- Caro Professore, dato il suo carattere estroverso, la sua generosità culturale –
non comune, invero, nel mondo universitario – e la sua tangibile onestà (non
solo intellettuale), quelli che la conoscono, in questa nostra bellissima ma
perlopiù indifferente città, la stimano e le vogliono perfino bene. Certo, uno
studioso atipico come lei non deve avere avuto la vita facile, in un contesto,
come il nostro, intessuto di privilegi indebiti, spesso clientelari o ereditari (se
non massonici o paramafiosi) e attraversato notoriamente da invidie di ogni
sorta.
- Non mi avrà chiamato, per farmi una sviolinata.
-
- No, assolutamente. Abbiamo, invero, l’impressione che lei, o per innata
discrezione, o per pudore, o per timidezza, o per signorilità, metta il freno alle
sue numerose impennate di fronte alle ingiustizie o alle contrarietà cui ha
dovuto far fronte nel suo cammino. Colpisce peraltro il fatto che lei, nonostante
i notevoli contributi dati alla ricerca scientifica e alla didattica più aggiornata,
viva appartato, lontano dai centri di potere accademico: quasi ignorato in una
Università che lei certamente onora. Dico bene?
-
- Finora sì.
-
- Ebbene, noi di messinaweb.eu, che abbiamo avuto il privilegio di ospitare suoi
scritti incisivi, particolarmente illuminanti e graditissimi dai nostri lettori,
vorremmo che lei, per una volta almeno, togliesse il freno (senza oltrepassare
ovviamente i confini della legalità): se ci riesce, questa nostra intervista
diventerà propriamente storica, almeno nella città dello Stretto.
-
- Procedamus.
- Lei dichiara sia nei suoi scritti sia in discorsi tra amici di venire «dalle barche
del Faro e non dai salotti messinesi»: fa letteratura?
- Affermo un fatto incontrovertibile. Sono nato e ho vissuto a Torre Faro fino a
ventotto anni, quando mi sono sposato. I miei parenti, paterni e materni, erano tutti
pescatori. Mio padre era un uomo di mare: un pescatore, in gioventù, sulle barche di
suo padre, una guardia di finanza (a Triste, per breve tempo, prima di sposarsi), un
marinaio della Società Italia per vent’anni circa, un pensionato per invalidità
(precipitò sul ponte della nave dall’albero che stava picchettando e si ruppe il
femore: fu operato in un ospedale tedesco di Valparaiso, nel cui porto la nave era
ormeggiata, con una tecnica ignota in Italia). Provengo insomma da un livello
sociale basso (non infimo) e sono, perciò, storicamente, uno dei cittadini italiani che,
negli anni Sessanta-Settanta, hanno preso l’ascensore sociale passando dal
proletariato al ceto medio, per dirla con Sylos Labini. Non letteratura, dunque. C’è
semmai un pizzico di orgoglio marinaresco in quella mia affermazione.
- Uno su mille ce la fa, dice – cantando – Gianni Morandi.
- È stata dura. Ma «ringraziamu a Diu», come diceva quel pirata di mio nonno. Ho
fatto, peraltro, un percorso scolastico e universitario, in cui sarebbe stato impossibile
non scontrarsi con le ingiustizie e i privilegi di classe.
- Lei ha frequentato il liceo classico.
- Sì, il famoso “Liceo Maurolico”, conosciuto all’epoca (i primi anni Sessanta) come
«la scuola dei figli di papà».
- E scusi, ma ci è finito proprio lei che non era un figlio di papà!
- È una storia lunga, ma le rispondo (cercando di sintetizzare), anche perché la mia
vicenda personale, che in sé non interessa a nessuno, potrebbe costituire uno
spaccato delle dinamiche scolastiche e sociali di quegli anni, su cui non si sa molto
(almeno a Messina).
