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Il Bar Tabacchi “Abate” (o..... Abbate?)

- di Marco Giuffrida -

Era lì di fronte al mio isolato proprio sull’angolo del Torrente Boccetta con via Ventiquattro Maggio (anche qui, spero di non sbagliare) dal lato della via, a senso unico, che dal mare portava verso la Circonvallazione.

L’insegna sporgente, ancorata al muro, era chiara ed inequivocabile: Sali, Tabacchi e Chinino di Stato.

Il sale, già varcando lo Stretto, era Monopolio, appannaggio esclusivo di vendita dei tabaccai ed a prezzo piuttosto alto.

Per questo era, addirittura, “oggetto” di contrabbando.

In Sicilia, credo perché luogo di produzione, era in libera vendita, sempre dai tabaccai, ma ad un prezzo irrisorio.

Dei Tabacchi c’è poco da dire...... salvo che le sigarette venivano vendute, anche, a “pezzo”.

Il tabaccaio, al bisogno, apriva un pacchetto di “Alfa” o di “Nazionali Semplici” (le qualità più economiche e che andavano per la maggiore), prendeva quanto richiesto che, accuratamente, metteva in una bustina di carta sottile. Per risparmiare di più, esisteva, anche, del tabacco “Trinciato”, nelle qualità “Dolce” e “Forte”, che poteva essere utilizzato, assieme alle “cartine”, per “costruirsi” le sigarette.

Il Chinino di Stato.....  quello era un antifebbrile che veniva venduto a prezzo basso per andare incontro alle esigenze di tutti, soprattutto dei meno abbienti. Serviva per combattere la Malaria, terribile malattia che, a quei tempi, pur essendo stata, quasi debellata, poteva, ancora, definirsi endemica.

Grandicello, mi piaceva essere inviato a comperare “u Sali”, “grossu” o “finu” a seconda della necessità.

“Stai attento ad attraversare la strada” era la raccomandazione - viatico della mamma che, comunque, dal balcone mi avrebbe osservato.

E questa raccomandazione ci fu anche quando, dopo alcuni incidenti piuttosto gravi, malgrado lo scarso traffico, misero all’incrocio il semaforo.

Scendevo le scale, attraversavo, con attenzione la prima metà della strada, percorrevo i “giardinetti”, poi la seconda metà ed infine, timidamente, entravo nel locale e ne assaporavo subito aromi e profumi.

Ne approfittavo per vedere fare i gelati: la grande macchina elettrica, grigia e lucida, la pala che, automaticamente, si alzava ed abbassava per mescolare l’impasto, il cestello che girava lentamente.

Fragola, limone, crema, torrone.......

“Picciotto”, mi sentivo apostrofare.

E chiedevo il sale.

 Pagavo e mi veniva consegnato un cartoccio cilindrico che sembrava un grosso e corto cero.

Un’ultima occhiata allo scaffale dei pacchetti di sigarette e al tabacco ed uscivo.

Quando tornò dalla prigionia lo zio Tino, gran fumatore, i viaggi aumentarono.

L’incombenza era quella di acquistargli “Nazionali Semplici”, ma morbide.

“Mi raccomando, morbide”, aggiungeva perentorio.

Il Signor Abate, o Abbate che fosse, prendeva dallo scaffale diversi pacchetti che, in punta di dita, premeva dopo averli deposti in fila sul banco.

Sceglieva quello che riteneva più adatto e me lo consegnava.

Non vi fu mai una lamentela.

Io, intanto, una volta di più avevo gustato l’aroma del caffè espresso e quello delle essenze dei gelati, dei limoni e dei dolci.

In un lampo, ma sempre con attenzione, riattraversavo il Torrente Boccetta e tornavo a casa.

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