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MERCANTI FORESTIERI IN SICILIA NELL’ETA’ MODERNA

Scritto da  Mar 29, 2016

 -  di Carmelo Trasselli -

La presente trattazione non ripete quanto altri scrivono sul commercio e sulla navigazione, benché le fonti siano pressocchè le medesime; i mercanti forestieri in Sicilia vengono guardati come aspetto di un fenomeno economico e sociale.

Si ritiene necessario fissare alcune date e alcuni avvenimenti che interessano la Sicilia direttamente o indirettamente e che hanno la funzione di punti d’orientamento: le nuove politiche di Carlo V e di Filippo II, che coprono ottanta anni del sec. XVI;la carestia del 1590-92, che fu fenomeno comune a tutta l’Italia meridionale ed al Mediterraneo; LA Guerra dei Trent’anni /1618-1648); l’epidemia del 1624: la rivolta del 1647 preceduta da un’epidemia assai grave e mortale di influenza, identificata da G.A. Borelli ma non studiata in seguito; la grande fame del 1670-1672; la rivolta di Messina del 1674-1678; il terremoto del 1693 che distrusse fiorenti città come Catania e Noto e ne colpì gravemente molte altre; la Guerra di Successione di Spagna; i brevi governi piemontese ed austriaco; l’insediamento di Carlo di Borbone, 1734; l’epidemia del 1743; la fame del 1764;il terremoto del 1783; le invasioni di cavallette nel sec. XVIII; infine la fuga del Re da Napoli a Palermo e l’occupazione inglese; la breve occupazione francese e poi la definitiva occupazione inglese di Malta.

Anche senza arrivare ai Borboni, alcuni dei fatti ricordati segnano uno spartiacque; ciascuno dei fatti in sé non era cosa del tutto nuova; la loro successione rapidissima, invece, era la novità esistenziale perché l’isola non ebbe mai il tempo di maturare una ripresa, che già un nuovo fattore di squilibrio si profilava all’orizzonte. L’intervento di grandi potenze in Mediterraneo (Francia, Inglitterra, Olanda) costrinse la Sicilia in una nuova condizione di grave disagio, poiché risultò insufficiente il tradizionale generico allineamento con la politica iberica.

L’inizio del ‘500 si può segnalare per la mancanza di navi in Mediterraneo o forse meglio per la loro insufficienza numerica in confronto con le necessità di trasporti commerciali e militari (la resa di Rodi può motivarsi anche in parte con l’impossibilità di trasportare i soccorsi); le navi che battevano la rotta delle Fiandre venivano spesso requisite a Cadice per occorrenze militari; le imprese africane anche in partenza dalla Sicilia, come quelle guidate da Ugo Moncada, cozzavano contro le difficoltà dei trasporti e immobilizzavano troppe navi per lungo tempo.

Una marina nuova venne in Mediterraneo: i Biscaglini facevano operazioni commerciali tra le Fiandre, Londra e il Levante toccando i porti siciliani, anche al servizio di Lucchesi e Inglesi, ma non costituirono mai colonie(eccettuati pochi minatori chiamati dal governo siciliano per un tentativo di siderurgia autarchica); all’occasione,se non noleggiavano le navi, esercitavano scopertamente la pirateria, a gara coi Genovesi che la esercitavano nel Golfo di Tunisi contro le navi siciliane sin dalla fine del sec. XV. Più tardi il vuoto fu colmato, ritiratisi i Biscaglini, dai Ragusei che esercitarono linee di navigazione regolari, come quella Venezia-Sicilia-Catalogna, ma neanche essi costituirono colonie vere e proprie; come non ne costituirono Inglesi e Francesi, benché appoggiati a consolati. Gli stessi “padroni” di massima assolvevano anche la funzione commerciale.

Sono questioni complesse e non del tutto chiarite in cui si intersecano la mancanza di legname adatto alle costruzioni navali, l’impicciolimento delle navi costruite in Sicilia, l’acquisto di naviglio nordico, la “mediterraneizzazione” di navi e navigatori del Nord Europa, il traffico di navi predate che si svolgeva a Tunisi, divenuta una specie di Shanghai o di Hong-Kong del Mediterraneo.

Altro fatto nuovo, l’immigrazione povera in Sicilia, vera e propria corrente inversa di quella odierna della quale ho fatto parola anche in congressi, ma sulla quale non ho ricevuto alcun suggerimento: il Cinquecento è costellato in Sicilia da Genovesi fornai o pasticcieri, garzoni di libraio, domestiche, tessitori; la prima colonia genovese cinquecentesca a Messina è, anche se mercantile, poverissima e si abbassa fino al recupero di navicelle affondate; dell’immigrazione lucchese fanno parte anche un nugolo di tessitori di seta, e così di quella napoletana e veneziana; dal Piemonte arrivano semplici muratori; minatori arrivano dal Bergamasco e da Milano operai per le armi bianche. E’ un’immigrazione che cogliamo con evidenza all’arrivo, ma che non è stata studiata nei punti di partenza e specialmente nei motivi che l’hanno determinata. La immigrazione calabrese è plurisecolare e va considerata a parte.

Tra i fatti nuovi, da segnalare ancora l’arrivo di scultori lombardi, come i Gagini; e poi l’arrivo di professionisti: ligure è quell’Orazio Neurone”ingegnero d’acqua” che lavora agli acquedotti di Trapani e Castelvetrano.

L’ambiente siciliano si atteggia diversamente di fronte ai forestieri mercanti. Palermo (come fu segnalato già dal napoletano Crivella verso la fine del ‘500) è essenzialmente una città sempre ricettiva, il cui patriziato urbano fonda la propria ricchezza sulla proprietà urbana e rurale; esso si incrementa per la residenza a Palermo di un numeroso patriziato feudale e poi con l’arrivo di alti funzionari dalla Spagna. Ma, nemmeno nelle sue componenti professionali (giuristi, medici), si dà agli affari; tutt’al più prende parte con quote ad affari di prestiti al governo diretti da forestieri;la massima aspirazione è la proprietà immobiliare, sotto qualsiasi forma compresa quella feudale, e l’amministrazione di questa, insieme con gli affari in genere, diviene appannaggio di forestieri. A tale norma non sfuggono nemmeno le famiglie ormai feudalizzate della vecchia immigrazione pisana.

A Trapani il patriziato urbano mostra la medesima tendenza generale, ma per lo più è attivo nell’amministrazione delle terre, nella navigazione, nelle tonnare.

A Messina, fino a tutto il Cinquecento, il patriziato urbano, anche se tende a diventare feudale e blasonato, prosegue le attività commerciali e imprenditoriali e, pur non mostrando mai alcun accenno di xenofobia ed ospitando benevolmente i mercanti forestieri, sembra mantenere la direzione dell’economia cittadina. Messina è l’unica città siciliana in cui una volta sia stata messa in discussione l’antica usanza secondo la quale chi sposava una cittadina diventava cittadino acquistandone tutti i privilegi. Messina è la meno ricettiva tra le città siciliane; i suoi grandi mercanti battevano in ritirata a poco a poco dal 1600 in poi, dando spazio all’insediamento dei forestieri; né parlerei di deficienza di capitali; piuttosto di stanchezza, di disamore del rischio.

Nulla possiamo dire di altre città come Catania, Siracusa, Agrigento, Sciacca delle quali i documenti non sono stati studiati sotto questo profilo o sono stati distrutti recentemente.

