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- di Giovani Tomasello -

Il nostro Totò Grillo come ama farsi chiamare, in via amichevole, ha finalmente dato alle stampe il suo primo libro ispirato alla storia vera dei suoi nonni, ambientato nell’immediato secondo dopoguerra, all’interno di una proprietà terriera che il nonno aveva ereditato dai suoceri, lui che era un maestro elementare. Quindi, apparentemente senza alcuna esperienza di come condurre una proprietà, ma con la voglia di imparare. Un affresco dei primi anni cinquanta che dimostra come due esseri come il nonno e la nonna del nostro autore di diversa estrazione sociale, lui maestro elementare, lei proveniente dal mondo rurale, trovarono un motivo di coesione tale da assurgere a punto di riferimento per tutta la Famiglia.

Sul significato e sul messaggio intrinseco alla storia raccontata, abbiamo voluto ascoltare lo stesso Totò Grillo, che così ci ha risposto: “il libro tratta della storia di una famiglia patriarcale composta dai nonni, protagonisti principali della storia, che pur essendo di estrazione sociale differente riescono a divenire un tuttuno e nel contempo essere punto di riferimento per tutta la famiglia.

Quando ho pensato di scrivere questo libro, la mia idea iniziale, che poi ho mantenuto, è stata quella di non voler scrivere una sorta di romanzo o la storia della mia vita, ma fermare gli attimi significativi di un segmento del mio vissuto. Per raccontare ciò mi sono avvalso di flashback che mi hanno permesso di tornare indietro come in un sogno, e il lettore viene avvolto in questo sogno.

Tant’è vero che i lettori sono presi per mano dal protagonista e finiscono con il sentire, assaporare, percepire, gli odori e i suoni di quel tempo passato, durante il quale la vita scorreva in maniera semplice. Certo, il periodo dei primi anni cinquanta, in cui è ambientata la storia, era un periodo particolare perché si usciva dalla guerra, ed ancora erano presenti le privazioni, gli stenti della stessa. Sebbene, questa famiglia avesse superato questo problema, con il possedimento di un appezzamento di terreno grande più di dieci ettari. Per cui il problema del mangiare era quasi secondario. Ho voluto fissare questi attimi belli della mia vita per riviverli uno, dieci, cento, mille volte attraverso il libro. L’ho scritto principalmente per me, per le persone della mia età che leggendo rivivono quel periodo storico, per la mia famiglia, e poi rivolto ai giovanissimi di oggi. I quali hanno tutto, pensano di avere poco, ma quel poco se l’avessimo avuto noi sarebbe stato tutto.

Sostanzialmente il messaggio rivolto a loro è il seguente: i giovani di oggi si devono avvicinare alla natura, alle tradizioni, alla parola data. Oggi non si mantiene mai la parola. Allora una stretta di mano significava più di un contratto. Cosa che oggi non c’è più. La vita allora era legata all’alternarsi delle stagioni, le quali puntualmente ci davano delle scadenze: la mietitura, la raccolta dell’uva, delle olive, ecc… Momenti che erano di aggregazione per tutta la famiglia. Famiglia che era al centro, e fine di tutto. La famiglia allora rivestiva un ruolo importante. Leggendo il libro si ritrova un lessico familiare, come diceva Oriana Fallaci. In tutte le famiglie esiste un lessico. Il parlare arcaico, mi porta ad affermare che ho 150 anni di esperienza. Perché 60 sono i miei anni, più quelli di mio padre che sommati a quelli di mio nonno, mi inducono a rivivere molti modi di essere, di pensare e fanno parte del mio vissuto”.

“Ho visto che nel libro vi sono diversi passaggi dialettali. Perché questa scelta?”

Siccome il libro dovrebbe introdursi anche nell’ambiente scolastico, quindi nelle mani dei ragazzi delle scuole elementari, il dialetto siciliano si connota e articola in vari modi da una provincia all’altra, da una città all’altra, e addirittura da un rione all’altro, della nostra Regione. Quindi i passaggi dialettali servono a rendere più viva ed epidermica la storia. Ecco perché prima dicevo che il lettore viene preso per mano e viene inserito in questo mondo come se entrasse in un sogno. Perché le frasi dialettali danno una connotazione al libro, che non diventa mio personale, ma di chiunque lo legge, specialmente il lettore di una certa età. Mentre il lettore giovane, ragazzo, viene coinvolto per curiosità. Curiosità di voler conoscere un mondo che non conosce. Ricordo, a questo proposito, che ogni passaggio dialettale ha il suo corrispondente in italiano. Perché dò per scontato che un messinese lo capisca subito, ma uno, ad esempio, di San Fratello o di San Piero Patti, Librizzi, non è un autoctono, per cui gli verrà difficile capire le parole. Ed è semplice anche nei confronti dei ragazzi che così con la traduzione italiana hanno la possibilità di capire subito tutto, e di riflettere sul significato”.

“Il libro sarà presentato alla città?”

