- di Giovanni Cammareri -
Il nome di Santa Croce Camerina è purtroppo balzato alla ribalta delle cronache nazionali a causa
del doloroso episodio legato all’uccisione del piccolo Loris.
Sarebbe stato molto meglio se ciò fosse accaduto soltanto per la bella festa di S. Giuseppe, una fra le più rinomate nel Ragusano e dell’intera Sicilia.
Santa Croce Camerina, paese quasi totalmente moderno, con una Matrice praticamente ottocentesca, monca di uno dei due campanili poiché mai costruito per eludere il fisco spagnolo, e numerose serre a reggerne l'economia, l'usanza di festeggiare san Giuseppe pare abbia preso vigore a partire dal 1832, quando il barone Guglielmo Vitale decide di destinare alle celebrazioni una rendita di tre vignali.
Qui, finita la messa, a menz'jornu nescinu i santi. Poi chiedono accoglienza bussando alla porta dell'abitazione dove è stato preparato l'invito, fingendo di bussarvi casualmente.
Un uomo anziano impersona san Giuseppe, in mano regge un bastone con l'estremità agghindata da un paio di arance tra foglie e nastri e il santino con impresso il festeggiato. Un bambino con in testa una ghirlandetta di fiori d'arancio e una ragazza sui dodici anni sono Gesù e Maria.
La famiglia che offre il pranzo li va a prendere in chiesa, spesso assieme a una banda musicale.
Il piccolo corteo attraversa così trionfalmente il paese prima di entrare in casa e fermarsi innanzi a all'opulenza della tavola imbandita, un tempo concepita al nobile fine di aiutare autentici poveri che partecipavano sovente a più banchetti portandosi quanto non riuscivano a consumare nel corso dell'invito.
Dolci, pasticci di spinaci, zeppole, finocchi, cassata, baccalà fritto, pasta e ceci, oggi spesso sostituita con la pasta al sugo arricchita dall'aroma dei chiodi di garofano, dalla cannella, dal camommu (cardamomo) e dall'alloro, tra i cibi più tipici della tradizione.
Finalmente entrati quindi, il Patriarca benedice la casa e i presenti, si lava le mani in una bacinella contenente vino e acqua asciugandosele poi con una tovaglia di lino. Infine, prima di sedersi a tavola, per tre volte dice così:"o cantu cantu cc'è ll'anciulu santu, 'u Patri, 'u Figghiu, 'u Spiritu Santu". E inizia il pranzo. Con un ordine di portate per così dire, regolare: dal primo al dolce.
Sfilata di cavalli al mattino, processione al tramonto a Ispica, la domenica successiva al 19. A Giarratana, la domenica più prossima al 19. In più, in tale giorno, sul sagrato della Chiesa Madre vengono effettuate vendite all'asta di animali da cortile, frutta e dolciumi. Tra le vendite all'incanto, curiosamente chiamate "cene", rientrano certi pani modellati a forma di bastone detti pastuni. Il denaro raccolto viene destinato a spesare la festa.
"Cene" nel senso più tipico ad Acate, sempre nel Ragusano, dove eccentrici altari innalzati attraverso l'esposizione su più piani dei cibi stessi, testimoniano l'appuntamento festivo.