Testimoniare sempre e dovunque, in difesa della verità possibile e contro ogni forma di mistificazione della realtà, costituisce uno dei compiti fondamentali degli intellettuali liberi e democratici. Io, nel mio piccolo, mi ci sono sempre attenuto.
Infatti, di fronte alla recente trasmissione di “Presa diretta” (Rai3), che ha rivelato «al colto e all’inclita» le enormi falle del sistema universitario italiano, non sono caduto «dalle nubi»: da decenni le vado denunciando in libri, articoli giornalistici, conferenze, ma anche, in primisi, col mio comportamento professionale, decisamente antiaccademico.
In quella bella trasmissione, ho tuttavia trovato una conferma ad una mia convinzione più volte ribadita: che il degrado dell’Università italiana non è legato all’attuale – innegabile e deprecabile – involuzione tecnologica e burocratica del sistema, ma ha radici profonde, da rinvenire già nella «prima repubblica», e in ispecie nel ventennio tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, quelli che qualche mio illustre collega (magari innamorato, come tutti, della propria giovinezza e forsanche con inconsce punte di narcisismo) mitizza come un paradiso perduto.
Era, invero, palpabile, all’epoca, nonché denunciata dalle punte avanzate dell’intellettualità e della sinistra democratica, l’enorme separatezza, nel Belpaese, degli alti studi accademici dalle esigenze reali dei giovani e della Scienza moderna; separatezza da ricondurre, probabilmente, all’atavica (in Italia) concezione della cultura come potere e privilegio personale (giammai come servizio) da difendere con i denti e tramandare, lungo assi padronali, familiari e/o sentimentali – non sempre meritocratici –, agli “eredi”. È proprio a partire dagli anni Settanta-Ottanta, difatti, che si evidenziò, soprattutto in Sicilia, un divario enorme tra certe, obsolete modalità di reclutamento dei docenti nonché di gestione della ricerca e della didattica nell’Università (con le solite, onorevoli eccezioni) e i cambiamenti, anche radicali, che fermentavano nel cinema, nella letteratura, nel teatro, nelle scienze umane e in ogni ramo della scienza e dell’attività umana: basti pensare alle straordinarie, coeve scoperte scientifiche, di cui erano perlopiù protagonisti ricercatori stranieri (e talora italiani che, però, operavano nelle Università straniere). Per converso, fiorivano, contestualmente, et pour cause, nel Belpaese, accanto a poche Scuole effettive, i baronati, le clientele, i parassitismi, i servilismi, le ricerche farlocche, da un lato, e l’assunzione addomesticata dei docenti attraverso concorsi pilotati dall’alto nonché le pubblicazioni inutili, bellettristiche, mal raffazzonate, se non scopiazzate tout court, dall’altro.
Ma ne ho già parlato, e forsanche troppo, con il chiaro intento, tuttavia, di contribuire allo svelamento di qualche dissimulazione … disonesta e all’affermazione dell’Università del merito e della trasparenza. Perciò mi limiterò a ricordare due episodi di vita, da me vissuta, che sono fortemente indicativi del miserevole status del mondo accademico, tra prima e seconda repubblica.
Partirò dalla risposta che Vitilio Masiello, diede, il 12 marzo del1987, nelle more di un convegno, a me che lamentavo il mio forzato «isolamento di isolano», privo di una vera Scuola accademica alle spalle: «Rando, tu sei capitato tra l’incudine il martello». Ovviamente – decodifico per i “parigini” – «l’incudine» era Resta, preside della Facoltà di Lettere di Messina (presso cui mi ero laureato), e «il martello» era Mazzarino, preside della Facoltà di Magistero di Messina (presso cui insegnavo Letteratura Italiana come professore associato), o viceversa. Mai sentenza fu, invero, più lapidaria e veritiera.