“Si. Sarà presentato alla città il prossimo 15 Aprile alle 17, alla Provincia Regionale di Messina, nel Salone degli Specchi. Dove ci sarà l’illustre Prof. Domenico Venuti che alla sua nobiltà di nascita coniuga una nobiltà di animo e una cultura profonda e una grande sensibilità. Devo ringraziare lui in primis che ha scritto la prefazione al libro “Mio nonno”, e poi la Maria Francillo Nicosia, la quale ringrazio per i suoi consigli. E poi ringrazio anche l’amico Rosario Fodale che mi sta dando la possibilità di poter estrinsecare il mio pensiero. Fortunatamente avendo alle spalle queste persone, ricche di esperienza, mi hanno dato la possibilità di tramutare in realtà questo mio sogno nel cassetto”.

“Successivamente, quindi, il libro sarà introdotto nel circuito scolastico?”

A proposito di questo devo ringraziare l’architetto Salvatore Magazzù, assessore comunale alle Politiche Scolastiche, che ho contattato sempre grazie al chiarissimo Prof. Venuti. Assessore che è rimasto entusiasta del libro, e appoggerà l’iniziativa per essere introdotto nel circuito delle scuole elementari e medie”.

Aggiungiamo che il prossimo 15 Aprile, alla presentazione del libro nel Salone degli Specchi della Provincia Regionale di Messina, a partire dalle ore 17, ci sarà la presenza anche del cantore dialettale Gianni Argurio che leggerà i passaggi in dialetto siciliano, assieme allo stesso autore. Prevista, naturalmente, la presenza del Prof. Domenico Venuti che nella prefazione al libro “Mio nonno”, scrive tra l’altro: “traspaiono nel libro, stati d’animo idonei a far vibrare le corde più profonde dell’io, che coinvolge, estasia e commuove il lettore, nel ricordo dei tempi trascorsi, i profondi significati interattivi dell’uomo con le sue radici in un rapporto simbiotico con la terra.

Lo scrittore sente che i complicati meccanismi della società odierna ci allontanano dalle antiche felicità e ne soffre. Totò Grillo sembra prenderci per mano e condurci dove tutto è pulito, sereno, fresco. Questo racconto è l’immagine dell’innocenza, dell’amore, della bellezza”.

E poi non potevamo mancare noi di Messinaweb.eu a immortalare una serata che ci farà rivivere i bei tempi andati, quando tutto era semplice e ancora, come ci ha dichiarato lo stesso Grillo: “quando una stretta di mano significava più di un contratto”.

 Giovanni Tomasello

 


 

 

- di Giovanni Tomasello -

Incontrare il Professore in pensione Salvatore Grillo, già docente presso l’Istituto d’Arte, è stato per noi molto formativo, un personaggio capace di spalancare nuovi orizzonti nel variegato mondo della letteratura dialettale siciliana, di cui è un grande cultore.

Ci ha deliziato, durante la nostra non semplice conversazione con la descrizione di termini, proverbi, modi di dire siciliani. Ad esempio sapete cosa significa la parola “ammatula”? Dall’avverbio “inutile”, riferito alla parola da cui parlare “ammatula”, cioè parlare invano. Riferendosi ad una persona “longo ammatula”, cioè persona fannullona, senza spina dorsale.

Tale avverbio deriva dal greco MATEN che significa invano. Ancora sullo stesso termine: due versi siciliani, riferendosi ad una fanciulla poco bella dicono: “ammatula t’alliffi e fa cannola” che significa “invano ti agghindi”; “bedda cci vò viniri di natura” che significa “bella ci si nasce”.

E per concludere questo piccolo esempio di terminologia siciliana, non poteva mancare il proverbio in dialetto: “dà testa du cunigghiu, nènti mànciu e nnènti pigghiu”!

Il nostro Totò Grillo, come ci ha permesso di chiamarlo, così si è voluto descrivere:

“sono un messinese verace da moltissime generazioni, amo la mia città e amo soprattutto il dialetto messinese. Ma in Sicilia ogni provincia ha il suo dialetto. Mi accorgo che il dialetto messinese rispetto agli altri dialetti si è un po’ diluito rispetto al passato, però ancora in determinati ambienti persistono determinati aggettivi, attributi, modi di dire che rievocano ancora un passato fatto di tradizioni, un passato riferito ad una città che era a misura d’uomo. L’altra volta ad esempio, mi trovavo ad ascoltare la conversazione di due operai, ed uno chiedeva all’altro se il muro resisteva all’impatto del brecciolino, l’altro gli rispondeva in dialetto: “il muro non ha fatto musione”.

Il termine “musione” è un termine bello, è un termine luminoso che ci riporta alle antiche origini del nostro dialetto. Ma ci pensate, dire “musione”, significa che il muro non si è incrinato, si è fermato. Amo scrivere in dialetto messinese sia in prosa che in poesia. Sono famelico nella ricerca di parole, vecchi modi di dire che esaltano con maggiore immediatezza il mio scrivere dialettale. Molte parole ancora me li ricordo, sentite da mio padre. Un vissuto che ritorna. Ho avuto la fortuna, comunque, di nascere in un periodo in cui mi sono agganciato storicamente al passato, perché ancora in quel periodo vivevano persone nate prima del ‘900.