Un buon indice sugli insediamenti di mercanti forestieri è fornito dai banchi cinquecenteschi di Palermo, che agevolmente si distribuiscono in tre gruppi; ne è scomparsa di massima la documentazione contabile e dobbiamo accontentarci di quella notarile o di quella ufficiale; che bastano tuttavia per rilevare l’assoluta assenza di banchieri di origine inglese o fiamminga o francese.

Gruppo Aragonese-Ebraico. Nonostante la ben nota politica antiebraica di Ferdinando il Cattolico – ma egli era uno strano monarca che perseguiva con odio almeno pari gli Ebrei ed i muli – le sue finanze erano dirette da due potenti famiglie di convertiti, i Sanchez ed i Cavallaria, che lo avevano guidato e sostenuto anche nella Guerra di Granata, pur se non avevano saputo evitare l’errore di inimicargli Barcellona. A Palermo nel 1492, con “fondo” che in sostanza proveniva dal Tesoriere Generale del Re, fu costituito il banco Sanchez e Levi, con lo scopo di acquisire il monopolio dei depositi della Tesoreria di Sicilia e degli altri uffici pecuniari (Secrezie, Portulanato ecc.) è specialmente del “riservato”, ossia del gettito di alcuni grandi caricatori di cereali come Agrigento, non disponibile senza ordine espresso del Sovrano. I Sanchez si associarono con Ambrogio Levi, in origine Levit, che dal cognome risulta un altro converso e dal nome risulta lombardo se non propriamente milanese; è il primo lombardo che prende stanza in Sicilia nel mondo degli affari, aggiungendo 2000 fiorini ai 6000 apportati dal gruppo Sanchez-Agostì. Questo banco, primo di origine non mercantile, doveva avere due scopi: inserirsi negli affari di frumento dei quali un altro Sanchez, Aloisio, aveva tenuto la gestione per conto del Re al tempo di Granata e che era riuscito a finanziare la guerra contro i Musulmani di Spagna con l’oro fornito dai Musulmani d’Africa affamati; e mettere a disposizione del Re le somme depositate dagli uffici pecuniari o – ripetendo in grande il giuoco di Antonio Sin, Tesoriere di Alfonso il Magnanimo – figurar di prestare al Re denaro del Re stesso. E se la politica e le guerre fossero rimaste nel settore italo-iberico, il banco Sanchez-Levi sarebbe stato capace di realizzare i suoi scopi.

Per illuminare le figure dei protagonisti, si rilevi che i rapporti tra Sanchez e Agostì vennero consolidati con un doppio matrimonio in cui i mariti avevano 13 e 9 anni; e che quell’Aloisio, che stava dietro le quinte, aveva provocato il fallimento del banchiere pisano Pietro Aglata e del suo socio Francesco Allegra, console dei Catalani, nell’affare della fornitura di cereali all’Africa.

Ma con Carlo V(salito al trono nel 1516) vi è trapasso immediato dal settore iberico-siculo a quello europeo, anzi europeo-americano;non era nemmeno una questione di sola sufficienza di denaro e di capitali, bensì di mezzi tecnici e di rapporti internazionali sulle grandi Fiere di Cambi e di possibilità di rendere disponibile qualsiasi somma a Roma, a Bologna, in Ispana, in Germania, nei Paesi Bassi. Il banco fu impari alla bisogna e si ritirò a poco a poco; il Levi divenne alto funzionario del governo siciliano.

Gruppo Toscano. Si esauriscono a poco a poco i maggiori banchi pisani della prima immigrazione (per es. quello di Guglielmo Aiutamicristo cui succedono Battista Lombardi e gli eredi Lombardi fino al 1514); acquistano l’assoluta preponderanza i Lucchesi, accompagnati da qualche fiorentino e da qualche pisano di nuova immigrazione in secondo piano. Coevo l’arrivo di tessitori, di medici. I banchieri toscani sono Aglata, superstiti dal secolo precedente, Xirotta,

Vinaia, Pizzinga (Opezinghi), Cenami, Torongi, Monsone (Manzoni), Accascina, Minochi, altri minori. Andrea Lombardi abbandona la professione bancaria e diventa Conservatore del Real Patrimonio; Giambattista e Andrea Strozzi calano in Sicilia ed assumono l’arrendamento (appalto) della contea di Modica che, coi territori del Medicano e del Ragusano e con Alcamo e Cacciamo, produce diecine di migliaia di salme di frumento; Giambattista viene a Palermo nel 1549 a rinnovare l’arrendamento per altri quattro anni.

Lucchesi come Bernardini e Minochi si trovano a Palermo con Vincenzo Nobile, assicuratore e creatore, nel 1549, di una tessitura di panni, in compartecipazione con l’università; il Nobile morì nel 1555 a Monreale, città vescovile di cui era governatore un lucchese.

Dei banchi del gruppo toscano conosciamo meno male quello di Martino Cenami (1548 – 1556). Dei quattro fratelli Cenami, Francesco era morto, Martino era venuto a Palermo, Giuffrè era rimasto a Lucca, Andrea si era stabilito a Lione. Gli affari si irradiavano dunque sull’Italia e fino ad Anversa e alla Fiera di Lione.

In un solo anno i Lucchesi di Palermo prestarono al governo 49'625 scudi rimborsati nel 1550; interessi fra 13 e 14 per cento; il Cenami contribuì da solo con 19'125. Nel 1547 Nobile e Minochi (il primo sc. 4'200) diedero un cambio su Besancon e Fiera di Pasqua; poi cedettero il credito al banco Cenami che incominciò a riscuotere soltanto nel 1549. Il banco inoltre accreditava al governo i contributi dei privati (nel 1547-49 sc. 5'175); tra il 1548 e il 1552 contribuì alla fornitura di armamenti e vettovaglie alla flotta del Doria, ai presidi africani, alle galere siciliane, alle truppe spagnole. Martino Cenami commerciava anche in metalli, rame e stagno già divenuti materiali strategici; era armatore di ben due navi, da 300 e da 450 tonn.; prestava al governo su Messina; prestava ai privati contro pegno (al Vescovo di Ma zara più di 397 sc.); teneva in casa lingottini d’oro e d’argento; a Sciacca aveva 3830 salme di frumento, a Palermo 200 cantàri d’olio (quint. 160); tra olio e frumento scudi 19'450; gioielli e preziosi anche in pegno sc. 2'967; contanti sc. 12'175. Non conto le telerie, i mobili, i quadri, gli schiavi. Ricordo, come nota caratteristica, 50 scudi d’oro del conio di Lucca che, narrarono i testimoni della sua morte, Martino”tenia ne li mano al tempo di sua infirmità per la quali morsi”. Personaggio degno di Shakespeare; la moneta d’oro che acquista un profondo valore spirituale, perché rappresenta la patria a chi ne è lontano.

Martino morì nel 1556 e in gennaio 1557 arrivò a Palermo il fratello Giuffrè che tentò di proseguire l’attività ma vi riuscì per poco, fino al 1561. A Giuffrè si oppose acerbamente Silvestro Baldassari, che era stato uomo di fiducia di Martino, pure lucchese e parente, se non padre, di un altro Baldassari che eserciterà la mercatura a Palermo più modestamente, da ricordare per una cena in giardino offerta al console.

