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PERCHE’

 

Qualcuno mi chiede perché «ce l’ho tanto con l’Università». Rispondo una tantum. Io non ce l’ho affatto con l’Università: «ce l’ho» casomai con i nemici dell’Università, con coloro che stanno affossando l’Università statale in Italia: non tanto i politici (che ora credono di salvare l’Università, burocratizzandola) quanto i professori e i dirigenti – sempre troppi anche quando fossero pochi – che non seguono la retta via della ricerca scientifica e della meritocrazia.

La mia è, in fondo, la denuncia propositiva, costruttiva, che di norma un intellettuale democratico di una nazione civile fa – o dovrebbe fare –, dei difetti, delle ingiustizie, delle inadempienze dello Stato o di settori dello Stato, con l’unico intento di contribuire alla loro eliminazione. «Con quale diritto?» – mi si chiede. E io da sempre rispondo:«Con l’unico diritto di chi ha visto e non ha chiuso gli occhi. Col diritto-dovere del testimone attivo, non reticente».

Al di qua e al di là dello Stretto, io ho visto invero, e talora ho patito sulla mia pelle, opponendomi come ho potuto, i misfatti, magari penalmente non perseguibili, ma misfatti tuttavia, che si perpetrano, con nonchalance, nel mondo accademico, contro la Scienza e la dignità umana. Affidando, però, i patimenti personali ad altro tempo e luogo, dirò, d’ora in avanti, sinteticamente, con linguaggio giornalistico, il più asciutto possibile, ma senza indulgenza alcuna, quello che ho visto: sunt lacrimae rerum.

Io ho visto:

•             asine e asini conclamati salire in cattedra;

•             studiosi degnissimi restare ai nastri dipartenza o fermarsi a metà strada;

•             giovani laureati/e “sprotetti/e” e dotati/e di vero istinto di ricerca emigrare in cerca di lavoro;

•             mediocri laureati/e protetti/e intraprendere, senza meno, la nobile [?] carriera universitaria;

•             allieve e allievi indipendenti (di baroni), ridotti alla frustrazione, all’avvilimento, alla nevrosi, alla malattia o, peggio, all’assuefazione;

•             allieve e allievi servizievoli (di baroni) trasformati, in un batter d’occhio, da studiosi di turco in professori di sanscrito e portati in cattedra, magari al posto dei veri professori di sanscrito;

•             la cialtroneria, il carrierismo, l’affarismo, il clientelismo, il familismo dilagare e perdere, per converso, terreno la ricerca scientifica.

E qua mi fermo, per sottrarmi, oggi, alla nausea montante. Non prima, però, di avere respinto la presunta giustificazione dei “benpensanti”, integrati nel sistema: « Siamo uomini. Il paradiso non è in terra. La verità non esiste: sono punti di vista [Ahi!, l’Ermeneutica]. Certe cose sono inevitabili: per fare un professore universitario sono necessari gli esperti, i quali, qualche volta, antepongono il loro interesse – o quello del loro gruppo – a quello (astratto!!!) della Scienza. Non è poi la fine del mondo».

Ma non vedono, costoro, – verrebbe fatto di gridare – il tormento dei meritevoli costretti ad emigrare? Non vedono la delusione degli studenti desiderosi di sapere? Non vedono i danni causati da ricercatori inadeguati all’economia nazionale, alla formazione dei giovani professionisti, allo sviluppo normale della ricerca?

Che la giustificazione non regga è dimostrato, peraltro, dal fatto che quei difetti, accettati come normali nell’Università statale italiana, sono – a quel che si vede e si legge – eccezionali nelle Università statali degli altri paesi europei. Quanto dire che la condition humaine non c’entra affatto; c’entra, semmai, la mentalità mafiosa, cioè l’arretratezza politica e culturale del nostro amato e grande, per altri versi, Paese.

Ben vengano, dunque, tutte le riforme del mondo, per debellare il malcostume accademico. Ma si consideri pure che siamo noi “sbagliati”, non le strutture. Bisogna cambiare.

Scritto in collina il 5 luglio 2013

Giuseppe Rando

Ultima modifica il Lunedì, 08 Gennaio 2018 18:50
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