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I “Leoni di Sicilia” e la realtà ritrovata

Giuseppe RANDO

Due fatti colpiscono immediatamente e simultaneamente il lettore de I leoni di Sicilia di Stefania Auci: I) l’assoluto realismo della narrazione; II) l’estrema leggibilità del testo. Ed è pure prevedibile che qualche raffinatissimo collega storca il naso di fronte a un linguaggio del tutto immune da «ardui» sperimentalismi lessicali e di fronte al racconto fluido di eventi, magari drammatici, ma estranei a certe tortuosità tipiche della letteratura novecentesca. Può anche darsi che, con questi chiari di luna, il romanzo della Auci venga considerato «un’opera retro», un “passo indietro” rispetto agli alti (davvero) traguardi darrighiani, consoliani e camilleriani della narrativa nostrana, per restare in Sicilia.

Tutto può capitare, in questa strana fase della cultura e della critica italiana, ma non v’ha dubbio che I) I leoni di Sicilia sia un bel romanzo; che II) Stefania Auci possieda la dote fondamentale per chi voglia raccontare storie, cioè l’affabulazione; e che III) l’affabulazione sia molto probabilmente innata, come riteneva Moravia: c’è chi ne è dotato e chi no.

Il romanzo della Auci conferma, intanto, la vitalità del romanzo storico, come «componimento misto di storia e d’invenzione» (Manzoni), ma anche come romanzo tout court, che è ancora «giovane» da noi (si è affermato, in Italia a partire dall’Ottocento – laddove in Europa aveva conquistato le vette dell’arte e della popolarità già nel Seicento – ed è, quindi, mobile, non grammaticalizzato, suscettibile di modifiche), sempre secondo Moravia.

Sono dati storici del racconto: a) quelli costituiti dall’albero genealogico della famiglia Florio (1723- 1868), opportunamente pubblicato in appendice; b) quelli deducibili dalla documentazione delle imprese commerciali dei Florio stessi, offerta soprattutto dal saggio magistrale di Orazio Cancila, dentro il quadro complessivo della storia dell’Italia meridionale (dal terremoto del 1783, alla Repubblica Napoletana del 1799, alla Costituzione del 1812, ai moti antiborbonici e alla Costituzione del 1848, all’impresa dei Mille, all’Unità d’Italia e ai primi anni dello stato unitario), le cui tappe fondamentali sono puntualmente ricostruite ad inizio di ognuna delle sette sezioni del romanzo, tra il Prologo e l’Epilogo.

L’invenzione è, per converso, evidente nella magistrale ricostruzione della vita sentimentale dei Florio (deducibile, in primis, dalle date dei matrimoni e delle nascite dei figli), e nello scandaglio psicologico della loro – congenita, parrebbe – «testardaggine», cioè del loro impellente e totalizzante bisogno di riscatto da un passato di povertà, dietro la spinta di una sorta di religione laica (imprenditoriale) del fare, del guadagnare, dell’investire, del crescere economicamente e socialmente: dalla casa di Pietraliscia a Bagnara, insomma, alla Villa dell’Olivuzza, «la futura reggia dei Florio», a Palermo.

Epperò, I leoni di Sicilia sono un ampio romanzo a focalizzazione zero, narrato (in terza persona) da un narratore onnisciente che non disdegna di «regredire» perfino al livello mentale di un bambino, il piccolo Ignazio, ricostruendone i pensieri («Ignazio pensa che non esista donna più bella di sua madre. Nemmeno madmuasel Brigitte, con la sua r strana e i suoi capelli biondi», p. 315). Romanzo acceso da forti passioni (la voglia divorante del successo economico-sociale, l’amore, la morte) e attraversato da una notevole tensione narrativa che si alimenta con un sapiente uso della prolessi («Fino al giorno in cui sarà Giulia a tenere la mano di Vincenzo e lui avrà il coraggio di dirle quanto l’ha amata pur senza dirglielo», p. 290), dell’analessi («Era stato allora che suo zio si era reso conto che il nipote non sapeva nuotare – che vergogna, lui, figlio di mariani – e aveva deciso d’insegnarglielo», p. 313)e dello stile indiretto libero («Lei li voleva un marito e dei figli, ma, se avesse saputo che il matrimonio era questo, se ne sarebbe scappata per le montagne», p. 54), nonché modulato secondo un ampio, fluviale andamento narrativo in cui si alternano, quasi musicalmente, fasi idilliache (poche) e fasi tragiche (una dei vertici tragici del racconto è nella narrazione della morte di Paolo, alle pp. 95-99) della vita dei Florio. Romanzo del tutto estraneo, et pour cause, a certi contorcimenti tematici e stilistici che aduggiano, purtroppo, molta narrativa contemporanea. Romanzo luminoso, dispiegato perlopiù in superficie e tuttavia capace di scandagliare negli abissi più riposti del cuore, ma sempre dentro un salutare bagno di realtà: le pagine sono sempre fitte di avvenimenti, di pensieri e di sentimenti. Romanzo leggibilissimo, come dicevamo, in cui la lingua mediana della conversazione è arricchita da limpidi innesti in dialetto calabrese e siciliano («Campa tu e cu mori, mori», p 50) e da fulminee notazioni di stile novecentesco, cioè allusive, simboliche, antirealistiche («Lo scoramento passa dall’uno all’altro, li avvolge, si accomoda tra il petto e la gola», p. 40), proprie di un autore implicito che mostra dimestichezza anche con la lingua dotta (della poesia ermetica e postermetica).