A questo punto, l’aprire banco a Palermo diviene un’avventura, nonostante la severità delle prammatiche e le fideiussioni sulla carta che avrebbero dovuto coprire i rischi ma nulla coprivano; nel 1547 apre banco Cosimo Xirotta già fallito nel 1550; nel 1550 fallisce Lorenzo Mahona; nel 1557 aprono i Manzoni e falliscono nel 1561; i Viceré prendono l’abitudine di nominare “deputati”, cioè curatori, dei banchi falliti i rappresentanti dei creditori: uno della Regia Corte, uno dei cittadini di Palermo, uno dei regnicoli, uno dei Catalani, uno dei Genovesi; erano gli ambienti che gravitavano intorno ai banchi.

Gruppo Genovese. Ricordo Lorenzo Mahona, dapprima socio del lucchese Giuseppe Minochi (1545-1556); poi Ottobono Lomellino, Giacomo Gastodengo (di Savona, 1583-1591) ed altri che non risultano dai soliti elenchi: il Promontorio, Nicolò Gentile.

La seconda metà del secolo è per la Sicilia economicamente triste: si pagano le conseguenze della politica di Carlo V mentre quella di Filippo II non dà respiro per superare la recessione. La Sicilia continua ad essere considerata un paese ricco soltanto perché dispone di un po’ di grano, ma è ormai impoverita; anche un mutamento di clima, non ancora perfettamente noto, fa la sua parte; persino il tradizionale commercio del frumento diviene pericoloso; nel 1568 riesce a fallire Rinaldo Strozzi, arrendatario della contea di Modica; seguono in serie fallimenti di magazzinieri del frumento; le cose vanno male anche ai Genovesi. Pantaleo Cattaneo, padrone di nave, chiede moratoria; fallisce a Palermo Tommaso Spinola; il nuovo Viceré, marchese di Pescara, non capisce, crede di fiutare la frode, fa morire sotto la tortura il mercante genovese Nicolò Ferreri (1568). Siamo alla vigilia di Lepanto. Nessuno si è mai domandato perché un ricco mercante genovese di Messina sia diventato il famigerato corsaro Cigala.

Ai Genovesi, costituire banchi a Palermo o Messina interessa relativamente, perché essi trattano direttamente col Re in Ispana (i banchieri genovesi di cui ha scritto Ramon Carande). La colonia genovese di Palermo subisce i contraccolpi delle lotte interne a Genova(1575) e della sospensione dei pagamenti ordinata nello stesso anno da Filippo II. Pinelli Adorno, Giustiniani, Cigala, Pallavicino, de Franchi, Cibo, Fornari, Doria, Spinola, Fieschi, Lercaro, Caffaro, Ferrari sono cognomi genovesi, rappresentanti da uno o più individui, i quali non soltanto esercitano la mercatura importando in Sicilia prodotti di tutta Europa e mettendo le mani in dieci modi diversi sulle fonti di produzione di quelli siciliani da esportare; ma esercitano il prestito al governo siciliano muovendo cambi più o meno reali o fittizi tra Palermo e Messina, tra Palermo e le Fiere; il tasso del 13 o 14 per cento, accresciuto dai ricambi per i mancati rimborsi, assicura utili enormi in operazioni che, in definitiva, sono senza rischio.

Essi assumono volentieri l’appalto di “stati” feudali, garantendo ai feudatari dissestati una modesta rendita e pagandone i debiti; in realtà stanno vicini al frumento e penetrano in un mercato più vasto con i prodotti d’importazione.

Inoltre essi agiscono quali rappresentanti dei parenti o soci o amici residenti a Genova ed in Ispana. Infine, stringono da presso e controllano il pubblico denaro all’origine: Nicolò Gentile è banchiere in proprio ed in più “depositario” del denaro della Regia Corte. Gli anni di Lepanto, benché siano stati tutt’altro che floridi per il paese, sono stati gli anni d’oro per alcuni di codesti mercanti con le forniture alle flotte mediterranee appoggiate a Palermo ed a Messina; i Genovesi di Palermo rinnovano la loro chiesa.

Erano incerti, invece, gli affari commerciali propriamente detti, a causa di difficoltà nel recupero dei crediti locali; se ne parlò a lungo nel 1580, quando lo stesso Ambrogio Promontorio, che aveva aperto banco nel 1575, chiese al Viceré la “via esecutiva” contro i debitori e poi una specie di amministrazione controllata; così apprendiamo che il banco Promontorio era stato un affare in famiglia tra i Centurione, i Lercaro, i Lomellino, i Pallavicino, i Rivarola, mentre il titolare era un prestanome.

Ora, e approssimandosi la crisi del 1590, i Genovesi rinunziarono all’attività bancaria; l’ultimo banchiere ligure fu Gastodengo, di Savona.

Sul finire del secolo si affaccia episodicamente un cognome milanese. Già nel 1570 sono a Palermo Giovanni Antonio Crollalanza e Giovanni Ambrogio Soriani; altri entrano nel campo dello zuccherificio. L’ultimo banco di cui si abbia notizia a Palermo è quello dei fratelli Lampugnani (almeno fino al 1602), famiglia attiva ancora oggi a Milano. Seguiranno a Palermo gli Airoldi, che diventeranno nobili siciliani. In questi anni matura l’alleanza tra Genovesi e Milanesi che sarà un dato caratteristico della finanza italiana al servizio della Spagna durante la Guerra dei Trent’anni.

Con la fine del sec. XVI i Liguri non si allontanano dalla Sicilia ma evitano di costituire banchi e si trasformano in finanzieri per i quali il traffico granario diviene una garanzia dei prestiti concessi al Re di Spagna.

Da rilevare un fatto significativo: la Sicilia era stata una “piazza” assicurativa di prim’ordine, nella quale dalla scommessa era nato anche un embrione di assicurazione sulla vita. Nel corso del sec. XVI i mercanti genovesi erano riusciti a conquistare il monopolio delle assicurazioni marittime, assicurandosi tra loro ed assicurando anche estranei al loro gruppo. Con la fine del secolo rinunziarono anche alle assicurazioni che scomparvero dal mercato siciliano e vennero sostituite mediante il frazionamento dei carichi di maggior prezzo su piccole navi. Non siamo ancora in grado di valutare in cifre il mercato assicurativo siciliano e di appurare quindi quale peso negativo abbia avuto sull’insieme dell’economia siciliana la scomparsa delle assicurazioni: basti ricordare che tra le tante polizze stipulate a Palermo in due mesi del 1570, in nove casi i premi furono pagati dagli assicurati a mezzo del banco Gentile: per nove polizze il capitale assicurato superava 64'556 scudi e la somma dei premi i 3'138.

Quali le somme di un’intera annata, per banco e per contanti? Quali le somme di un decennio? Anche la scomparsa delle assicurazioni è un dato da conteggiare ne Seicento.

Ai mercanti genovesi si aggiunsero nel sec. XVI gli scultori liguri( per es. tale Massa che con un amico mercante di marmo riempì di sarcofagi le chiese della costa settentrionale). E non dobbiamo dimenticare qualche svizzero; ed alcuni fiamminghi, per es. a Trapani. Ed è indispensabile accennare che l’Ordine di Malta incominciò a fare affari come una grande banca internazionale e li proseguirà nel secolo successivo.