Persone anziane che mi hanno insegnato a parlare, come mio nonno in particolare, in dialetto e ad amare questa “lingua”. Negli anni ’50 e ’60, ricordo che nelle famiglie non si parlava affatto il dialetto. Perché si pensava che parlare in dialetto fosse una carta d’identità per la provenienza della famiglia. Ora non è così, ora è quasi un vezzo parlare in dialetto, intercalando frasi in italiano. Ma se uno parla soltanto in dialetto, non vuol dire che non ha la possibilità di dimostrare, di esprimere un suo concetto, una sua idea. Anzi parlare in dialetto è molto più immediato”.

“Oggi, secondo te, visto l’interessamento anche delle istituzioni che da un paio d’anni a questa parte organizzano “la notte della cultura” nel mese di febbraio, c’è un maggiore fermento culturale in città, oppure no?”

“Quello che ha fregato questa cultura dialettale, sono stati i media, tipo la televisione. La televisione ci ha livellato tutti. Persone, ragazzi che ascoltano la televisione per ore e ore finiscono col dimenticare le loro origini. Voler riprendere il dialetto, e far conoscere i vecchi mestieri, dare una spolveratina a tanti oggetti che sono in casa, tipo la “cafettiera” con una sola “f” napoletana, facendola vedere alle nuove generazioni, in pochi conosceranno la caffettiera napoletana, perché ormai conoscono la “moka” e quella che fa il caffè con le cialde. La memoria storica è importantissima. Quando un oggetto supera i cinquant’anni è già considerato storico”.

“Ha in cantiere progetti letterari?”

“Ho in cantiere un libro che debbo stampare, dal titolo “Mio nonno”. Si tratta di un racconto ambientato a Messina, precisamente in località Castanea, negli anni ’50. Parla di una famiglia tipo dell’epoca, i cui personaggi principali sono il nonno di origine borghese, ormai in pensione, e la nonna proveniente dal mondo rurale.

E’ un libro scritto in italiano, però è intervallato con espressioni dialettali. Vengono riprese tradizioni antiche che si stanno perdendo, come quella di fare la salsa di pomodoro nelle bottiglie in casa. Mette a fuoco la mentalità, l’orgoglio di appartenere al mondo rurale, di appartenere alla sicilianità. Dobbiamo essere fieri delle nostri origini. Sarà presentato prima al Comune sotto l’egida dell’Assessorato alla Pubblica Istruzione, e poi entrerà nel circuito scolastico (elementari e medie). Successivamente sarà presentato “in abito da sera” alla Provincia, probabilmente a Marzo”.

“Altri suoi racconti…..”

“Altri miei racconti sono stati scritti in puro dialetto siciliano dall’inizio alla fine. Ma più che racconti sono delle scenette. Poi altri racconti misti in vernacolo e in italiano. Infine ho un romanzo che si intitola “L’avaro” tutto in italiano. Quest’ultimo in un certo senso si discosta dagli altri. Nessuno di questi è stato mai pubblicato.

Oggi pubblicare un libro per quanto piccolo sia, costa soldi. Il racconto “Mio nonno” sarà il primo che esco dal cassetto, per perdere la mia paternità, e regalarlo al pubblico, facendoglielo leggere per trovare nella lettura un qualcosa che rispecchi il loro vissuto. Contiene cenni biografici e non, mi sono avvalso dell’esperienza di mio nonno che oggi ha 92 anni ed era un notaio. Rispecchia il vissuto mio e della mia famiglia”.

 

 

- di Filippo Scolareci -

Lo scrittore Anastasio Majolino (medico psicoterapeuta) ha presentato il suo ultimo libro “La scala che si sale scendendo”

Subito dopo il benvenuto dato all’ospite ed a tutti i presenti da parte della prof. Teresa Rizzo, nella qualità di Rettore dell’Accademia sopra citata, il Dott.Majolino ha esplicitato la sua presentazione del libro con molta professionalità e chiarezza, tanto da stimolare molte domande da parte dei presenti, fino a diventare un dibattito interessante e molto garbato, relativo all’interessante tematica che pone in rilievo la centralità del paradosso nel modello di vita dettato dai principi del “Credo Cristiano”, che è simboleggiata dal capovolgimento di senso espresso con immediatezza dal suo titolo.

Altrettanto dal suo sottotitolo che si deduce subito il metodo usato dall’autore. Cioè, mettere a confronto gli aspetti essenziali delle due importanti polarità – religione e psicologia – che coinvolgono profondamente l’essere umano, cercando di trovare punti di incontro tra i due modelli contrapposti, i quali sapientemente coniugati, aiutano l’uomo a scrutare il mistero dell’esistenza, guardare in alto, fare scelte di amore, pensarsi in cammino, praticare virtù umane e cristiane, per tendere alla realizzazione di sogni e progetti.

L’autore stesso, si sente particolarmente coinvolto da questo disaccordo, essendo un cattolico convinto e un impegnato psicoterapeuta. Il fine è quello di trovare conferma alla sua convinzione, fondata su motivi di ragione e di fede.

 

 

- di Rossella Arena -

“Come Eracle e Iolao”: ricominciare da se stessi

Con la sua nuova fatica letteraria Pasquale Ermio, poeta di origini calabresi, da lungo tempo esponente attivo della vita culturale messinese, regala un viaggio poetico introspettivo alla ricerca della serenità perduta.