Dunque, ho superato brillantemente l’esame di ammissione alla Scuola Media, al
“Gallo”, ma, su consiglio di amici cariddoti acculturati, mia madre mi iscrisse al
“Galatti”: era mia madre, Angelina Piccirilla, che gestiva la casa e l’educazione dei
figli, come tutte le donne di mare, peraltro, le quali si direbbe avessero già raggiunto
– sia pure per necessità logistiche: i padri erano fuori, a mare appunto – i traguardi
del femminismo storico e delle future lotte sociali post sessantottesche. Era una
sorta di matriarcato marinaresco, invero. Fu, quella della scuola media, una
gradevole passeggiata. Andavo bene in tutte le materie: apprendevo il latino con
grande facilità e con vero piacere; brillavo in italiano (pendevo, invero, dalle labbra
della professoressa Maria Montalto, graziosa, piccolina – forse, ne ero innamorato –
che spiegava divinamente le poesie di Pascoli), in matematica, in francese (la
professoressa Longo, anticipando le conquiste didattiche del Sessantotto, mi
affidava, ogni settimana, il “Paris Match”, incaricandomi di leggerlo e di illustrarlo,
in classe (in francese!), ai compagni: non avevo mai sentito parlare in francese,
eppure avevo – diceva lei – «una pronuncia perfetta»). Facevo i compiti nel primo
pomeriggio, poi giocavo in canonica a carte, a pingpong o al bigliardino e facevo
lunghe passeggiate fino a Mortelle con i miei amici cariddoti.
In verità, stavo molto attento, in classe, alle spiegazioni dei professori e avevo una
memoria davvero mostruosa: bastava che leggessi una volta un testo per ricordare
tutto l’indomani. Ma rifuggivo, per natura, da ogni comportamento da primo della
classe, anzi tendevo ad assimilarmi, in tutto, ai miei compagni meno volenterosi:
una volta confermai alla professoressa Montalto la giustificazione dei miei
compagni secondo cui nessuno di noi aveva studiato a memoria la prima metà della
poesia “La voce” di Giovanni Pascoli «perché era troppo lunga»: in verità io, dopo
una prima lettura (la sera prima, a letto, prima di spegnere l’abatjour), la sapevo – e
ancora oggi la ricordo – tutta a memoria. La professoressa Montalto faceva
inorgoglire mia madre, insistendo sulla necessità che Giuseppe, finita la Scuola
Media, continuasse gli studi al Liceo Classico, al Maurolico.
Addirittura, ci arrivò a casa un attestato del mio superamento degli esami finali del
corso (con abbondanza di otto e nove, se non ricordo male) e con la proposta
conclusiva secondo cui «lo studente Giuseppe Rando» era «portato per gli studi
classici».
- Complimenti.
- Grazie. Fu così che mia madre mi iscrisse al “Maurolico”, rinunciando all’Istituto
Tecnico (sognava di avere un figlio «raggiuneri», che lavorasse in un ufficio, «con la
cravatta» e «lontano dal mare», scontrandosi con mio padre che già mi vedeva
comandante di una nave). Fu così – presumo – che la segretaria del Maurolico che
ricevette la domanda d’iscrizione portata da mia mamma, vedendo tutti quei bei
voti, pensò di iscrivermi nella sezione A del Ginnasio, notoriamente la più
qualificata.
- Tutto bene, dunque.
- Sì, i due anni (quarta e quinta) del Ginnasio furono splendidi, identici ai tre della
scuola media: bei voti; rapporti molto amichevoli con compagne e compagni;
grande attenzione in classe (ricordo sempre con affetto il paterno professore di
Lettere, la professoressa di francese e il prof. Amato di Matematica); pomeriggi al
Faro Cariddi fra giochi e lunghe passeggiate. Intanto, cominciavo ad amare il
cinema e la letteratura.
- Bei tempi!
- Sì, le cose cambiarono radicalmente nei tre anni di Liceo. Mi limiterò a dire che qui
scoprii, con stupore, la brutalità della differenza di classe e parimenti le crepe
profonde di un sistema scolastico arcaico, arretrato, obsoleto, improduttivo, se
confrontato, in ispecie, con la funzione progressiva, innovativa svolta dalle «agenzie
parallele» del cinema, del teatro, della narrativa, della poesia, della saggistica, del
giornalismo in quegli anni eccezionali. Le racconterò, qualche altra volta, con
dovizia di particolari, l’episodio del voto (sette più, col punto interrogativo), dato al
mio primo compito in classe di italiano da una professoressa Bartoccelli, tipica
docente liceale, piccoloborghese, perfettina, elegantina, del tutto incapace di
trasmettere ai giovani studenti, post e anti fascisti, stimoli e insegnamenti
fondamentali: «Ma come fa – si sarà chiesto – il figlio di un pescatore dello Stretto a
svolgere così compiutamente un tema tanto impegnativo? Mica è figlio di un
laureato. Deve avere scopiazzato».
Ma, per rispetto dei lettori, fermiamoci qui: consideri, questa, la prima puntata.