Che l’economia siciliana nel sec. XVII sia stata diversa da quella del XV è facile a dirsi; assai più difficile è indicare in che cosa consistano le differenze ed ancor più difficile è indicare il perché di codeste differenze. In poche parole, ed aggirando il problema,si può affermare che l’economia siciliana è parte integrante dell’economia mediterranea e che, mutando qust’ultima, deve necessariamente mutare anche la prima.

Guardando in prospettiva è relativamente facile scoprire la differenza essenziale tra il Mediterraneo del XV e quello del XVII secolo. Il Mediterraneo del medioevo e del tardo medioevo era un mare chiuso ed era dominato da Mediterranei; il Mediterraneo dell’età moderna è un mare aperto, dominato realmente da popoli non mediterranei siano essi dapprima Biscaglini o poi Inglesi od Olandesi. Si aggiunga la presenza turca. Anche i Francesi e gli Iberici presenti non sono i medesimi: prima sono Provenzali, di Marsiglia o di Montpellier; più tardi gli ordini arrivano da Parigi, in funzione di una politica europea continentale; prima sono Balearici, Catalani, Valenzani; più tardi gli ordini arrivano da Madrid in funzione di una politica europea od atlantica.

Forse in questa visione più ampia è possibile comprendere i perché delle differenze concernenti il piccolo settore siciliano. Mutati i Francesi e gli Iberici; aggiungi Inglesi, Fiamminghi e Turchi, il Mediterraneo è cambiato, i rapporti di forze economiche sono cambiati, l’economia siciliana deve cambiare.

Due episodi sono significativi: nel 1674 Messina si rivolta contro la Spagna; tre flotte battono il Mediterraneo, quella francese, quella spagnola, quella olandese; una quarta, quella inglese, sorveglia da lontano, pronta ad intervenire e, se ad una pace si arriva, quella di Nimega (1678), vi si arriva anche perché l’Inghilterra lo vuole.

L’altro episodio concerne Malta: l’Arcipelago maltese era stato fino a tutto il Quattrocento uno “scoglietto” sperduto in mezzo al mare; Carlo V nel 1530 lo aveva affidato ai Cavalieri esuli da Rodi, affinché non cadesse in mano ai Turchi, insieme con Tripoli malamente conquistata nel 1510 da re Ferdinando e penosamente mantenuta a tutte spese della Sicilia; verso il 1581, evidentemente su consiglio di mercanti o di navigatori, la regina Elisabetta abbozza un primo vago progetto per imporre su Malta il dominio inglese o forse un condominio anglo-turco.

Quest’ultimo episodio ha un valore politico ed un significato tecnico: infatti per le antiche navi removeliche dirette dallo Stretto di Gibilterra al Levante, gli scali siciliani di Trapani, Palermo e Messina erano stati indispensabili; invece le navi più moderne e specialmente quelle inglesi solidamente costruite potevano puntare direttamente su Malta e fare in qust’isola l’unica tappa mediterranea. Tanto più che l’atteggiamento “antipapista” le metteva al sicuro anche dalla corsa turca o turco-barbaresca (esercitata anche dagli Inglesi che ne insegnarono l’arte ai Tunisini) sicchè non era più necessaria la navigazione costiera sotto la protezione, del resto aleatoria, dei forti e delle torri. Da allora i Maltesi, privilegiati nella provvista di frumento, incominciarono a stabilire loro consolati in Sicilia e vi avviarono anche una forte immigrazione, creando addirittura la città di Pachino (1758).

Resta il fatto che il traffico internazionale di Malta va conteggiato in diminuzione di quello dei porti siciliani.

Tutte queste “novità” in Mediterraneo non erano incominciate con la Riforma inglese né con la scoperta dell’America, ma assai prima, con la fine della Guerra dei Cento Anni che si suole fissare convenzionalmente al 1453. Francia e Inghilterra cessarono di dilaniarsi tra loro e convogliarono tutte le energie nell’espansione oltremarina, avendo per ora come meta il Levante.

In Sicilia è facile scoprire i primi effetti già dal tempo di re Giovanni (1458-1479), fratello e successore di Alfonso il Magnanimo;arrivano le galeazze di Jacqes Coeur, vengono istituiti consolati francesi a Palermo e Messina, consolato inglese a Messina.

Venezia e Genova non si oppongono; i Valenziani, esausti dall’appoggio finanziario concesso a re Alfonso, stanno a guardare; i Catalani, i soli forse in grado di percepire il pericolo, pensano ad altro e si esauriscono nell’inutile rivolta di Barcellona contro Giovanni e Ferdinando. Il risultato è che negli anni tra il 1521 e il 1538, il 58,4 per cento dei panni venduti a Messina sono di provenienza inglese, il 6,9 per cento sono di provenienza fiamminga; quelli iberici scendono al 22,5 per cento e quelli italiani al 3,4 per cento; i rapporti sono differenti a Palermo, ma l’invasione nordica è incontestabile in tutta la Sicilia. Qualche mercante inglese si sposa a Messina e vi abita.

Nel sec. XVII il “grande affare” siciliano sono sempre i panni ma all’inizio del secolo si fanno rari a Palermo i panni inglesi e riprende quota l’importazione di catalani e maiorchini insieme con l’arrivo, ad opera di Genovesi, di articoli nuovi come i tessuti “cambrai” o “calambrai” di Polonia e l’oro falso di Fiandra. L’elenco merceologico si fa sempre più ricco: arriva il caffè, arriva il tabacco del Brasile (nave livornese, mercante francese), e poi le aringhe, il baccalà (nel sec. XVIII anche lo stoccafisso e il formaggio inglese a Messina); ed aggiungiamo legname in tavole dalle Fiandre e da Venezia; e chiodi di cento varietà e rame e prodotti chimici e zucchero di Spagna e di Venezia. Di tutto ciò parte viene riesportata per Napoli. Notiamo ancora tele indiane stampate, fazzoletti stampati, tele mussoline, fustagni di Malta, stagno e peltro, ceramiche di Faenza. E cristallerie e ferro.

Anche l’elenco merceologico delle esportazioni si arricchisce: la Sicilia vede aumentare la popolazione e quindi il consumo di frumento e perde il quasi monopolio dell’esportazione di cereali e zucchero e, con l’arrivo in Mediterraneo del merluzzo, secondo l’importanza il tonno ed i suoi pesci salati; aggiunge manna , sommacco, olio di lino penne di gallina, stracci vecchi a tonnellate, abiti confezionati, pettini, quadri di santi e paesaggi, persino libretti delle storie di Santa Rosalia; e poi mobili di ebano e tartaruga; e pellicce (volpi, martore, conigli, “neonati”, foche chiamati vitelli marini); e poi gioielli e argenterie (tra l’altro per Roma una statua della Madonna del esodi 12 libre).

Alla vecchia formula medievale in cui il frumento equilibrava i panni, la Sicilia aveva aggiunto da tempo un terzo fattore, la seta che Palermo nel ‘600, esportava vincendo la rivalità di messinese, a diecine di migliaia di libre, grezza, operata o tessuta anche se in realtà proviene in gran parte dal territorio gravitante su Messina, come Taormina, Milazzo, Naso. L’esportazione della seta e la conservata autarchia alimentare consentono alla Sicilia, almeno sino alla metà del ‘600, quel tanto di consumismo che si manifesta attraverso il lusso e l’importazione di prodotti tutt’altro che indispensabili o di altri che prima venivano lavorati localmente (per es. telerie ed orbaci).