Ma I leoni di Sicilia sono anche un « romanzo famigliare», sulla scia di Verga, di De Roberto, di Pirandello, di Tomasi di Lampedusa, e forsanche di Thomas Mann, nonché «romanzo di formazione» (Bildungsroman) centrato sul forte legame della madre (mediterranea) con i figli maschi e sulla mitologia maschilista del capofamiglia (ved. p. 375).

Non sorprende, quindi, che la narrazione assuma talora l’allure del «romanzo esistenziale», così battezzato da Moravia sulla scorta di Dostoievskji: la vita vi appare leopardianamente insidiata dal dolore e dalla coscienza del limite della condition humaine, tanto che i Florio, pur vincendo quasi tutte le loro battaglie, sono sempre tormentati da ansie, rinunce, cadute, sconfitte, tutte registrate fedelmente, all’insegna della oggettività narrativa, da un autore implicito che non concede nulla all’enfasi, alla retorica, alla partigianeria.

Non c’è dubbio, tuttavia, che il tema dominante del romanzo auciano sia quello amoroso: le facce tipiche dell’amore (quello sognato, quello vissuto, quello rimpianto) vi sono egregiamente rappresentate. Si alternano, difatti, tra le pagine, come in un’ariosa sinfonia, l’amore giovanile, sognato e non realizzato, di Paolo e Isabella; l’amore inespresso, soffocato di Giuseppina, moglie di Polo, per Ignazio, suo cognato; l’amore passionale, totale di Vincenzo e di Giulia; l’amore di convenienza di Ignazio, figlio di Vincenzo, per Giovanna d’Ondes. Ne deriva, peraltro, una sorta di romanzo dell’incomunicabilità: quella che si insinua, per i più svariati motivi, nei rapporti umani, inibendo il dialogo costruttivo non solo tra Paolo e Giuseppina, ma anche tra le sorelle (Angelina e Giuseppina) e il fratello Ignazio, figli di Vincenzo, nonché tra Vincenzo stesso e il cugino Raffaele, e infine tra Ignazio e la sua prima ragazza di Marsiglia. Vincenzo e Giulia si sottraggono, in parte, a tale peste: novelli Adamo ed Eva, comunicano con i corpi, col sesso, e solo alla fine, oramai vecchi, forse si capiscono.

Tra i personaggi femminili spicca, certamente, Giulia, figlia di un imprenditore milanese, una delle più vere, intense, figure di donna di tutta la narrativa contemporanea: dapprima, amante coraggiosa, indomita di Vincenzo, quindi madre di Angelina, di Giuseppina, di Ignazio, e finalmente moglie di Vincenzo stesso (dopo la nascita del sospirato maschio), contro i pregiudizi della suocera Giuseppina, della società maschilista, dello stesso Vincenzo. I fremiti della sensualità femminile – registrati esplicitamente dall’autrice – e la determinazione a restare legata al suo uomo, fanno di Giulia una femminista ante tempus (a lei l’Auci affida peraltro il messaggio progressista dei liberali dell’epoca, cultori dell’Unità nazionale, contro le resipiscenze neoborbomiche del marito).

Giuseppina Saffioti, la madre di Vincenzo, nata a vissuta a Bagnara (il suo ricordo di Bagnara, unito al rimpianto, attraversa orizzontalmente e verticalmente il romanzo), fino a quando il marito Paolo non decide di trasferirsi a Palermo, si porta dentro tutti i pregiudizi, nonché la passività, la sofferenza, ma anche l’atroce onestà che contrassegnarono le donne del meridione d’Italia nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento.

Sicché Giuseppina e Giulia si configurano, nel romanzo, come due figure femminili emblematiche di due culture diverse, se non antitetiche: quella milanese e quella calabro siciliana dell’Ottocento. E va detto che raramente – dietro un aggettivo o una nuance stilistica – sfugge al narratore implicito, celato dietro il velo dell’oggettività narrativa, un giudizio di plauso o di condanna per l’una o per l’altra.

E tuttavia I leoni di Sicilia sono anche, implicitamente, un romanzo di denuncia sociale: contro lo strapotere dei nobili, contro il parassitismo-indifferenza di troppi siciliani (di ieri di oggi, parrebbe) e contro il maschilismo dominante in tutti gli stati della società.

C’è, in conclusione, un romanzo vero e pregno di fatti reali (senza fughe nell’irrealtà), e c’è una narratrice che, documentandosi, è riuscita a tradurre sulla pagina, in forma narrativa, la sua visione del mondo, probabilmente imperniata sulla consapevolezza della dura lotta per la vita, della lotta dei sessi, della prevaricazione maschile nella società e della disumanità del potere. What else?

Stefania AUCI, I leoni di Sicilia. La saga dei Florio (Editrice Nord, Padova 2019, pp.437, € 18,00)

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