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“La Cittadedda ‘nfami china di cannuneri…” La repressione borbonica nel ‘48

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- di Enzo Caruso -

“La cittadedda 'nfamia china di cannuneri... Nn’a bbruciatu li quarteri, e vulemu la libbertà!”

Nei versi di questa canzone, scritta durante i Moti rivoluzionari del 1848, c’è espresso tutto l’odio del popolo messinese verso “l’infame” fortezza, rea di esistere non per difendere la Città da attacchi nemici, ma per tenerla soggiogata sotto il tiro dei suoi 400 cannoni.

Costruita subito dopo la rivolta antispagnola per sedare anche il più flebile alito di libertà e di indipendenza, la Cittadella nei suoi 200 anni di storia ha rappresentato il simbolo dell’oppressione e della tirannide.

Come avvenne per la Bastiglia dopo la Rivoluzione Francese, il primo pensiero della nuova Amministrazione comunale, all’alba dell’Unità, fu la richiesta di demolire il “Simbolo” e tutto ciò che le tetre mura avevano rappresentato.

Dopo la scintilla del 1° settembre 1847, immediatamente soffocata dalla polizia borbonica, i messinesi i Messinesi scendevano in massa per le strade alle ore nove del 29 gennaio, dando inizio alla rivolta che tenne in scacco i napoletani per 9 mesi.

Mentre l'artiglieria della Cittadella bombardava Messina con un'intensità prima sconosciuta, continuando a farlo anche nei giorni seguenti, riducendo in macerie interi quartieri, un esercito di 25.000 borbonici sbarcava a sud della città dirigendosi verso il centro abitato, contrastato da soli 6.000 siciliani, bruciando e distruggendo ogni cosa.

“Furono gli infermi, i ciechi, ed i paralitici dell'ospizio Collereale a colpi di baionetta scacciati, ed impigliandosi fra le schiere borboniche, rimasero tutti sceleratamente ammazzati. Furono arse e distrutte tutte le dimore del borgo San Clemente posto poco prima del torrente della Zaera”.

“Appiccarono il foco al grande Ospitale, e vi arser dentro malati e feriti assai. Preso, o per meglio dire distrutto il quartiere che si trovava fra via Imperiale e via Porta Imperiale, i reparti borbonici che avanzavano dal mezzogiorno, ossia dalla testa di ponte navale, si congiungevano con quelli che provenivano dalla Cittadella”.077

Frattanto i militari dell'esercito borbonico si davano al saccheggio ed alle violenze sugli abitanti: “Li Svizzeri ed i Napolitani non marciavano che preceduti dalli incendii, seguìti dalle rapine, da' saccheggi, dalli assassinamenti, dalli stupri. […]. Donne violate nelle chiese, ove speravano sicurezza, e poi trucidate, sacerdoti ammazzati sulli altari, fanciulle tagliate a pezzi, vecchi ed infermi sgozzati ne' proprii letti, famiglie intere gittate dalle finestre o arse dentro le case”.

Furono saccheggiate e distrutte anche alcune abitazioni di stranieri che vivevano a Messina, tanto che il console inglese Barker, riferendo l'accaduto al suo Governo, scriveva che molti sudditi inglesi ivi residenti erano ridotti in rovina e che era stato ferito a colpi di sciabola persino il console di Grecia e Baviera M. G. M. Rillian, malgrado si trovasse in uniforme, prima che anche la sua dimora fosse saccheggiata ed incendiata.

Anche l'ammiraglio inglese Parker condannò l'operato dei borbonici: “La più grande ferocia fu mostrata dai napoletani, la cui furia fu incessante per otto ore, dopo che ogni resistenza era cessata”.

Il bombardamento e gli incendi appiccati suscitarono le proteste dei diplomatici stranieri presenti a Messina, precisamente dei consoli del Belgio, della Danimarca, della Francia, del Regno Unito, dei Paesi Bassi, della Russia, della Svizzera.

Alla sconfitta militare dell'insurrezione seguì quindi una dura repressione.

A Messina fu imposto un periodo di stato d'assedio che durò per oltre tre anni. Inoltre il generale Filangieri impose, con un suo decreto, che la locale Università messinese potesse essere frequentata soltanto da studenti della provincia. Furono anche chiusi importanti centri di cultura come il Circolo della borsa” ed il Gabinetto letterario” e molti personaggi illustri ed intellettuali di Messina, coinvolti nella grande rivolta, dovettero alla fuga ed all'esilio.

La Cittadella continuò a fornire al potere borbonico uno strumento di dominio e controllo su Messina sino al 1860, sia con la minaccia latente dei suoi cannoni e della sua guarnigione, sia come carcere per i prigionieri politici.

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