Tra sapienti citazioni mitologiche, spunti filosofici sull’esistenza e sussurrati consigli sul bel vivere Pasquale Ermio, dopo la sua prima silloge di successo “Venti in versi”, ci riprova e  “Come Eracle e Iolao” ricomincia da se stesso, dalla sua interiorità, tra convinzioni e dubbi. Stavolta, però, il Nostro, raggiunta la piena maturità letteraria, estende la sua prospettiva lirica mirando a un pubblico più esperto. All’ombra del telaio costruito dalla sua prima fatica letteraria, egli infatti dischiude con abile mano, fin dalle prime emblematiche righe, una tela di Penelope che il lettore potrà scorrere avanti e indietro, con lo sguardo acuto dell’intelligenza e le ali del cuore, componendo e disfacendo insieme all’autore ricordi e sensazioni di una intensa vita. Alla fine l’ordito rivelerà a chi ne saprà accarezzare le morbide trame tutti i suoi segreti e il filo d’Arianna celato dal poeta stesso nel labirinto delle sue profonde elucubrazioni mentali, sfavillerà di pagina in pagina, di poesia in poesia, come una cometa che punti disperatamente laddove l’elisir della serenità regala all’uomo i suoi benefici. Ma se il finale è lieto e confortante, come l’autore calabrese ci ha abituato, l’esordio dell’opera “Come Eracle e Iolao” prepara ed alimenta un’atmosfera più cupa, nella quale chi legge è trascinato nei temuti meandri del proprio pensiero, fino a guardare dritto negli occhi  l’Idra che è dentro ognuno di noi.  Il monito è chiaro, fin dai primi versi di “Senza”, “Russu morti” e“Flash”: su ogni uomo costretto ad incedere in precaria postura sulla cedevole terra bruna e su percorsi tortuosi e accidentati come un equilibrista tra viottoli e mulattiere altrimenti impercorribili, giungerà prima o poi la malattia, la sofferenza, l’insuperabile difficoltà. E la fine dei giorni arriverà greve come spettro in agguato e sorprenderà incredule le umane ed effimere vittime nell’ultimo preagonico battito di ciglia. Il male arriverà e come l’Idra sarà falcidia inesorabile che tronca ogni accenno di germoglio, perfidia di vipera, crudezza di murene fino a fagocitare le carni di ciascuno di noi rinchiudendole nella solitudine di pozzi paralleli a quelli di altri uomini, crudelmente sorpresi in tutta la loro infinita fragilità e solitudine sotto gragnole di ciottoli ed enormi massi, celati da beffardi cartelli che a nessuno  è dato saper leggere prima del tempo.

Più avanti, senza parole di fronte al dolore, Pasquale Ermio sospende per qualche lunghissimo attimo i suoi passi lirici; quasi si chiude in se stesso e come in “Elusa guarigione”, in “Oltre il tramonto” o in “Imperfezione umana” finisce per minimizzare, per poi escludere del tutto dal suo eloquio lirico la punteggiatura, quasi a voler rappresentare in modo più evidente anche stilisticamente la perdita di appigli e riferimenti tanto grafici, quanto reali. L’intento però non è abbandonarsi allo sconforto, ma piuttosto cancellare ogni limite all’ispirazione, affinché possa penetrare in libertà nel mistero dell’esistenza, dando ascolto ai suoi più misteriosi sussurri. Inizia così ad affacciarsi nel poeta Ermio e nell’uomo Pasquale la speranza di giungere a percepire intorno a sé tracce confortanti del perfetto disegno divino in mezzo alla “imperfettibilità” umana che tutti ci accomuna e ci condanna, noi uomini grandi e celebri come Napoleone, o solo persone comuni, eroi come tanti, inosservati e anonimi. Ed è proprio in questa amara e realistica presa di coscienza del male e della sofferenza insita nella vita dell’uomo da parte di Pasquale Ermio che la nuova opera si distingue dalla precedente e con forza si afferma come esempio di lirica d’Arte. La visione pessimista del poeta, infatti, si libera dai ristretti vincoli autobiografici, si eleva all’universale e abbracciando la varia umanità trova nell’Idra riassunto e personificazione simbolica, esprimendosi in tutta la sua impietosa essenza in immagini e vocaboli liricamente ricercati, a tratti ermeticamente imposti. Intenzionalmente dispersi tra i versi dell’una e dell’altra poesia, parole essenziali e figure retoriche efficaci danno la suggestione al lettore che esse si autoalimentino, si moltiplichino, si diffondano autonomamente al rinvigorirsi delle riflessioni e dei ricordi del poeta, allo stesso modo come l’Idra nell’immaginario classico centuplica le sue immonde teste. Ma il contrasto tra le due opere finisce qua. E’ facile infatti notare come entrambe, profuse dalla stessa anima ispiratrice, si cerchino l’una con l’altra, come padre e figlio, fino a ricongiungersi e confluire nel confortevole tepore delle persone e dei valori cari al poeta. L’amore, l’amicizia, la solidarietà, gli affetti familiari, i bei ricordi, le piccole gioie quotidiane sono le uniche preziose vie di fuga offerte alla fragile umanità, le uniche ragioni che rinnovano in essa la fiducia nell’aspettare l’alba sin dal canto del gallo.

