- di Giuseppe RANDO -
Nel canto XIX dell’Inferno, Dante com’è noto, getta all’inferno, con un escamotage, tre papi del suo tempo (Niccolò III, Bonifazio VIII e Clemente V), contrapponendo efficacemente il messaggio di Cristo e i luminosi comportamenti dei suoi primi apostoli all’avidità (cioè alla simonia) dei tre pontefici. E ciò – si badi –, senza mai dubitare del primato petrino, anzi facendosene paladino: «Se parlo così è per reverenza delle somme chiavi di pontefice che tenesti in vita, perché dovrei usare parole più pesanti: la vostra avidità rattrista il mondo, calpesta i buoni ed innalza i malvagi» (w.100-104).
Il sommo poeta suggella, difatti, quella vibrante, altissima invettiva ricorrendo, da perfetto cristiano, a uno dei testi sacri del cristianesimo, l’Apocalisse: «Proprio di voi parlava profetizzando l'evangelista Giovanni quando nell'Apocalisse citava colei [la chiesa, per Dante] che siede sopra le acque 'puttaneggiando con i re' (vv. 90-108)».
Egli stesso rinfaccia, quindi, senza mezzi termini, ai papi simoniaci di adorare un «dio d’oro e d’argento», anzi tanti dèi quante sono le monete che accumulano.
L’intervento si conclude, infine, con una puntuta invettiva contro Costantino I e la sua famosa «donazione»: «Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, / non la tua conversion, ma quella dote / che da te prese il primo ricco patre!» (115-117).
Posizione assai limpida, invero, e inequivocabile, che dovrebbe essere condivisa da tutti, cristiani e no.
Ebbene, scorrendo i giornali in questi giorni, si nota subito che su Dante – dopo sette secoli – ci si divide ancora: a destra (sul «Giornale», per esempio) si scambia l’invettiva dantesca contro i papi simoniaci con una rampogna a contro i papi modernizzanti (pensando, forse, a tutti i grandi papi del secondo Novecento e di questo inizio del Terzo millennio), come si evince dalla conclusione dell’articolo, I papi all’inferno, colà pubblicato: «Forse Dante oggi sarebbe stato un "tradizionalista" o un "conservatore", che dir si voglia, sempre pronto a rimproverare alle alte sfere [i papi?] vaticane stili, comportamenti e prese di distanza dottrinali nei confronti della Chiesa delle origini». All’articolista, che gode al pensiero di un Dante “conservatore”, sfugge, evidentemente, et pour cause, che sono proprio i grandi Papi moderni (da Giovanni XXIII al regnante Francesco) quelli che operano per ripristinare i valori della «Chiesa delle origini»: basti pensare alla «Chiesa povera per i poveri» proposta da Francesco.
I giornali cattolici («L’avvenire»), per converso, esaltano, giustamente, la perfetta adesione di Dante, sommo poeta cristiano, ai principi e ai testi evangelici.
La verità storica è che Dante fu un cristiano «adulto» (per dirla con Prodi), cioè immune dal tarlo del clericalismo e molto vicino al francescanesimo del suo tempo, capace, quindi, di contestare, apertis verbis, certe deviazioni affaristiche dei più alti rappresentanti della chiesa del tempo: alla fine, un cristiano che non si perita di protestare contro il malcostume di certi papi, un protestante ante litteram. Senza mai dubitare – occorre ribadirlo – del magistero petrino, suggellato nei vangeli.
In effetti, nelle sue prese di posizione contro la simonia e/o avidità di certi papi, Dante, pur restando estraneo alle logiche separatistiche delle sette ereticali dell’epoca, si mosse, per primo, sulla via che sarà ripercorsa, con altri esiti e modalità, due secoli dopo, da Martin Lutero.