INTERVISTA (terza puntata)
- Non ci tenga col fiato sospeso Professore. La preghiamo di continuare.
- Ero come ubriaco: «Mà, Mà, Cupaiuolo torna a Napoli e mi vuole portare con sé.
Mà, ci pensi? Diventerò professore di latino nell’Università di Napoli». «E noi come
faremo?» disse subito mia madre, con le lacrime agli occhi.
Non ci avevo pensato: sono stato sempre più pronto a volare che a considerare gli
eventuali intoppi al volo: «Ma io vi mando sempre i soldi ogni mese, là prenderò lo
stipendio di assistente». «E non devi pagarti la casa, farti la spisa, comprarti i vestiti,
i libri, i giunnali? Farai ‘na mala vita tu e facciamo ‘na mala vita noi. Poi ti pigghia
‘na bedda fimmina ‘i Napuli …, e cu si vitti si vitti. Pensaci, fighhiu». E piangeva.
Mia madre, mia madre. Ah, mia madre. Ancora mi commuovo nel pensarla. Che
donna. Un affetto profondo. Un legame di quelli indissolubili che si stabiliscono, di
norma, tra madri e figghi masculi in Sicilia. Mi aveva insegnato a leggere e a
scrivere prima che andassi alla scuola elementare: al tramonto, seduti io e lei,
accanto alla sua macchina da cucire, che stava sotto la finestra della camera da letto,
illuminata dai raggi del sole calante sulla campagna: buon profumo, pulizia, nitore,
armonia, delicatezza! Avevo meno di quattro anni e non posso sbagliare perché non
era ancora nato mio fratello; lei mi comprava ogni settimana il “Correre dei Piccoli”
e me lo leggeva, illustrando i fumetti col dito; io mangiavo tutte le sue parole,
associandole alle parole scritte sul giornaletto e ai fumetti su cui passava il suo dito
lungo, affusolato, da regina. Qualche mese dopo, non so come e perché, sapevo
leggere e scrivere. Mia madre mi ha pure insegnato la prima poesia («Avevi due
anni – diceva – ma forse esagerava»): «Lunga fila di casine / Con fineste (sic) e
pollicine (sic) / Passa via con pampatore (sic) / Taspottando (sic) il viaggiatore».
Ovviamente, le «fineste» erano le finestre e le «pollicine» le porticine; così come
«pampatore» stava per «gran fragore» e «taspottando» per trasportando. Aggiungeva
lei stessa, peraltro, che, qualche giorno dopo, io, arrivando a «taspottando» mi
fermavo, come se la poesia finisse lì. Al che lei: «taspottando»? E io ridendo: «il
viaggiatore». Era forse, a ben pensarci, la prima forma di interazione, di
interlocuzione, se non di amore, tra me e la persona amata.
Come si faceva a non prendere in considerazione il pianto di questa mamma?
- E che ha fatto, Professore?
- Sono rimasto a lungo indeciso: oscillavo tra le due ipotesi: restare o partire? Poi, il
caso (il destino? il Padreterno?) mi ha dato una mano. Questa volta, il caso-destino-
Padreterno ha preso le fattezze del prof. Franco Scisca, vicepreside, come dicevo, al
“Bisazza” e – aggiungo – assistente volontario alla cattedra di Lingua e Letteratura
Italiana al Magistero.
Una di quelle mattine, in cui, prima del suono della campanella, parlavamo, in
Presidenza, di film, di poeti e di romanzieri, il vicepreside mi disse: «Professore, lei,
ancora così giovane, è già arrivato al Liceo; potrebbe intraprendere la carriera
accademica; perché non viene al Magistero dove c’è un giovane professore che
vuole fondare una scuola? La presenterò io stesso al prof. Colicchi».
E io, con la mia solita ingenuità: «Ma sono stato ternato nel concorso per assistente
di Latino alla Facoltà di Lettere e sto aspettando che arrivi il posto. Anzi, proprio
ieri, il prof. Cupaiuolo che torna a Napoli, mi ha proposto di andare con lui a
Napoli».
A questo punto, Scisca mi si rivolse come un padre al figlio: «Professore, uno come
lei, a Lettere, se lo mangiano»! Una frase, questa – come l’altra di Anthos Ardizzoni
– che non si dimentica e che infine orienta, se non determina del tutto, la vita di un
giovane: evidentemente, il vicepreside aveva colto un aspetto fondamentale – forse,
l’ingenuità mista alla genuina, ma sprotetta, volontà di sapere – della mia personalità
e, da uomo scafato, consapevole dei modi di vita altoborghesi – il fratello era
peraltro un alto magistrato della città –, certamente esperto delle logiche clientelari,
non meritocratiche né trasparenti, perlopiù operative nell’Università, volle mettermi,
paternamente, in guardia. E non c’era mattina che non mi invitasse a seguirlo alla
Facoltà di Magistero.
Alla fine, comunicai a Cupaiuolo e a mia madre la mia decisione di restare a
Messina e mi recai al Magistero col mio mentore, che mi presentò al Prof. Calogero
Colicchi, il quale sorridendo mi accolse «nella famiglia», affidandomi subito il
compito di correggere un tema svolto da una studentessa (che corressi con
particolare scrupolo!) e, dopo qualche giorno, mi nominò assistente volontario alla
Cattedra di Lingua e Letteratura Italiana della Facoltà di Magistero dell’Università
degli Studi di Messina: percepivo lo stipendio intero di professore del “Bisazza” e il
25% , mi pare, dello stipendio di assistente. Qualche mese dopo, fu bandito il
concorso nazionale per assistente ordinario in quella Facoltà; vinsi (insieme con altri
due) e fui chiamato immediatamente da Colicchi, dimettendomi ovviamente da
professore della Scuola Superiore.
Oggi, non posso non considerare la mia fortuna: all’epoca, entravano facilmente
all’Università i «figli di papà» o coloro che si acconciavano a «servire» un politico o
un «maestro» reale o presunto; laddove io ero stato accompagnato per mano, nel
mio insolito percorso, da figure veramente paterne che mi avviavano generosamente
– bontà loro – nel mondo accademico.
Qui comincia, dunque, la storia della mia attività universitaria, che riflette, come
cartina al tornasole. le vicende dell’italianistica, in Italia, tra prima e seconda
repubblica, e che merita un più lungo discorso. Ma fermiamoci qua. Sarà per la
prossima puntata.