Il Mito ci tramanda che l’Idra è inattaccabile dalla esclusiva forza divina di Eracle, ma è vulnerabile all’intervento della lungimiranza, delle emozioni più intense e sincere, della fede e della saggezza dell’umano Iolao, che Pasquale Ermio scopre in se stesso e da se stesso ricominciando avanza verso il futuro lasciandosi alle spalle, a beneficio di altri, traccia generosa del proprio poetico ed umano itinerario di salvezza.

 

“D’Infinito Traversare” è un viaggio infinito che scava nei meandri più sottili del mio cuore, scoprendo dolori, gioie, ricordi, emozioni, stati d’animo, e portandoli alla luce dove finalmente possono essere svelati.

E’ così che sono nate le mie poesie: di getto, dettate dalla mia istintività, in seguito a riflessioni sul mondo che mi circonda, su piaghe sociali e fatti di cronaca, o dovute a ricordi prepotentemente riaffiorati.

Sono liriche profonde, sono allegre filastrocche in rima, sono dediche, sono pensieri.

Sono le mie poesie, è il mio infinito.

Fu Sergente Garibaldino e Tenente nei Granatieri

“Sergente Garibaldino 1860- Tenente nell’Esercito Italiano 1866 – Negoziante agricoltore 1912”, questo il lapidario testo che identifica un personaggio di origine messinese sepolto a Sant’Arpino (Caserta): Giuseppe MACRI’. A ritenerlo è una targhetta di ottone affissa sulla porta di ingresso del Mausoleo funebre fatto erigere dallo stesso Macrì per custodire le proprie spoglia. Scoprire chi fosse questo “sconosciuto” messinese e cosa avesse a che fare con un luogo lontano dalla sua patria, ci ha impegnato in una ricerca che ha fornito risultati molto sorprendenti ed a tratti davvero “inquietanti”.

Rampollo di una Nobile Famiglia siciliana, Giuseppe è stato il quinto figlio di Silvestro, a sua volta nipote  del Vescovo di Lipari e di Patti Silvestro TODARO. Nato in Messina nel 1843, risulta essere il fratello minore di Giacomo, illustre Giurista autore di diversi Trattati e Rettore della Università di Messina. Infervorato da ideali “liberali”, Giuseppe si arruola volontario, ad appena 17 anni, nelle fila dell’Esercito di Garibaldi partecipando alle operazioni della cosiddetta “Unità d’Italia”. Dopo alcuni anni trascorsi nel neonato Regio Esercito Italiano, prima come graduato e poi come Ufficiale, di lui si perdono le tracce. Ricompare, nel 1903, nel paesino campano dove compra un Palazzo Ducale appartenuto alla notissima Famiglia Sanchez De Luna d’Aragona. Nell’agro aversano vive per circa un trentennio dedicandosi all’attività di negoziante di semi. “Misterioso” resta, però, tutto il suo agire, pervaso da elementi massonici ed esoterici. Muore, ottantanovenne, nel 1932, dopo aver provveduto a lasciare in eredità ai poveri tutti i suoi averi. Il suo concetto di “Carità”, ma soprattutto  la sua “ossessione” di essere ricordato come “Benefattore” , si ritrovano esplicitate in diversi elementi in marmo lasciati a suo ricordo nel Palazzo e nel Mausoleo funebre. Gli stessi elementi, però, letti con una diversa ottica, ci restituiscono il profilo di un personaggio degno di un feullieton. La sua passione per il paranormale, infatti,  lo spinge a compiere azioni i cui risvolti andrebbero interamente indagati per arrivare ad un logico perché. Una sorta di  rebus occultato, da lui lasciato a posteri, ci ha portato a scoprire il suo lato forse più inquietante: il “prestito” del suo volto ad una  “anomala” ed inconsueta  Icona della Madonna della Lettera  fatta dipingere sulla sua proprietà santarpinese. Cosa possa aver spinto l’ex garibaldino, che tiene a sottolineare di essere un “italiano da Messina”, ad agire in questo modo  l’abbiamo ipotizzato all’interno del racconto da noi pubblicato sul sito Messinaweb.eu. Esortiamo i lettori di questo Magazine a dare un contributo in notizie al fine di riscoprire, a tutto tondo,  il personaggio Giuseppe Macrì. Così come ci piacerebbe sapere se, dopo il terremoto del 1908, possano essere sopravvissuti parenti dello stesso e discendenti dai suoi 4 fratelli, Giacomo, Pietro, Giovanni, Paolo Giuseppe.  Ulteriori notizie sulla sua vita, infatti, potrebbero contribuire a restituire alla Città di Messina un concittadino “degno di nota” togliendolo dall’oblio nel quale, forse ingiustamente, le vicende della Vita lo hanno finora relegato.

                                                                                              Antonio DELL’AVERSANA

                                                                                               Rosario  FODALE

 

 Originale e coinvolgente la presentazione, il 24 aprile, del libro “Il coraggio di vivere se stessi”, scritto da Pippo Augliera, che ha registrato una grande partecipazione e calore da parte di tutte le persone coinvolte.

