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AL TEATRO GRECO DI SIRACUSA

Siracusa Theatre Panoramic rid

 

- di Giuseppe Rando -

Giuseppe Rando2

Sabato scorso, il teatro greco di Siracusa era colmo come non mai in ogni ordine di posti. Guardavo dal basso quella compatta, alta, enorme parete concava di volti e di corpi variopinti, sereni di uomini, donne, giovani, vecchi e rifacevo tra me e me gli stessi pensieri che faccio da alcuni lustri, in quello stesso luogo, qualche minuto prima dell’inizio della tragedia (quest’anno, Elettra di Sofocle): «Venticinque secoli fa, su questi gradini sedevano altrettanti spettatori di ogni età, sesso e provenienza; assistevano allo stesso spettacolo; provavano gli stessi sentimenti di ammirazione-stupore-odio-amore che noi stessi oggi proviamo. Evidentemente, di fronte alla poesia, all’opera d’arte, il tempo si annulla, è nulla. E io sono – ahi!, l’essere - identico a un uomo di venticinque secoli fa. Io qui sono un uomo di venticinque secoli fa. Talché, se qualcuno mi chiedesse, in questo momento, quanti anni ho, risponderei duemilacinquecento anni (e quello chiamerebbe, per telefono, uno psichiatra del TSO o mi denuncerebbe ai carabinieri come terrorista: non si sa mai)».

Stavolta, mi sono passati nella mente, velocemente, i filosofi dell’estetica, da Platone a Croce ad Heidegger, ma mi sono fermato sul solo pensiero dominante: la poesia è eterna, il tempo è nulla, l’uomo, tolti i mutamenti accidentali, è l’Uomo (di ieri, di oggi e di domani).

È stato come toccare con mano, a questo punto, la contraddizione fondamentale: cambiamo e siamo sempre uguali, ma quello che non muta in noi è certamente migliore di ciò che muta, ancorché ce ne siamo dimenticati, oggi più che mai.

Ma intanto incominciava la recita di Elettra e io ritornavo beato nel quinto secolo avanti Cristo.

La tragedia è stata interpretata-rivissuta egregiamente dagli attori e da Gabriele Lavia, consapevole, lucido regista. Bravissima, tanto infelice-debole-dolente quanto coraggiosa e inflessibile, Federica Di Martino nella parte della figlia Elettra, che vive per vendicare il padre, massacrato, al suo ritorno in patria, dalla madre Clitennestra e dal suo cugino-amante Egisto. Nel polo dell’accettazione, della rassegnazione, dell’opportunismo, travestito da realismo, gravita Crisotemi-Pia Lanciotti, che cerca di convincere la sorella Elettra a desistere dai suoi propositi di vendetta, per non rischiare di perdere la vita. Strepitosa Maddalena Crippa-Clitennestra, moglie traditrice, spregevole ma autentica nella rivendicazione dell’uccisione del marito Agamennone, madre disumana nel rancore esplicito provato per i figli (Elettra ed Oreste) avuti dal marito, e solo per un attimo sfiorata dall’amore per la figlia Ifigenia, sacrificata agli dei da Agamennone, prima della partenza per Troia.

È l’eterna, attualissima storia dell’odio che distrugge l’amore e altro odio provoca ininterrottamente, senza requie, senza alcuna altra composizione che non sia quella, momentanea, della vendetta: la tragedia si chiude con l’uccisione di Clitennestra e di Egisto, per mano di Oreste, viepiù spalleggiato dalla sorella. Quanto dire: l’umanità messa a nudo, nella sua pulsione distruttiva e nella sua intrinseca fragilità, senza alcuna mitigazione religiosa (Cristo sarebbe nato quattro secoli dopo).

Colpisce il linguaggio di Sofocle, perfettamente reso nella traduzione di Nicola Crocetti, per la sua crudezza («Colpisci, Oreste! Colpisci ancora!», dice Elettra al fratello che sta uccidendo la madre), per la sua carnalità-sensualità, senza reticenze («Ti porti a letto l’assassino di mio padre»), e affascina profondamente gli spettatori lo stile sospensivo e fortemente oppositivo, in climax ascendente, degli interventi dei protagonisti e dei loro diretti antagonisti.

