuo; tu sei idealista; hai visto quello che non c’è; è tutto uguale; se ne parla un giorno e domani si dimentica tutto; è tutto uguale, sempre». Ultrascettici, dunque.

Il secondo evento è ancora più singolare: ero intervenuto alla presentazione di un bel volume collettaneo dedicato a una mia valorosa collega in quiescenza da colleghi e amici (quorum ego), rilevando che c’è anche, a Messina, una Università «senza fanfare» e «senza patacche»: un’Università «che lavora in silenzio, sul serio; che fa ricerca; che produce cultura e avanzamento sociale».

Ebbene, la stessa sera, un collega (che ho incontrato in pizzeria) ha tenuto a dirmi, «amichevolmente»: «Ti illudi; credimi, da amico: sei più ingenuo che ottimista; forse accentui il valore di un libro e di una cerimonia peraltro rituale. A Messina, il più pulito ha la rogna». «Forse», ho chiosato. Ma Eco avrebbe definito decisamente apocalittico questo «amico».

Certo, sono pochi sintomi, ma bastano, forse, per convincersi che il messinese «dubita di tutto, […] non crede in niente». Che è la definizione di «scettico» nel Dizionario della lingua italiana, voll. 4, di Sabatini-Coletti, uno dei più completi, invero.

Ma la terza occasione non è meno eloquente. Avevo fatto una scoperta dolorosa: uno studioso serio, un filologo messinese noto in Italia e non solo in Italia per i suoi alti meriti scientifici aveva acquisito l’abilitazione a professore associato nell’Università, ma restava a insegnare al Liceo, senza prospettiva alcuna di trasmettere domani scienza e conoscenza agli studenti di Lettere. Perciò, da professore che crede nell’Università del merito e della trasparenza, avevo denunciato il fatto – era più un grido di dolore - sul mio blog (www. giusepperando.it), inviando poi lo scritterello ad alcuni colleghi ed amici, per posta elettronica.

Ebbene, uno dei colleghi (tra i più attivi sul piano della ricerca scientifica, peraltro) mi ha risposto osservando, con nonchalance, che «produciamo più studiosi di quelli che possiamo utilizzare». E un altro ha chiosato, cinicamente, senza piegare ciglio: «Meno male che ha il posto al Liceo, c’è chi fa il lavapiatti in un ristorante, a Parigi».

Il che avrebbe un senso - debbo dire - se non ci fossero, nell’Università, ad occupare cattedre e insegnamenti (anche fondamentali), figli di papà non altrimenti famosi e pataccari (o pataccare) di tutti i tipi.

Hanno dimenticato che esiste (anche) l’indignazione, i messinesi. Forse credono «di vivere nel migliore dei mondi possibili», sulla scorta di Leibniz e come Pangloss. Né sanno più vedere, se mai le hanno viste, le lacrimae rerum. Scettici, cinici, apocalittici e alienati, dunque, gli attuali abitanti della città dello Stretto?

Se così fosse, si spiegherebbero tante cose strane che capitano da queste parti, dove, se succede qualcosa di negativo, è solo per caso; se succede qualcosa di positivo, non è vero; e se qualcuno denuncia uno scandalo grande quanto una casa, o è un ingenuo o mira a qualcos’altro. E gli intellettuali (professori dell’università e no) tacciano o scrivono d’altro. Bella e sfortunata città.

Consiglio finale ai pochi ma buoni che ci sono, certamente, anche con questi chiari di luna: non lasciamoci condizionare dallo scetticismo dilagante, né dal cinismo disarmante: apriamo gli occhi, sveliamo la frode (dove s’annida). E soprattutto: non parliamo d’altro.

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