Il pubblico presente al Teatro Zancle di Messina ha avvertito immediatamente questa dimensione, sin dall’inizio, grazie alle note musicali introduttive con la versione strumentale di “Volesse il cielo”, appartenente al repertorio di Mia Martini.

Il conduttore Padre Alessandro Marzullo ha avuto la capacità di instaurare un dialogo autentico con l'autore, rilevando impressioni e commenti sui contenuti del libro e concentrandosi sulla prima parte composta da versi creati sull’onda delle inquietudini e turbamenti giovanili, tirati fuori dal cassetto, mantenendo intatta la loro forza evocativa, nonostante il trascorrere inesorabile del tempo. Le poesie, recitate da Luigi Rao, sono state impreziosite da melodie scelte dal repertorio di Lucio Battisti, Freddie Mercury.

Spazio alla prima storia e il palcoscenico si apre, puntando i riflettori su una panchina, circondata da alberi e piante, e sulle due donne, una delle quali racconta un episodio in particolare della sua vita, nel suo ruolo di madre coraggio....splendida Emanuela Giuliano, in scena con Katia Lo Faro. Al termine della rappresentazione, applausi scroscianti e meritati, a cui fa seguito l'esecuzione del brano "Piove" di Riccardo Cocciante con l'ottimo Natale Pagano al pianoforte e una voce a sorpresa, cioè quella dello stesso autore!

Le due attrici commentano, in particolare Emanuela Giuliano afferma: ‘ io sono una mamma ed immedesimandomi totalmente, è come se avessi vissuto questa terribile esperienza. Da attrice comica, ho coperto per la prima volta questo ruolo drammatico e posso asserire con certezza che è stata una delle più grandi emozioni che abbia mai vissuto.

Riprende il dialogo, sui temi affrontati nelle storie e sul filo che lega esse alla frase "I fiori più belli crescono sui rami che hanno sofferto di più", scelta dall’autore, per dare un'apertura alla speranza, nonostante la sofferenza e le difficoltà....

Padre Alessandro chiede all’autore se le storie hanno qualche riferimento personale e considerando l’attività di psicoterapeuta svolta da Pippo Augliera nel settore delicato delle tossicodipendenze, si punta l’attenzione su quella in cui è trattato il tema della droga, attraverso l’esperienza di un difficile recupero, dopo avere toccato il fondo.

Viene eseguita dal vivo piano voce “Cara droga” di Franco Simone”,  visto che ogni racconto ha un collegamento con brani di artisti vari….come Mina per la spiritualità, Mia Martini per la follia, Biagio Antonacci per la guerra, Roberto Vecchioni per il conflitto, Franco Battiato per la malattia, Fabio Concato per l’omosessualità, Domenico Modugno per il suicidio.

Si dà il meritato rilievo al commento che Stefano Filipponi ha scritto per il libro “Quella strana scintilla”, letto su una melodia di Francesco De Gregori “Flirt”, che ha amplificato la bellezza del sentire espressa con le parole: altro momento di grande partecipazione. Un ottimo preludio alla seconda rappresentazione “I sentimenti veri superano ogni barriera” che vede coinvolti in scena Fabio La Rosa, in una interpretazione molto intensa, affiancato da Sebastiano Gangemi. E, a seguire, il testo e le note struggenti di “Una casa in cima al mondo” di Pino Donaggio contribuiscono ad annullare le distanze dovute ad un’assenza fisica, grazie al prodigio dell’amore.

Fabio La Rosa si è così espresso: un’emozione indescrivibile, perché riesci ad avere una prova tangibile di come il tuo entusiasmo e la tua passione siano arrivati a toccare il cuore del pubblico. Essere attori è riuscire a pescare dal pozzo dell'anima le tue emozioni e trasformarle in parole ed azioni sul palcoscenico al fine di raggiungere e suonare le corde del cuore di chi ti guarda…’

Due ore trascorse all’insegna delle emozioni, da rendere difficile la chiusura di una presentazione originale tra poesia, teatro e musica. E, infine, una frase dell’autore, presa a prestito dallo scrittore Carlos Castaneda: ‘è preferibile percorrere i sentieri che hanno un cuore, perché quelli che non ce l’hanno uccidono’. Cala il sipario…..

Comunicato Stampa Chez Mimì

www.chez-mimì.it

 

 

