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La Pietra dei Giudei

Nel prospetto principale del Duomo di Messina, a sinistra della porta centrale e a circa tre metri dal suolo, tra le lesene decorative s'intravede un cartiglio in marmo rosa di Bauso, di venti centimetri di base per cinque circa di altezza che, pur nell'usura del tempo, lascia ancora intravedere queste parole "... Signum. Perfidorum. Iudeorum... ".

Una diffusa credenza popolare, più leggenda che storia, la definisce la Pietra dei Giudei, e ricorda nei seguenti termini un episodio probabilmente mai avvenuto, accaduto in Messina verso la metà del XIV secolo.

A partire dal 1300 le varie comunità straniere presenti in città, erano divenute talmente numerose da organizzarsi in vari qiiartieri, più o meno omogenei. La comunità ebraica, ad esempio, forte di diverse migliaia di cittadini, si era stabilita nell'area urbana oggi identificabile tra la chiesa di Santa Caterina, piazzetta Fulci, via S. Filippo Bianchi, l'Istituto Tecnico A. M. Jacie parte della via Tommaso Cannizzaro, fino all'incrocio con via Cesare Battisti, nei cui paraggi sorgeva un ponte detto appunto Ponte della Giudecca. Gli ebrei si occupavano per lo più di commercio, di finanza, della produzione e della lavorazione della seta ed erano espertissimi nella cura e nel recupero dei legni delle navi corrosi dalla salsedine e da un tarlo marino, il verme rosso.

Ai tempi in cui si svolge la nostra storia, da quelle parti esistevano ancora i resti di un tempio pagano dedicato a Castore e Polluce e gli ebrei ne avevano preso possesso costruendovi sopra la loro sinagoga. Per far fronte alle esigenze della loro comunità, all'interno di uno dei cortili i rabbini fecero scavare un pozzo artesiano che per un po' di tempo diede buona acqua da bere ma col tempo si andò lentamente prosciugando fino a esaurirsi del tutto.

La Chiesa di Messina, però, non vedeva di buon occhio il sorgere e l'estendersi delle comunità religiose non cattoliche e meno ancora di quella ebraica, definita infedele e da sempre accusata di insensato e feroce anticristianesimo. I fedeli cattolici nei confronti degli ebrei, accusati di deicidio, mantenevano un atteggiamento così ostile da riuscire spesso anche provocatorio.

In questo clima di tensione e di reciproco astio e di dispetti, il Venerdì Santo dell'anno 1347 un ragazzo del popolo, secondo la tradizione, passava davanti alla sinagoga cantando ad alta voce il Salve Regina, l'inno preghiera della Chiesa Cattolica. I rabbini diedero a quel canto il significato della sfida e della provocazione. Allettarono perciò il giovane con suadenti parole e lo attirarono all'interno della sinagoga. Quando il giovane fu dentro, i rabbini gli si buttarono addosso e cominciarono a picchiarlo in malo modo. Quindi gli legarono le mani dietro la schiena e all'istante imbastirono un farsesco processo religioso che finì con la sua condanna a morte, in croce, come Gesù, e come questi fu anche ferito al costato, prima di morire. Più tardi, nella speranza di far scomparire la prova della loro colpa, gettarono il suo corpo straziato dentro il pozzo del cortile e ne chiusero l'imboccatura con una pesante lastra di pietra.

Tutto sarebbe passato nel silenzio, se non fosse intervenuto un fatto straordinario e miracoloso. Il corpo del ragazzo, infatti, poco dopo essere stato buttato nel pozzo, cominciò a sanguinare così abbondantemente che il pozzo stesso si riempì di sangue fino all'imboccatura con un rivolo che subito raggiunse la pubblica via.

I passanti, seguendo quella traccia, intuirono che all'interno della sinagoga doveva essere successo qualcosa di grave. Chiamarono perciò lo straticò e questi, assieme ai componenti la corte straticoziale, volle saperne di più. Fece bussare alla sinagoga ma, non avendo ottenuto risposta, fece abbattere la grande porta di legno ed entrò con tutto il suo seguito. Continuando a seguire la traccia del sangue, giunse fino al pozzo artesiano e nel suo interno scoprì il macabro assassinio.

Lo sdegno e il risentimento di tutti gli astanti furono grandi. II martoriato corpo del giovane galleggiava nel suo stesso sangue e lo straticò, con somma pietà, lo fece rimuovere per fargli dare cristiana sepoltura.

I rabbini, in preda al panico, si erano nascosti nelle varie stanze e non uno osò affacciarsi nel cortile per dichiararsi pentito o almeno per scolparsi. Esperite le indagini non fu difficile allo straticò scoprire anche i motivi di quel crimine. Fece allora arrestare tutti gli ebrei presenti nella sinagoga e li fece rinchiudere nella prigione della città, in attesa di essere giudicati da un regolare tribunale. Dell'ignobile delitto fu allora informata la regina di Sicilia Elisabetta, vedova di Pietro II d'Aragona, che in quel momento dimorava a Palermo e che era reggente del Regno in nome del figlioletto Ludovico. Costei inviò a Messina un magistrato che nei confronti dei carnefici e dei loro complici instaurò un processo penale. Da esso i rabbini inquisiti ne uscirono manifestamente colpevoli, sicchè per loro la sentenza non poté essere che di morte. Portati al patibolo, furono decapitati e le loro teste, per qualche tempo, si dice, furono appese ad un muro della sinagoga. Sotto di esse fu murata una piccola lapide con su incisa la frase: " ...Sigreum Perdorum Iudeorum... ". A quel tempo l'aggettivo perfido non indicava malvagità ma scarsa fede.

Oggi una parte di questa lapide è murata nella facciata del Duomo di Messina, a sinistra di chi guarda la porta centrale e, nel volerlo ricordare il nefando episodio, vuole anche essere un monito a quanti nel fanatismo più cieco fanno aberrante sistema di vita.

Ultima modifica il Domenica, 16 Ottobre 2016 07:09
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