La scena di Alessandro Camera ha felicemente sottolineato la modernità del testo sofocleo, facendo a meno di tutti gli orpelli “finto-realistici” della reggia degli Atridi. Le musiche di Giordano Corapi si sono perfettamente sintonizzate con l’interpretazione “moderna”, attualizzante della tragedia.

Il pubblico ha seguito commosso, in partecipe silenzio, lo svolgersi dei fatti. L’ applauso interminabile, ripetuto più volte, è stato anche liberatorio.

La domenica successiva, nel teatro greco di Siracusa è stata rappresentata Alcesti di Euripide, nella traduzione di Maria Pia Pattoni, con la regia di Cesare Lievi, con le musiche “popolari” – la pizzica e i canti funebri delle donne salentine - di Marcello Panni e con la scena ultramoderna di Luigi Perego.

Di questa tragedia - tra le più ambigue e discusse del teatro classico greco, anche per la sua insolita struttura che contamina lo stile tragico della prima parte con quello comico della seconda parte (a partire dall’irruzione di Ercole sulla scena) - il regista ha voluto dare una sua personale interpretazione, aggiungendo all’inizio una cerimonia funebre moderna, cristiana, con tanto di musica sacra e di croce lignea, nera, che ricompare nella scena finale in cui Eracle la depone (meglio la getta) su un giaciglio e si riprende la mazza boschereccia.

Quanto dire che qui i pensieri dello spettatore sono provocati direttamente dal regista, il quale, per sua esplicita dichiarazione, legge la tragedia come il testo in cui Euripide nega o mette in dubbio la possibilità della resurrezione: si guardi, in altri termini, lo spettatore – suggerisce il regista - da interpretazioni religiose, animistiche, trascendentali dell’Alcesti. Qualcuno, però, nel gesto finale di Eracle ha creduto di vedere uno strano, inopportuno, illogico, intempestivo rifiuto della religione cristiana tout court: ambiguità dell’arte?

Il numero degli spettatori era molto ridotto rispetto a quello del giorno prima. E certamente la tragedia è meno affascinante di Elettra.

Il re Admeto, per suoi meriti speciali, ha avuto dal dio Apollo il privilegio di non morire, se trova qualcuno disposto a morire per lui: rifiutano lo scambio il padre e la madre, ma accetta la moglie Alcesti che muore, difatti, tra il dolore (incomprensibile) del marito e quello (comprensibilissimo) dei figli, dei servi e delle serve. Sopraggiunge nella reggia Eracle che è debitore di Admeto per l’ospitalità concessagli. Dopo incomprensioni varie, Eracle lotta contro Thanatos (la Morte) e riporta la moglie (o il simulacro-ricordo della moglie?) al marito. Gli attori sono stati tutti ammirevoli: Galatea Tanzi-Alcesti, Danilo Negrelli-Admeto, Stefano Santospago-Eracle, Massimo Nicolini-Apollo, Pietro Montandon- Thanatos e i piccoli figli di Alcesti e Admeto.

L’interpretazione anti-resurrezionale del regista Cesare Lievi (alquanto forzata, invero) poggia proprio sull’ambiguità, reale o presunta che sia, della scena finale, in cui Alcesti riappare in vita ma non parla. I classici, però, sono perlopiù immuni da certi nostri cerebralismi. Si direbbe difatti che Euripide, con Alcesti, non già la impossibilità della resurrezione volesse rappresentare (quella di Alcesti era un dato indiscusso del mito), bensì la forza dell’amore coniugale, evidentemente più forte, a suo giudizio, di quello parentale: tutto il resto (Eracle, Thanatos, il ritorno di Alcesti) è solo l’armamentario mitologico, utilizzato dal tragediografo per convincere gli spettatori ateniesi della bontà del suo messaggio. Che sarebbe, poi, paradossalmente, la prima, netta “santificazione” della donna-moglie e quindi dell’amore coniugale: quattrocento trentotto anni prima della nascita di Cristo.

Due antitetiche immagini della femminilità si evidenziano, comunque, nelle due tragedie rappresentate quest’anno a Siracusa: la femminilità risentita e aggressiva, quasi virile, di Elettra, e la femminilità tenera, generosa fino al sacrificio più grande, di Alcesti.

Ultima modifica il Giovedì, 23 Giugno 2016 17:57
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