DI ROCCO GIUSEPPE TASSONE
Una antica usanza registrata in alcuni comuni calabresi, come Candidoni (RC), nella foto proposta si vedono bene le donne con il braciere in testa – verosimilmente si tratta del funerale di Pasquale Monea 1960 – ma testimonianze si hanno anche a Galatro (RC) – fonte Domenico ed Umberto Distilo, Santa Cristina d’Aspromonte (RC) - fonte Tonino Violi e Lazzaro (RC) - fonte Saverio Verduci, senza escludere la possibilità che l’usanza fosse presente anche in altri comuni fino agli anni sessanta del secolo scorso. Molti erano le gesta che accompagnavano il rito funebre, come la presenza dei sacerdoti che andavano a prendere il morto a casa e lo seguivano fino al cimitero o, se lontano dal paese, fino ad un punto stabilito, naturalmente con tutti i paramenti sacri e vesti e manto nero, mentre dal campanile il mortorio, che iniziava con la campana piccola o con la campana grande a secondo del sesso del defunto, veniva suonato per tutto il rito. Le donne con i capelli sciolti e rigorosamente vestite a nero piangevano ad alta voce ripetendo il nome del defunto e raccomandandolo ai parenti già morti per una buona accoglienza nell’aldilà. Spesso si sentiva chiamare il defunto con l’appellativo di “palumba mia” – ricordo donna Mariarosa Ocello alla morte del marito -. Quello che colpisce guardando la foto allegata è appunto le donne con il braciere con la brace accesa portato in testa. Erano generalmente 4 donne vestite a nero poste ai 4 lati del feretro portato a spalla o nel carro funebre ed in quest’ultimo caso 4 uomini reggevano i “cimboli” ovvero i cordoni che pendevano dal carro. Ci si domanda che significato potesse avere la presenza del braciere, chiedendo alcuni ormai negli anni ricordano il rito, che si faceva per tradizione tramandata, ma non il significato quindi possiamo solo ipotizzare azzardando qualche spiegazione:
1) come la brace diventa cenere nel braciere anche il morto diventerà cenere nella terra;
2) il fuoco della Risurrezione ovvero rinascita a nuova vita: dopo la morte terrena arriva la vita eterna celeste.
“Il fuoco è bello perché risplende e brilla insieme all’idea” (Plotino, 1, 6, 9). Esso è presente in numerose analogie e simboli che vanno dalla mitologia ai concetti scientifici, filosofici e religiosi, occupando un posto fondamentale per la sua realtà che va dal concetto dinamico a quello del mistero, reale ed ineffabile allo stesso tempo. Il fuoco ha la caratteristica di essere amato e temuto al tempo stesso in quanto illumina e riscalda, (cu ndeppi focu campàu cu ndeppi pani morìu), ma è anche vita e morte allo stesso tempo, rendendo visibili le forme senza averne una, è la sua fiamma dalla terra si proietta verso il cielo. Nel fuoco è il principio della vita nel fuoco sarà la fine di ogni cosa! Archè ed ecpirosi si rincorreranno sino al giorno del giudizio di Dio.
La presenza del fuoco nell’Antico e nuovo Testamento è costante con una sicura valenza simbolica e pastorale: rivelazione divina all’uomo figlio prediletto ma anche ammonizione con una teoria catastrofica della fine del mondo con fuoco e non più con l’acqua. Il fuoco indica l’onnipotenza di Dio nella sua forza e nella sua bontà: la minaccia del giudizio, la concessione del perdono tramite la purificazione. Quindi il fuoco come elemento di distruzione e di giudizio ma anche manifestazione di Dio ( “Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco” Mt 3,11 e Lc 3,17) e rinnovamento dell’uomo.
Sappiamo invece, che era proibito accendere il fuoco come caminetto o braciere nei giorni di lutto: una sorta di autoafflizione (come mi dice anche lo storico Armidio Cario di Nocera Terinese), non si accendevano i fornelli, non si cucinava e provvedevano solitamente i parenti o gli amici al sostentamento della famiglia per almeno fino al settimo dalla morte (cunzulu).