Il censimento generale del 1861 accertò l’esistenza di colonie italiane, già abbastanza numerose, sia nei paesi di Europa e del bacino mediterraneo sia nelle due Americhe:
# Francia, 77.000
# Germania, 14.000
# Svizzera, 14.000
# Alessandria d’Egitto, 12.000
# Tunisi, 6.000
# Stati Uniti, 500.000
# Resto delle Americhe, 500.000
Intorno al 1870 il movimento assunse la consistenza di un vero fenomeno di massa, raggiungendo una media annua di 123.000 nel periodo 1869-75. Cifre più sicure e fra loro comparabili si hanno a partire dal 1876, anno in cui, sotto la guida di L. Bodio, s’iniziò a rilevare con regolarità l’immigrazione italiana.
Nei primi anni, ancora disorganizzata e sporadica, l’emigrazione si mantenne intorno ad una media di 135.000 emigrati, diretti in prevalenza verso paesi europei e mediterranei; dal 1887, per l’aumentata offerta di lavoro del mercato americano, si sviluppa rapidamente l’emigrazione transoceanica e la media annua complessiva raddoppia, passando a 269.000 unità (periodo 1887-900). La Francia, seguita a una certa distanza dall’Austria, dalla Germania e dalla Svizzera, tiene sempre il primo posto tra i paesi di destinazione dell’emigrazione continentale in questo primo venticinquennio; l’Argentina e il Brasile, che assorbono la maggior parte dell’emigrazione transoceanica nei primi venti anni, si vedono invece rapidamente sorpassare dagli Stati Uniti verso la fine del secolo.
L’incremento dell’emigrazione transoceanica, in valori assoluti e nei confronti di quella continentale (da 18,25% dell’emigrazione complessiva nel 1876 a 47,20% nel 1900), e lo spostamento della sua direzione dall’America meridionale alla settentrionale, si devono mettere in relazione sia con le mutate condizioni del mercato del lavoro nei paesi americani che con la diversa partecipazione delle varie regioni d’Italia all’espatrio.
Nei primi anni del Regno emigrarono soprattutto abitanti delle regioni settentrionali, socialmente più progredite e con popolazione più numerosa; nelle regioni meridionali, meno densamente popolate, il fenomeno fu per lungo tempo irrilevante, a causa del loro isolamento, della scarsa viabilità e dell’ignoranza, residui dei passati regimi, ma anche del tradizionale attaccamento alla terra e alla casa e di minori necessità economiche, derivanti da una vita esclusivamente agricola e patriarcale. In pochi decenni il rapporto si invertì sia a causa dell’intenso ritmo di accrescimento demografico sia per le poco floride condizioni economiche (in parte dovute alla tariffa protezionistica dell’87, che sacrificò l’agricoltura all’industria) che non permettevano di assorbire l'eccesso di manodopera. Negli ultimi anni del secolo XIX, la quota fornita all’emigrazione complessiva dall’Italia settentrionale diminuì (da 86,7% nel 1876 a 49,9% nel 1900) mentre crescevano quella dell’Italia meridionale e insulare (da 6,6% a 40,1%) e dell’Italia centrale (da 6,7 a 10%).
In questo primo periodo il fenomeno fu lasciato a se stesso; la sola legge varata dal Parlamento fu la n. 5877 del 30 dicembre 1888, che peraltro si limitava a sancire quasi esclusivamente norme di polizia in vista dei molteplici abusi degl’incettatori di manodopera. La situazione migliorò e i soprusi degli speculatori cessarono solamente quando fu approvata una legge organica dell’emigrazione e fu creato un organo tecnico specifico per l’applicazione della legge stessa:
# furono abolite le agenzie e subagenzie,
# il trasporto fu consentito solo sotto l’osservanza di determinate cautele e garanzie,
# si crearono organi pubblici, per fornire le necessarie informazioni ai desiderosi di espatrio,
# si stabilirono norme per l’assistenza sanitaria e igienica, per la protezione nei porti e durante i viaggi e, successivamente, anche per la tutela giuridica dell’emigrazione e la disciplina degli arruolamenti per l’estero.
Assistita, organizzata e diretta laddove maggiori fossero le possibilità di occupazione, l’emigrazione italiana, per quanto con andamento irregolare dovuto alle crisi attraversate dai paesi di destinazione, tende ad aumentare, nei primi anni del secolo XX; la media annua nel 1901-13 sale a 626.000 emigranti e il rapporto con la popolazione del regno, nel 1913 tocca i 2.500 emigranti per ogni 100.000 abitanti, pari a un quarantesimo circa dell’intera popolazione. E' soprattutto l’emigrazione dall’Italia meridionale e insulare che si sviluppa, giungendo a sorpassare quella dell’Italia settentrionale: 46% contro 41% dell’Italia settentrionale e 13% della centrale, su un totale di più di 8 milioni del periodo 1901-13.
Ciò spiega anche l’assoluto prevalere, nel periodo, dell’emigrazione transoceanica sulla continentale (il 58,2% contro il 41,8%). Gli emigrati dall’Italia meridionale, prevalentemente addetti all’agricoltura e braccianti, costretti all’espatrio dalla povertà dei loro paesi erano disposti ad accettare qualsiasi lavoro e anche a stabilirsi definitivamente all’estero, nelle terre d'oltremare; al contrario, l'emigrazione dall’Italia settentrionale, più altamente qualificata e, in genere temporanea, era per lo più assorbita da paesi europei.
Tra i paesi di destinazione dell’emigrazione continentale, la Svizzera passò al primo posto superando la Germania, l’Austria e la stessa Francia; nell’emigrazione verso paesi d’oltremare si accentuò invece il primato degli Stati Uniti, dove si diressero, dal 1901 al 1913, oltre 3 milioni di italiani, contro i 951.000 dell’Argentina e i 393.000 del Brasile. Gli alti salari offerti al mercato nordamericano, la diminuzione delle terre libere nei paesi dell’America Meridionale, la maggiore facilità e rapidità di guadagni, consentita dalla grande industria degli Stati Uniti, concorsero a dirottare il flusso dell'emigrazione dall'Italia.
Il venire meno del vincolo fondiario, che lega l’emigrato al paese d’arrivo, e il diminuito costo dei trasporti favorirono una minore durata dell’espatrio: molti lavoratori decisero di investire i loro risparmi in Italia, prevalentemente in acquisto di terre o nella casa di proprietà .
Questo carattere temporaneo, che già era dominante nell’emigrazione continentale e che cominciava ad estendersi a parte dell’emigrazione transoceanica, si ripercuote beneficamente sull’economia italiana, sia perché gli emigrati tornano, in genere con accresciute capacità di lavoro e di iniziativa e muniti di capitali accumulati all’estero, sia perché, contando di rientrare in patria, molti emigranti vi lasciavano le loro famiglie e ad esse provvedevano durante l’espatrio con l’invio di rimesse, quelle rimesse che contribuirono attivamente al saldo della bilancia dei pagamenti dell’Italia con l’estero.
L’emigrazione italiana negli ultimi anni dell’anteguerra era ben diversa da quella dell’ultimo venticinquennio del secolo XIX. Non si trattava più di masse prive di appoggio, emigranti alla ventura in cerca di lavoro, ma di masse guidate e assistite, e capaci alla loro volta di contribuire al miglioramento delle condizioni economiche e sociali della patria. L’emigrazione, ritenuta inscindibilmente connessa alla struttura economica del paese e al ritmo di accrescimento della sua popolazione, fu largamente incoraggiata e protetta.