Giorgio Vindigni è nato a Tripoli il 25 agosto 1937. Coinvolto dagli avvenimenti bellici, visse gli anni della pubertà a Modica. Completò i suoi studi tra Tripoli, Napoli, Pisa. Quindici anni di lavoro in Nord-Africa, plurilingue, dopo tre anni di lavoro a Roma,  fu inviato dalla Banca per sei anni a Parigi con compiti di rappresentanza e sviluppo nell’interscambio.
Membro del Comitato Assistenza Italiani all’Estero e del Comitato Consolare di Coordinamento di Parigi, fu Presidente del Consiglio della Scuola Italiana di Parigi, dell’Istituto liceale “San Gabriele” ai Parioli di Roma.  Trascorse sei anni in Svizzera tra Berna e Ginevra.
02 giugno 1977 – “Cavaliere” al merito della Repubblica Italiana .
02 giugno 1989 – “Ufficiale” al merito della Repubblica Italiana.
Dirigente bancario in pensione. Scrisse “BANCARIA” – La tecnica del Funzionario di Banca – Tratta i Servizi bancari – Distribuito, nel 1987, in tutte le Banche dalla FABI.  Presidente dell’Associazione Nazionale di Promozione Culturale “AMICI DELLA SICILIA-F.lli Florio” per Roma e centritalia – Roma-Italy
“Accademico” dell’Accademia Internazionale “IL CONVIVIO”“ - 2010
“Accademico d’Onore Leopardiano” da Accademia Internazionale  “G.Leopardi”- 2011
“Commendatore Accademico Leopardiano”- da Accad.Intern.”G.Leopardi” – 2012
“Senatore Accademico Leopardiano” – da Accademia Intern.le “G. Leropardi”- 2012
Si è dedicato alla narrativa storica nell’Area mediterranea, in una trilogia: “IL RITORNO” (1922/1947) – sette Premi letterari – “ASPIRAZIONI DI UN ADOLESCENTE” (1948/1959) – Premio speciale della Giuria al “XXXVII Premio Letterario Casentino” - Giugno 2012-, di prossima pubblicazione - Il terzo (1959/1970) – Il Regno di Re Idris fino al colpo di Stato in Libia e la cacciata degli Italiani da parte del Colonnello Gheddafi -  in lavorazione al 05/2012.
Definito “Poliedrico”: ama musica-canto, foto, teatro, viaggi, designer, scrittore, organizzatore, associazionista.


GIORGIO VINDIGNI

    IL RITORNO 

       (Narrativa storica 1922/1947) 

        Edizioni Helicon - Arezzo

-          Primo classificato al Premio Nazionale di Letteratura e Teatro

“NICOLA MARTUCCI – CITTA’ DI VALENZANO”

Sezione “LIBRO EDITO” – VIII EDIZIONE – 2010

-          Primo Finalista del Premio ACCADEMIA INTERNAZIONALE “IL CONVIVIO”

Narrativa edita -X  EDIZIONE  - 2010

-          Opera selezionata e inserita nella

Antologia dell’Accademia Internazionale

“Il Convivio - Premio 2010”-

-          Opera selezionata con “Diploma di merito” per l’inserimento nella

Antologia del Premio Nazionale di Narrativa

“ALBEROANDRONICO” – Edizione 2010

-          Titolo di“ACCADEMICO”conferito  all’Autore Giorgio Vindigni

dall’Accademia Internazionale “Il Convivio”

Verzella (Catania) - 12 marzo 2011

-          Finalista del Premio Centro di Studi e Ricerche “MARIO PANNUNZIO”

Narrativa edita – Edizione 2011 –Torino – Novembre 2011

-          Secondo classificato al Premio Internazionale Artistico – Letterario

“CITTADELLA” 2011

Centro Studi - Accademia Internazionale  “G. Leopardi” –

Arti Lettere Scienze e Ricerche Culturali

Reggio Calabria – XX Edizione 2011

-          Titolo di “ACCADEMICO D’ONORE LEOPARDIANO” Sezione Lettere

-          Centro Studi – Accademia Internazionale  “G.Leopardi”

Premio alla Cultura 2011 “GIOVANNI  PAOLO  II°”

Conferito all’Artista Giorgio Vindigni – 11 Dicembre 2011

-          Terzo classificato  al “ XXV PREMIO INTERNAZIONALE DI POESIA E NARRATIVA”

Cinque terre – Golfo dei Poeti – Sirio Guerrieri – 25 marzo 2012

-          “ASSOCIAZIONE CULTURALE PEGASUS - CATTOLICA”

“PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE-CITTA’ DI CATTOLICA”

L’OSCAR DELLA LETTERATURA ITALIANA

IV^  EDIZIONE

Assegnato il   “PREMIO SPECIALE DELLA CRITICA”

Cattolica, 21 Aprile 2012

-          Maggio 2012 – Da Accademia Internazionale “G: Leopardi”

Riconoscimento Premio Universale per la Ricerca Artistica – Letteraria

“UNIVERSAL VICTORY”  2012

Con nomina di “COMMENDATORE ACCADEMICO LEOPARDIANO”

-          Giugno 2012 – Da Accademia Internazionale “G: Leopardi”

Riconoscimento Premio alla Carriera Artistico – Letteraria

“SAN GIORGIO” 2012

Con nomina di “SENATORE ACCADEMICO LEOPARDIANO”

Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – 3387965769

Emancipazione, parità, libertà: termini che connotano la "questione femminile", intendendo con questa espressione l'insieme dei problemi che hanno scandito nel bene e nel male il passaggio del cosiddetto "sesso debole" da una condizione di inferiorità economica e politica ad uno status che ha consentito alla donna di entrare nella dimensione sociale della produzione giuridicamente riconosciuta e retribuita. E' stato un cammino assai lento che, negli ultimi tre secoli, ha visto la donna uscire a poco a poco dal "lavoro casalingo" e organizzare, come un lavoro modernamente inteso, i servizi da lei svolti nell'ambito della famiglia tradizionale: la cura e la manutenzione della casa, la custodia dei figli, la preparazione dei pasti, ecc. Si è trattato di un movimento tra i più lenti che l'umanità abbia registrato nella sua storia: un processo che ha visto confrontarsi e contrapporsi in campo aperto ideologie rappresentate da uomini pronti a battersi contro tutte le forme di intolleranza e uomini che, poco disposti a fare un uso critico della propria intelligenza, si sono spesso abbarbicati ad una cultura mirante a negare alla donna il diritto ad ogni lavoro autonomo e ad esaltare il "maschio" come modello di perfetta umanità.