Il setificio palermitano, che del resto verso il 1764 verrà ancora apprezzato dal lucchese Arnolfini, vende in Sicilia e riesce ad esportare prima della data spartiacque del 1674; produce con una nomenclatura alla quale oggi non sappiamo dare un significato preciso: lanetta di Santa Rosalia (tessuto misto di lana e seta); “scomiglione” (da “scuma”, schiuma, da intendere un tessuto vaporoso, spumeggiante); manto di cattivi; spoglia di serpe a colori; lama d’argento; taffettà, cataluffo, tabbì, terzanello; e poi bottoni d’argento e seta.

L’esportazione di calze ha luogo in quantità tali che dobbiamo supporre una produzione a livello organizzativo più alto del semplice artigianato ed è probabile che ulteriori ricerche fanno scoprire i nomi di imprenditori; calze di seta nere e di vari colori, trasparenti e forti; per donna, uomo e bambino; calze di filo; vengono imbarcate a centinaia di paia per “fuori regno” o per Maiorca.

Nei soli giorni dell’11 al 24 maggio 1661 e soltanto da Palermo partirono per l’estero libbre 48'836 di seta grezza, qualcosa come 15 tonnellate e mezza; questa cifra valga a dare una misura approssimativa degli affari che la seta comportava.

Ai traffici che, per quanto concernessero articoli non usitati nel medioevo, dobbiamo considerare come normali, si aggiunge nel ‘600 quello dei metalli preziosi, in lingotti e in monete: le monete provengono da Pantelleria, dalla Francia, da Genova,

dalla Spagna, si muovono sul mare tra Messina, Palermo e Trapani, vanno da Est ad Ovest e viceversa, in un “va e vieni” di cui ancora non conosciamo tutti i motivi.

Sono ogni anno centinaia di migliaia di reali, di zecchini, di scudi, di monete francesi, che talvolta si fermano per mesi o per qualche anno in un banco o in una “Tavola” e poi scompaiono. Finiscono a Tunisi od Algeri come bottino ? a Malta come compendio di quei grossi affari internazionali che l’Ordine imbastisce per finanziarsi? Finiscono in Levante o oltre? Tutte le ipotesi sono valide, i documenti tacciono.

Il quadro ottimistico sopra delineato sembra contrastare con le gravissime difficoltà finanziarie del governo siciliano al tempo della Guerra dei Trent’anni (1618-1648) che obligarono a studiare la possibilità di consolidare il debito pubblico e metterne in circolazione i titoli come una specie di carta moneta (1624). Può darsi che il contrasto sia appariscente perché non conosciamo bene il rovescio della medaglia; può darsi che gli eccessi di fiscalità annullassero i benefici arrecati dalle esportazioni; può darsi che non siamo ancora in grado di valutare con numeri le varie fasi in cui sarebbe ragionevole suddividere le vicende economiche: fino alla fame del 1590; fino al 1615 circa; fino al 1650 circa; fino al 1670. Tali date potrebbero indicare fasi di recessione e di ripresa, chiuse ai due estremi da due grandi carestie: l’ultima vide la Sicilia costretta ad importare frumento.

Di codeste vicende economiche si indicano come protagonisti Inglesi, Fiamminghi od Olandesi, Francesi, Genovesi, Lucchesi, Fiorentini entro certi limiti; ma, al contrario di quanto avveniva nel tardo medioevo, non vi è più un grande mercante che da solo sia il simbolo di un’epoca o rappresenti una “fase” dell’economia. Personaggi o figure o “eroi” come Francesco di Marco Datini o i Peruzzi o i Bardi o come un Simon Ruiz o come , in Sicilia, un Aglata o un Abbatelli, non si presentano più; l’elenco delle merci è più ricco e variato ed ugualmente più varia è l’immigrazione di forestieri in Sicilia: da Genova e da Lucca vengono mercanti muniti di capitali e rappresentati nelle grandi Fiere ma vengono anche poveri, sicchè ogni uomo che emerge nei grandi affari si eleva su una massa di minori. Barcellini, Costa, Frignone, Pallavicino, Ravaschieri, Pinelli, Adorno, Centurione, Spinola sono ancora cognomi genovesi; ogni cognome rappresenta molti personaggi, di ciascuno dei quali è impossibile seguire tutti gli affari ed i matrimoni, se non si voglia di ognuno stabilire l’albero genealogico ed uno schedario. Per i Genovesi gli affari sono pressocchè i soliti ma ora si aggiunge il traffico dei prestiti e delle lettere di cambio tra Palermo, Genova e Milano per conto del governo; allo strapotere finanziario quei mercanti fanno seguire il recupero dei crediti da un governo impotente; ed allora si assiste all’acquisizione di uffici o di posizioni che dureranno fino al XVIII e al XIX secolo; faccio un solo esempio: in rimborso dei crediti, i Pallavicino diventano padroni di tutte le Isole Egadi e relative tonnare.

Nei soli anni tra il 1629 e il 1643 dalla Sicilia partono per Genova e Milano 6'858'612 scudi (il governo ne aveva domandato più di 8 milioni): li ricevono Durini, Airoldi, Odescalchi, Pesenti, Pallavicino, Spinola, Doria, Ferrari, Pozzo; li mandano da Palermo Arata, Bennati, Benzo, Frignone, Carnesecche, Castelli, Costa, Costanegra, Curto, Giusti, Isolabona, Mannelli, Zati, Massa, Oldoini, Pallavicino, Scrivani, Colnago e, unico siciliano, Carlo Valdina il quale probabilmente agisce per conto dell’Ordine di Malta. Alcuni di quei cognomi genovesi si ritrovano coevamente in Calabria.

Tutti costoro figurano aver prestato, mentre in realtà hanno anticipato con minimo rischio ed a breve termine, con la garanzia delle “tratte” di grano o delle “tande” dei donativi vecchi e nuovi che intanto opprimono l’isola.

Monti sono i Bambacari, gli Arnolfini, i Burlamacchi lucchesi, tra Palemo e Messina, mercanti che non raggiungono la statura dei Genovesi. Più modesti i Francesi, che portano monete ed esportano seta, come un Onorato Bec, il cui nome non dice molto; ma c’è anche un Enrico Audibert, certamente francese, che esporta seta fingendosi maltese.Tra i minori compratori di seta troviamo nel tardo Seicento Giacomo Altoviti, Patriarca di Antiochia, e Leone Moise armeno, che si nasconde dietro le spalle di un fiammingo e che ricorda il traffico tra la Sicilia e Livorno.

Il puro caso di una documentazione conservatasi meno rara fa spiccare un uomo, Ettore Van Hattoven, noto attraverso gli archivi di Messina e Palermo e della città di Anversa, rappresentante della “firma” De Groot (latinizzata in De Grossis) il quale risiede a Messina ma traffica su tutta la costa settentrionale dell’isola: nel 1631 manda a Palermo da Messina un tappeto e si dice maltese; nel 1638 manda alcuni quintali di pepe; nel 1648 (si rilevi l’anno) manda 493 pezzi da 8 reali e 5200 onze in monete d’argento sulle galere di Sicilia; nel 1651, sulla galera Doria, capitan Pasquale Brignole, ne fa arrivare 4000 e con lo stesso mezzo i Bambacari e Bandini lucchesi mandano 1389 onze; nel 1654 importa a Messina e ridistribuisce su Palermo alcune pezze di “panni riversi” di Roma; nel 1655 manda 770 onze, nel 1656 ne manda 1200…

Egli non è che uno tra i molti fiamminghi (mantengo la terminologia siciliana del tempo nella quale fiamminghi erano tutti i provenienti dai Paesi Bassi) che ancora trovavano conveniente commerciare in Sicilia: nel 1644 si riconosceva ufficialmente nei Paesi Bassi che “la navigazione oltre lo Stretto nel Mediterraneo era la principale tra tutte le altre navigazioni” e nel 1649 Nicolaus de Graaf con la sua nave toccava Messina e ne lasciava il ricordo nel suo giornale di viaggio. Egli precedeva l’ammiraglio De Ruyter.