A Masiello, già deputato del PCI, si era rivolto, in verità, qualche mese prima, Mazzarino, già deputato del PLI, per chiedergli, quantomeno come collega politico, il suo appoggio, per me, a un concorso a cattedra, che si annunciava imminente. Al che Masiello aveva risposto: «Meglio che parli con Resta, sai bene che tutto passa da lui» (disse proprio così: «tutto passa da lui», e Mazzarino, viepiù sbalordito, ripeteva spesso questa frase). La stessa risposta, con altre, più velate, parole ebbe Mazzarino da Vittore Branca, che tuttavia gli comunicò il suo «parere altamente positivo» sui miei Tre saggi alfieriani, pubblicati a Roma all’inizio degli anni Ottanta (glieli avevo inviati, qualche mese prima, con ricevuta di ritorno). Ma gli scandagli di Mazzarino col suo «collega locale» (il quale, a giudizio di Petronio, temeva che un ordinario di Letteratura Italiana a Messina, che non fosse suo allievo, ne sminuisse, di fatto, il cosiddetto prestigio baronale) non sortirono alcun effetto.
E, per passare al secondo evento di (mala)vita accademica vissuta, mi si lasci dire, sempre a fini costruttivi, che quel mio primo libro alfieriano, a cui andarono non pochi consensi ufficiali (scritti e pubblicati in volumi e riviste) da parte di Giuseppe Petronio, di Raffaele Spongano, di Sergio Romagnoli, di Arnaldo Di Benedetto (tra i primi), non fu citato, au contraire (in omaggio a chi?), proprio da Vittore Branca, il quale, nel secondo saggio introduttivo a V. ALFIERI, Saul – Filippo, della Bur (1999), che lui stesso presentava – attenzione alle date! – come «il risultato della fusione e della rielaborazione di due studi pubblicati in precedenza in Omaggio a Gianfranco Folena, Padova 1993 e nella “Revue des Ètudes italiennes”, XXXVIII, 1992»), definisce, a pag. 33, «costituzionalistico» il Panegirico di Plinio a Traiano (che solo io avevo definito cosi più di dieci anni prima) e, a pag. 34, cita Mably, che io – e solo io – avevo presentato agli studiosi più di dieci anni prima, come una delle “fonti” della Tirannide. Chi fu, dunque, in quel caso, il maestro? E chi il maldestro allievo, che ignora il dovere di citare e si macchia così di plagio?
Ora, sappiamo tutti che ci sono altri mali nel mondo: Ma non si potrà negare che fosse orrendo un sistema accademico in cui un “barone” poteva tutto e gli studi «innovativi» (a detta degli esperti) di un giovane associato contavano meno delle ubbie del “barone”. A me, poi, tutto scivolava sulle spalle come pioggia d’aprile: avevo i miei (graditi) impegni familiari di marito e padre fortunato; avevo il mare a Cariddi in estate; c’erano, inoltre, onnipresenti nella mia vita sin da bambino, i miei cari libri, il mio stimolante lavoro di ricerca, le mie gratificanti lezioni. Non mi preoccupavano, quindi, più di tanto – con disappunto, devo dire, di Giuseppe Petronio – le “amenità” del mondo accademico locale, di cui si parlava ridendo nei ritrovi e nelle piazze della città: i «servizi» culinari (e non solo), offerti dagli allievi al maestro-barone, i libri scritti da Caio e pubblicati da Sempronio, le carriere fulminee di certi ignoranti («Ognuno ha portato in cattedra il suo asino», postillava Petronio). E – devo dire – mi è andata pure bene: se il baronaggio ha rubato a me e alla mia Università più di un decennio di ordinariato (con tutto ciò che ne consegue), altri e più catastrofici mali ha prodotto sicuramente altrove. Tuttavia, niente e nessuno mi ha mai impedito – né mi impedirà mai – di denunciare, finché campo, le nefandezze storiche del sistema: lo devo quantomeno ai miei nipoti.
- di Giuseppe Rando -