La donna italiana realizza alcune delle sue principali aspirazioni a partire dalla metà del secolo scorso quando gli artt. 29, 31, 37 della Costituzione Repubblicana riconoscono per la prima volta nel nostro Paese che nella vita nazionale vi sono settori (la famiglia, il matrimonio, il lavoro, ecc. ) all'interno dei quali la donna necessita di un particolare sostegno per realizzarsi come essere umano e sociale. In particolare, l'art. 51, nella parte che concerne il sistema di democrazia rappresentativa, sancisce finalmente che «tutti i cittadini dell'uno e dell'altro sesso possono accedere [.. .] alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza secondo i requisiti stabiliti dalla legge».

Sotto questo riguardo la vita della dott.ssa Elena Tricomi Altadonna è esemplare. Gli anni in cui muove i primi passi sono anni in cui i discorsi sono coniugati ancora tutti al maschile: poche sono le ragazze che frequentano la scuola elementare, meno quelle che proseguono gli studi nelle scuole secondarie, ancor meno quelle che accedono agli studi universitari.

La giovane Elena, dopo aver conseguito il diploma di scuola secondaria, intraprende gli studi di medicina in un tempo in cui l'accesso a quella facoltà è a dir poco problematico. Lei ben sa che nel giro di pochi anni la laurea in medicina la condurrà in un ambiente in cui sarà chiamata a svolgere ruoli tradizionalmente assegnati agli uomini. Nella giovane laureata ben presto si fa strada la convinzione che la liberazione della donna passa attraverso il libero rapporto con le poche donne e i molti uomini che avrà come compagni nel proprio lavoro.

Gli anni in cui la giovane dottoressa approda alla laurea in medicina e chirurgia sono gli anni in cui in Italia non si avverte ancora la necessità di una cultura femminista da utilizzare almeno come testimonianza dell'oppressione sessuale, politica, giuridica, sociale da parte dell'uomo. Quelli in cui la giovane Elena muove i primi passi sono anni della dittatura nazifascista, gli stessi anni in cui Joseph Goebbels, destinato a diventare ministro della propaganda hitleriana, scrive in un suo racconto intitolato Michael: «La donna ha il compito di essere gradevole e di mettere al mondo figli».

Sono anni in cui intraprendere un certo tipo di studi significa per una donna un salto nel buffo. Eppure la dott.ssa Tricomi intuisce che famiglia, lavoro domestico e professione non sono ambiti in contraddizione tra loro. In un mondo strutturato ancora in termini quasi esclusivamente maschili, in una società in cui la donna deve ancora lottare per vedersi riconosciuti i propri sacrosanti diritti, lei si rende conto che sta per chiudersi il lungo periodo della storia dell'umanità dominato da un patriarcato che annovera tra i suoi patetici "campioni" personalità come Rousseau, Shopenhauer, Fichte, Freud, Nietzsche, Hitler. Nella giovane dottoressa si fa ben presto strada la convinzione che sta per aprirsi un altro periodo in cui la donna non potrà essere considerata un essere privo di valore autonomo ne annullata in una funzione che la releghi nel ruolo esclusivo di sposa e di madre.

Oggi non c'e corrente di pensiero o ideologia che osi negare alla donna il diritto a realizzarsi come essere umano e sociale. Sono lontani i tempi in cui da una parte la donna era presentata come "angelo tutelare" del focolare domestico e dall'altra parte uomo e donna erano considerati due entità opposte come il giorno e la notte, il Bene e il Male. Nel nostro mondo non c'e più posto per le disquisizioni alla Otto Weininger secondo cui, essendo le donne «prive di esistenza e di essenza», l'umanità non può non presentarsi «come maschio o femmina, come qualcosa o nulla...» (da Sesso e carattere, 1903, venticinque edizioni entro il 1922). Oggi sarebbero a dir poco anacronistiche le premure del filosofo Nietzsche che consigliava agli uomini: «State per far visita ad una donna? Portatevi dietro la frusta». Il nostro non è più tempo di mascherare le posizioni di comodo truccate da categorie universali. Nessuno vi crederebbe. Per fortuna viviamo in una società in cui le donne hanno più o meno gli stessi diritti degli uomini, fanno più o meno tutto quello che fanno gli uomini. L'unica cosa che non possono fare e il sacerdote della Chiesa cattolica. Faccia ognuno la propria parte perchè la donna non ritorni ad essere niente più che un'espressione zoologica: solo la "femmina dell'uomo", non una persona umana e come tale meritevole di rispetto e di stima.

GIUSEPPE CAVARRA

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