Anche se in parte nuovo è l’elenco delle merci trattate, se lo zucchero si riduce a ben poca cosa all’esportazione, se del frumento la Sicilia non ha più il quasi monopolio, se i mercanti forestieri sono di tipo diverso ed hanno un modo d’agire diverso, una caratteristica rimane tuttavia costante dal Trecento a tutto il Seicento e oltre; nessun forestiero prende iniziative produttive, nessuno “incentiva” le produzioni locali, tutti hanno interesse ad esportare materie grezze od appena alla prima fase dell’elaborazione (vedi la seta) per importare, forse con una forma d’imposizione, manufatti dei loro paesi d’origine o, tutt’al più, altri prodotti acquisiti altrove in cambio di manufatti; si contano sulle dita i forestieri che abbiano stabilito manifatture in Sicilia ( il fenomeno è comune alla Calabria): nel Trecento un genovese crea una manifattura di panni a Palermo, col finanziamento dell’università; nel Cinquecento un Nobile, lucchese, ripete il tentativo con le medesime modalità e con un successo lievemente migliore; il Cenami, unico,è armatore di due navi; nel Quattrocento un pisano ed un veneziano producono zucchero, nel Seicento un paio di genovesi e qualche lombardo; aggiungo una ferriera, di Sanmassimino e Nobile lucchesi, cui subentra Antonio Lomellino genovese (1561-1562). Per il resto, essi non fanno altro che importare ed esportare, lasciando agli elementi locali l’iniziativa e la responsabilità della produzione. Tale circostanza avrà ripercussioni anche a lunghissima scadenza.

Nonostante il favore del governo, si esaurisce nel mero velleitarismo ogni tentativo di realizzare in Sicilia l’insegnamento di Botero, affiancato da nostri memorialisti; ne rimane un lungo elenco di brevetti e di privative senza seguito, cui hanno contribuito Toscani, Lombardi, Veneziani, Napoletani, Spagnoli: da un fornello che risparmia il combustibile a nuovi metodi di semina,a nuovi metodi per la produzione di burro e formaggio, alle macchine per il sollevamento delle acque.

Nell’elenco delle merci, che ognuno può arricchire con la fantasia, sono da tener presenti due voci, generalmente non considerate. Articolo nuovo del commercio sono i libri, già segnalati da Antonio Serra come voce importante del passivo di Napoli e non meno importanti per la Sicilia, stando agli inventari, inediti purtroppo, delle librerie private; sono riconoscibili edizioni venete e toscane, francesi e olandesi; gli stessi autori siciliani si rivolgono all’editoria fiorentina o, alla pari coi Calabresi, a quella veneziana. Non possediamo cifre sufficienti per valutare tale importazione che tuttavia fu cospicua e che produsse due effetti deleterii:soffocò la cultura siciliana anche storico-politica e provocò la distruzione dei grandi tabulari di pergamene che i mercanti di libri, un veneziano

per es., compravano a peso per rilegare volumi.

Altro articolo nuovo sono le opere d’arte, acquistare all’estero o prodotte in Sicilia da forestieri. Ancora ai primi del Cinquecento pitture fiamminghe arrivano in Sicilia in pagamento dello zucchero insieme con una quantità strabocchevole di arazzi; gli arazzi del conte di Cammarata, nel suo palazzo di Palermo, dei quali abbiamo un sommario elenco redatto dopo la sua decapitazione nel 1523, costituivano una raccolta di cui oggi nessun museo del mondo possiede l’uguale; per Messina possiamo citare gli arazzi con la vita di Achille, su cartoni di P.P. Rubens e gli arazzi di “caccia, animali e boscaglia” del palazzo Ruffo; ancora per Palermo potremmo citare arazzi minori commissionati appositamente nelle Fiandre.

A Palermo arrivo, insieme con altre pitture, un trittico (esiste ancora) di Jan Gossaert, detto Mabuse, e molte tavole fiamminghe erano raccolte nel palazzo Ruffo di Messina. Tutto ciò presuppone un traffico speciale e l’attività di “mercanti d’arte” tra i Paesi Bassi e la Sicilia, tra Roma e la Sicilia.

A parte i mercanti, il mercato siciliano era abbastanza florido da attirare gli artisti: la pittrice Sofonisba Anguissola visse a Palermo col primo marito fino al 1580 e poi col secondo, Orazio Lomellino, e vi morì nel 1626 dopo avervi conosciuto Van Dyck. A Palermo vissero e dipinsero molto Van Dyck e Matteo Stomer; a Messina Abramo Casambrot; vi sono marine di Breughel, anche nella Galleria di Utrecht, che si vogliono ispirare allo Stretto di Messina. Si ricordano presso i Ruffo quadri non più esistenti del Vouet, del Poussin, di Tiziano, di Breughel. Il che comporta commercio e trasporti e, aggiuntevi le fiorenti scuole artistiche locali, una disponibilità di denaro rivelata anche dall’attività edilizia pubblica, religiosa e privata. I milioni di scudi spesi dalla Sicilia, senza contropartita, per la Guerra dei Trent’Anni, depongono nel medesimo senso. La “crisi”, che senza dubbio investì la Sicilia, deve spostarsi alla seconda metà del ‘600, verso la Guerra di Successione Spagnola,all’inizio del sec. XVIII.

Nella “crisi”, ciò che fa maggiormente impressione è la preponderanza dei forestieri e la ritirata, l’esaurimento dei ceti imprenditoriali di origine locale o, in altre parole, dei patriziati urbani (alludo specialmente a quello messinese), in parte trasformati in patriziato blasonato che poco aveva ormai di feudale, in parte in titolari di rendite pubbliche falcidiate e dalla svalutazione della moneta e dalla riduzione anche nominale delle rendite stesse, ridotte prima al 5 per cento e poi ulteriormente dal mancato pagamento. Tutti i capitali investiti nel debito pubblico delle università demaniali o in prestiti ai signori di “stati” feudali vennero totalmente perduti; si ignora se la città di Palermo abbia continuato a pagare; Messina all’inizio del sec. XVIII ridusse gli interessi dei “bimestri” al 2,33 per cento e quelli del “Regio Campo delle Vettovaglie” a poco più dell’1 per cento. Emblematica è una tabella statistica del 1664 (precede di dieci anni la rivolta messinese) da cui risulta che del commercio internazionale della seta appena il 7,98 per cento era rimasto in mano a pochi messinesi in quote minime mentre la maggior parte era in mano a Lucchesi, Genovesi, Veneziani, Fiamminghi, Inglesi, Francesi; più tardi il governo stesso condusse un’inchiesta sugli Inglesi e sui Fiamminghi e scoprì che quelli residenti a Messina erano soltanto”commissionati” di grosse ditte residenti altrove alle quali andavano tutti gli utili ignoti, mentre i commissionati guadagnavano l’8 per cento che per gli Inglesi poteva ascendere a più di 10'000 scudi ciascuno.

