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La ricorrenza dei defunti o 'motticeddi', raccontata da Andrea Camilleri e da...

- di Maria Teresa Prestigiacomo -

Messina. Ci piace ricordare Andrea Camilleri, in queste giornate. La sua descrizione dell' attesa del giorno dei morti per i piccoli, in Sicilia, e'  accattivante e straordinaria. Da palermitana, posso affermare che era davvero una gioia, una vera felicita' fare la caccia al tesoro, nei giorni dei morti, per scoprire il nostro meritato dono. Un anno (mio padre era morto l'anno prima) avevo sei anni; mia madre mi fece trovare, "portato da mio padre"una  pregiata parure per il mio ...futuro... matrimonio! Non un giocattolo!  I miei parenti di Palermo, invece, per tradizione, mi regalarono sempre, i Pupi di zucchero. Io amavo i Cavalieri de La Chanson de Roland o i principi, con tanto di cavallo bianco e piume sul criniero.A volte, ricevevo da mio zio Fifi', la Ballerina di Tarantella, con tanto di tamburello e  stagnole brillanti che a volte ti si impasticciavano nel palato.Noi piccoli:l cugini: Salvo, Nicola, Pino, eravamo indecisi se minare alla stabilità  dei cavalli o delle ballerine o iniziare  a decapitarli, degustandone la testa. A volte, optavamo per le pasticche dolci coloratissime di colori oggi banditi: facevano parte  della Borraccia di plastica "da viaggio" con tanto di tracolla, regalo storico annuale dello zio Fifi'. In tutti i casi era una festa: tra frutta di martorana (che portavamo da Messina a Palermo)  e Ossi di morto, decisamente dark : gli scardellini che, una volta, erano duri come pietre...una gara a chi li rompesse prima: teschi, ossa, angeli con le ali spiegate, croci La frutta martorana era una bomba calorica,  piu' di adesso: arance, grandezza naturale,  di pasta di mandorla, riempite di mandorle o altra frutta secca e poi, come adesso, fichi , manderini, limoni...ma noi, piccoli, optavamo per le ciliege, perché  potevamo adornare le nostre orecchie, per scattare qualche foto che avremmo visto dopo qualche mese. l 'ingresso di mia zia Angelina, a Palermo, in Via Sammartino 112, era un salone di gran festa nei giorni dei morti, per esorcizzare il dolore della perdita dei nostri cari, si banchettava alla grande: con 18 persone a tavola, anche con qualcuno in doppia fila, ma pure sempre una grande festa...una grande gioia. Non come Camilleri, ma anch' io ho inteso farvi partecipi della mia memoria storica da classe Sessanta.

"Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.

Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.

I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.

Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire". 

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