Agli Inglesi era ricaduto altresì il traffico tra Messina e il Levante, poiché qualche nave inglese faceva ancora scalo a Messina sulla rotta Londra-Costantinopoli (mastro di una ditta ignota, del 1647). E’ soltanto erudizione aneddotica ricordare i lucchesi Orsucci, Bandini, Bambacari;gli inglesi Mead Pascher e Chamberlayn; il francese Valigran, i fiamminghi Van Hattoven o Vandembroch;essi, come acutamente osservò allora il principe di Niscemi, non erano protagonisti con autorità decisionale ma commissionati, e le direttive erano di origine esterna.

A maggior chiarimento di quanto precede, si ricordi che i Genovesi erano rimasti mercanti perché si occupavano sempre di frumento, ma avevano assunto sempre più la fisionomia di finanzieri internazionali; certamente non abbandonarono il settore siciliano, ma questo diventò per loro una parte piccola dell’immenso spazio affaristico che andava dalla Spagna all’America ed all’Europa settentrionale ed orientale. Si ha l’impressione che il settore siciliano venga a poco a poco emarginato non soltanto dai Genovesi che vi hanno il predominio, ma anche dai Nordici stessi; è lecito rilevare, per es., che navi dei Paesi Bassi continuano per tutto il Seicento ad esportare zucchero e prodotti zuccherini da Palermo(produzione anche di Avola); ma i quantitativi sono modestissimi, neanche marginali in confronto col traffico che ne faceva la Compagnia delle Indie Orientali. Per la Sicilia si tratta di un mutamento di posizione; nel tardo medioevo era ancora protagonista o comprimaria nell’economia europea; dal sec.XVII va scendendo, sino a ridursi al rango di comparsa muta.

L’isola dovrà attendere l’insediamento della dinastia borbonica per liberarsi del peso dei finanzieri genovese e lucchesi, per ritrovare incentivi e spinte in senso autarchico, per riacquistare una fisionomia culturale propria attraverso lo studio della storia e delle leggi.

Il quadro generale sopra disegnato deve essere arricchito con piccoli quadri che lo contornino, perché molti sono gli episodi significativi ai quali, fino ad oggi, non è possibile dare un posto adeguato in una sintesi storico-economica; sono aneddoti che è necessario conoscere perché lumeggiano punti oscuri, anche se gli studi in proposito sono appena iniziati.

Aneddoto per ora, ma dovranno in futuro costituire un capitolo, sono i rapporti con la Tunisia e l’Algeria. Segnalo un personaggio, Mamet Corat. Uomo di fiducia dell’Inquisizione di Sicilia a Tunisi, fa la spola tra Palermo e Tunisi con nave propria, trasportando merci, “cattivi” e schiavi: è specializzato in riscatti da una parte e dall’altra, in concorrenza con Livorno e coi Genovesi di Tabarca; presta denaro altissimi a coloro che non ne hanno a sufficienza per riscattarsi; compra e vende navi.

Sua moglie si chiama Salima, sua suocera Messauda, ma il cognome delle due donne era Berlinghieri, due palermitane rinnegate che col marito e genero trafficavano tra Palermo e Tunisi. Intorno a questi tre personaggi equivoci fiorisce un commercio di cose, di uomini, di denari (1608-1613).

Corsaro tipico invece Issuf Rais, detto dagli Italiani Uguardo Inglese, che si chiamava Ward; aveva in moglie una Iessemina che, sotto il poetico nome musulmano di Gelsomina, nascondeva quello più prosaico di Francesca Serrano da Palermo. Issuf attraverso Giovanni Antonio Serrano, cugino della moglie, trattava i propri affari in Sicilia; ancora nel 1611 giurava sul Vangelo. E la famiglia Serrano aveva a Palermo una propria agenzia di riscatti attraverso la quale alcuni cattivi vennero liberati senza passare attraverso il Consolato di Francia a Tunisi.

Figure tipiche di una mercatura che vorrei definite di mercato nero, che fioriva in Mediterraneo nonostante la cortina di ferro tra la Croce e la Mezzaluna, nonostante l’Inquisizione, anzi con la connivenza dell’Inquisizione che, attraverso figure del genere, riusciva a riscattare qualche sfortunato. Un traffico ignobile ai nostri occhi, ma attività economica di qualche rilievo ai suoi tempi, con un servizio di informazioni sugli schiavi e con la possibilità, per noi sorprendente, di far circolare denaro e titoli di credito tra le due sponde del Canale di Sicilia. Occorreva ricordare ciò almeno incidentalmente, perché traffici del genere , integranti quelli analoghi di Livorno e di Tabarca, riempivano i vuoti lasciati dal commercio ufficiale alla luce del sole. Erano individui situati a metà strada tra il farabutto e l’uomo d’affari e non è detto che la semente sia del tutto scomparsa.

Altro fenomeno nuovo del tardo Seicento e del Settecento, l’arrivo e la stabilizzazione a Palermo ed a Messina di mercanti greci, per lo più in gruppi familiari, che, con la qualifica di pubblici negozianti, colmano i vuoti lasciati dai mercanti locali e dagli altri forestieri; molti sanno scrivere in italiano; sono quelli che, con attributo non sempre laudativo, due generazioni dopo saranno chiamati “levantini”.

Li conosciamo per Messina e per il 1714; cito Giovanni di Nicolò, Giovanni Papà importatore di pellami, Stefano Strati proveniente da Corfù, Demetrio Theodori venuto in Sicilia con tutta la famiglia, Nicolò Diano con numerosa famiglia, Esausto Basili e famiglia, Giorgio Zangara di Candia, Costantino Papà con famiglia, Tommaso La Rocca dell’isola di Stagira e famiglia; Silvestro Costarelli con moglie, quattro figli, tre figlie, suocera, un servo, una schiava, immigrato da tempo perché risulta già proprietario di immobili; aggiungo un Costantino Calarone detto Angeli, maestro di scherma.

Tutti costoro si raggruppano immediatamente nella parrocchia di San Nicolò Li Greci, sono iscritti nella loro confraternita di San Nicolò e costituiscono forse una migrazione piuttosto che uno spostamento di uomini d’affari. Anzi, se stiamo ad alcuni cognomi, non sono nemmeno tutti Greci: il Di Nicolò è probabilmente un raguseo, il La Rocca potrebbe essere di origine messinese, il Costarelli potrebbe essere di origine italiana; si ha l’impressione che i cosiddetti Greci siano in parte “di ritorno”, cioè emigrati o discendenti di emigrati nelle isole greche, ora fuggiti innanzi ai Turchi. Senon vado errato, dovrebbero aver assunto la funzione che più anticamente avevano gli Ebrei – e di qui l’antipatia verso i “levantini” – quella cioè di inserirsi in tutte le attività nessuna esclusa, riuscendo a trarre utili anche da commerci che altri disprezzavano e moltiplicando i guadagni non tanto attraverso i grandi affari quanto piuttosto attraverso un polverio di piccoli affari.

Un altro fatto, non del tutto nuovo, ma di proporzioni inattese: la corrente migratoria dalla Liguria verso la Sicilia continua, ma scompaiono del tutto le grandi famiglie; gli Spinola, per es., sono ricordati perché Francesco Maria, residente a Genova, è titolare di un rendita sull’università di Messina derivante da un capitale di onze 9333.10, investito nel sec. XVII, che dovrebbe rendergli oltre 466 onze e gliene dà appena 217 o poco più (2,33 per cento). In suo nome agisce Placido Arena e Primo, negoziante locale. Così incidentalmente apprendiamo che anche una parte dei capitali genovesi venne falcidiata nella bancarotta.

In luogo dei grandi nomi, troviamo un Francesco Maria Chiodelli, un giovanotto che arriva con un fattore e un servo genovesi; il fratello maggiore Michelangelo resta a Genova; gli affari sono modestissimi. Un cognome nuovo anche da Venezia: una piccola tartana appartiene per 1/3 a Rosario Ligini e per 2/3 a Francesco Nascimenti veneziano. E c’è un Marzio Morsilli genovese, povero, solo, ragazzo di 19 anni, predestinato a sposare una vedova, anche con figli, pur di avere una casa e la cittadinanza messinese. Antonio Canetti veneziano ha sposato una messinese, attratto da una rendita sul Regio Campo che dovrebbe fruttare onze 17.10 (capitale on. 346.10, ma rende 1,33 per cento). Dei molti Garibaldi, anche del sec. XVII, ricordo una Angela che ha sposato un messinese. Nel Settecento arrivano da Genova i primi Dagnino e gli scrivani li chiamano D’Agnino; costituiranno il fior fiore degli immigrati del sec. XIX.

Credo di non errare se affermo che la nuova immigrazione ha mutato carattere, è divenuta assai più modesta: i Lucchesi, venuti orgogliosamente nel secolo XVI anche come capitalisti e banchieri in rapporti con le maggiori Fiere, sono rappresentati da alcuni crediti, che il governo borbonico contesterà, e da un sarto;diverso è senza dubbio il mercato siciliano ma diversi sono anche, per il ceto sociale da cui provengono, i nuovi immigrati.

Non ci stupirà dunque il fatto che a Messina un’antichissima parrocchia venga chiamata di San Pietro e Paolo e che pochi raramente si ricordino di aggiungere “dei Pisani”; che la via di San Giovanni dei Fiorentini sia ricordata eccezionalmente – eppure Messina, per le sue simpatie poltiche, era stata l’unica città siciliana che avesse una via dei Fiorentini - ; che l’antica via de Camelia, di Camogli, che ricordava i de Camelia venuti nel XII e nel XIV secolo, venisse ormai chiamata Via dell’Uccellatore.

Il medioevo non era più nemmeno un ricordo, era scomparso. Da dove proveniva Diodato Noresini, certamente non siciliano, importatore di vetrerie e di ceramiche? Anche l’immigrazione professionale è nuova: Antonio Bernardinelli medico viene da Roma.

Formaggio inglese, fustagno di Malta, aringhe, caviale, baccalà, stoccafisso, telerie inglesi, francesi e svizzere, vacchette di Smirne, burro di Levante, cacao, mercanzie nuove portate da mercanti nuovi.

E gli schiavi e le schiave, bianchi, negri o turchi? Non so chi ne facesse commercio nel primo Settecento. Erano numerosi tanto da doversi considerare come una migrazione forzata. Portavano il cognome del padrone che mantenevano dopo l’eventuale manomissione. Le più belle o più fortunate ottenevano la liberazione se restavano incinte del padrone e trasmettevano il cognome alla creatura insieme con un piccolo patrimonio in gioielli o in immobili; figli naturali fortunati ai quali nessuno rimproverava l’origine, più fortunati dei figli naturali di persone libere che venivano chiamati “figli dell’ospedale” o “dello Spirito Santo”. Nessuna preclusione contro di loro.

Domenico Cacia, schiavo manomesso della famiglia Cacia di mercanti di media levatura, a soli 40 anni aveva moglie, tre figlie, un figlio, teneva in casa un nipote dello stesso cognome, disponeva di una “serva” immigrata da un paesetto e dunque libera, possedeva ben 50 onze di argenteria e oro (equivalenti a circa 4 chili d’argento) ed era qualificato “pubblico negoziante”. Da schiavo a borghese benestante in pochi anni; ai discendenti, confusi coi Cacia di origine libera, nessuno mai rimprovererà la schiavitù originaria. Anche Domenico Cacia va contato tra i mercanti forestieri in Sicilia.

Le periodizzazioni rigorose costituiscono sempre un pericolo; ma è lecito scrivere che il Settecento fu per la Sicilia il secolo del boom della soda, di quella cenere di soda già commerciata col nome di “cenere d’Alessandria” e che i mercanti europei, dato lo sviluppo delle manifatture di vetro e sapone, cercavano in grande quantità: la Sicilia, intorno al 1775, ne esportava per 80 o 90 mila cantàri, tra 6400 e 7200 tonnellate, per un valore di circa 70'000 onze; venivano a comprarla mercanti francesi e inglesi: Tough, Bouge, Philip, Caillol-Nicoud, i fratelli Gamelin; un Gamelin era console di Francia a Palermo.

Narrando fatti e scrivendo su personaggi, ho cercato di cogliere differenze, cioè di indicare un divenire. Le differenze sono evidentissime per chi osservi isolatamente figure di mercanti singoli, come i fattori del Datini alla fine del Trecento, come Aloisio Sanchez della fine del Quattrocento, come un Pallavicino della fine del Cinquecento o come un Chamberlayn del primo Settecento. Nell’insieme mercanti-ambiente, le differenze sono meno agevoli a scoprirsi perché le novità vanno maturando lentamente; col passare di ogni generazione tutto sembra restare identico ed invece tutto va mutando anche perché muta l’atteggiamento dell’opinione pubblica di fronte al mercante forestiero.

Ai tempi di Carlo V o di Filippo II i grandi mercanti erano anche i finanziatori dei Sovrani, dinanzi ai quali Imperatore e Re si cavavano la berretta. Per Marc’Antonio De Santis, mercante napoletano dell’inizio del sec. XVII, i mercanti stranieri erano addirittura dei benemeriti, specialmente se importavano manufatti procurando al governo il beneficio dei balzelli doganali. A lui rispondeva immediatamente e direttamente Antonio Serra (1613) indicando nei forestieri una delle cause della povertà del Reame di Napoli; gli rispondevano implicitamente i memorialisti siciliani coevi invocando provvedimenti schiettamente autarchici. Un secolo e mezzo dopo, Bernardo Tanucci scrivevà la famosa invettiva ricordata anche dal Croce:” il commercio libero è francesismo e dogma;… il commercio è monopolio dei ladri danarosi, cioè dei mercanti, e il monopolio è carestia, o sia prezzo alto della cosa; sicchè pel povero popolo il commercio libero, padre del monopolio, viene a essere avo della carestia”.

Tale mutamento dell’opinione pubblica di fronte al mercante coincide con l’arco discendente della parabola dei mercanti forestieri in Sicilia. La ricolonizzazione ligure della Sicilia avrà una risposta con l’Ottocento e col nostro secolo. I mercanti inglesi e francesi faranno parte integrante del nostro Risorgimento.

                                                                                        

da Storia della Sicilia Vol. 7

Editrice Storia di Napoli e della Sicilia 1979

Ultima modifica il Sabato, 22 Ottobre 2016 13:59
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