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"ASTERISCHI"

  - di Pippo Rando -

ASTERISCHI

Cos’e pazz: vivo in una città dove non c’è intellettuale, professionista, poeta, artista, giornalista, panettiere, negoziante, barbiere, salumaio che non si ritenga infallibile e non ostenti amore smodato di sé nonché disprezzo per i “concorrenti”; purtroppo, a me capita -  non spesso ma talvolta, sì - di mostrare la mia fralezza (poet.) d’uomo, ontologicamente limitato come tutti gli esseri umani, e di ammettere i miei errori: per distrazione, disinformazione o altro, ma errori tuttavia. Devo prenderne atto: sono strano, in questa città di (presunti) giganti.

***

Mi è capitato di assistere, qualche giorno fa, per puro caso, a una discussione tra due autorità, «due canizie», per dirla con Manzoni: forse, due professori universitari

Il più alto dei due, (possibile controfigura del Gino Bramieri prosciugato degli ultimi anni) esibiva un nasone lungo, quasi equino, pendulo sul labro superiore, un sorriso largo, stampato sulla bocca semiaperta, rughe marcate sulla fronte e sulle guance, cravatta e camicia giovanili. Rivolto al collega, ripeteva quella che doveva essere la supercazzola (per lo Zingarelli, «parola o frase senza senso, pronunciata con serietà per sbalordire e confondere l’interlocutore») preferita: «È un orco il cane?». Ma trasudava dagli occhi, dal naso, dalle rughe, dalla bocca, dalla cravatta, dalla camicia, dalle scarpe, uno sfrenato culto di sé, della sua alta carica, del suo prestigio esaltato dalla gratificante prossimità del collega.

Il suo corpo, invero, parlava, come tutti i corpi peraltro. E il linguaggio del corpo non è mai menzognero: «Io ho “attraversato la vita in carrozza”; non ho mai incontrato “il male di vivere”; non conosco, facendo gli scongiuri, dolori, sofferenze, morti di cari; me ne frego dei sentimenti popolari di uguaglianza, solidarietà, amicizia, amore; io sono io e gli altri non sono un cazzo». Si capiva, peraltro, di primo acchito, che ignorava le gioie del dialogo tra pari: solo rapporti gerarchici, per lui, dall’alto in basso o dal basso in alto, magari all’insegna di supercazzole: «È un orco il cane?».

L’altro, più mingherlino, ma di più alto livello gerarchico, era un uomo grigio, incolore, affogato in una bolla di grigio: i tratti tanto comuni da essere facilmente obliterati. Rispondeva con mezze parole e mezzi sorrisi al collega, che parlava con la bocca e non diceva nulla, ma era chiaramente gratificato dal rispetto implicito del collega stesso. Anche il suo corpo parlava: «Questo stronzo è più alto di me e avrà avuto più donne di me, ma sta più in basso di me e lo sa; io sono io e gli altri non sono un cazzo».

Il 23 maggio 1967 sulle colonne del “Corriere della Sera” Dino Buzzati pubblicò questa straordinaria parabola. Una “Utopia” a modo di Orwell (1984) e di Huxley (Il mondo nuovo) più che Thomas More. Un “ciò-che-non-è-in nessun-luogo” non più per la sua perfezione e bellezza ma per la sua perversità. Con un tipico finale alla Buzzati, che sublima il sarcasmo di buona parte del racconto. Un testo poco noto e raramente pubblicato: per questo ho ritenuto di condividerlo qui.https://www.paginatre.it/online/wp-content/uploads/2016/04/Il-cammino-e-la-pietate.epub

MDT

Eliminate che furono le cosiddette ingiustizie sociali, il governo si rese conto di aver fatto, per la felicità della popolazione, poco o niente. Varie altre amarissime ingiustizie rimanevano da sanare. Ormai non esistevano più ricchi e poveri. Esistevano soltanto poveri. Tecnicamente questa era la soluzione esatta.

La vergogna delle ingiustizie consiste infatti soltanto nelle sofferenze che esse provocano. Chi ha fame soffre soprattutto perché sa che altri, coi medesimi suoi diritti, pasteggia a caviale e champagne. Se la fame la soffrono tutti e non c’è più nessuno che mangi a piacimento, è più che sopportabile. Il dolore di chi muore è la consapevolezza che gli altri continueranno a vivere: se tutti dovessero morire insieme con lui, non dico che sarebbe una festa, ma quasi. Ne consegue che l’importante non era già di sfamare i poveri bensì di affamare i ricchi. Come appunto venne fatto. Ora è innegabile che la scomparsa delle ingiustizie economiche rappresentava un gran passo avanti. Non per questo tuttavia la gente riusciva ad essere felice.

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Si erano abolite le ingiustizie dovute a una difettosa o malsana organizzazione, cioè alla inettitudine o iniquità umana. Permanevano le deplorevoli ingiustizie fisiche e intellettuali dovute semplicemente alla natura.
Perché io sono brutta e nessuno mi guarda – si domandava per esempio una ragazza di squallido aspetto – mentre la mia amica, bellissima, è assediata dagli ammiratori, e uomini ricchissimi, importantissimi e affascinanti la chiedono in sposa? Che cosa ho fatto di male? Che maggiori meriti ha quella lì? Non è una ingiustizia?
Più grave per le donne, questa disparità fisica contristava anche una quantità di maschi, nati tapini, piccoli, gracili, sgradevoli di volto. Costoro vedevano i coetanei fortunati passare vittoriosamente da un amore all’altro, varcare trionfalmente le più ambite ed esclusive soglie mondane, affermarsi negli sport, raccogliere fruttuose simpatie nel campo del lavoro. Anch’essi pensavano: perché loro sì e io no? Che cosa ho fatto di male? Non è una ingiustizia?

Ardua fu la realizzazione di questa seconda grande riforma. Difficoltà tecniche e psicologiche. Eppure, grazie all’ausilio della scienza, ogni ostacolo venne superato.
Non si potevano trasformare le arpie in veneri, i cercopitechi in apolli. Si poteva però fare il contrario, così da raggiungere un livellamento estetico che non desse più luogo a mortificanti e talora tragiche gelosie.
L’intera popolazione venne passata al vaglio da apposite commissioni. Uomini e donne favoriti dalla natura vennero schedati, quindi costretti a subire un trattamento per nulla doloroso, approntato dal ministero dell’igiene. Si trattava di semplici iniezioni le quali, a seconda dei casi, provocavano un rapido e deturpante ingrassamento, facevano esplodere repellenti macchie cutanee, rammollivano i muscoli, promuovevano una crescita abnorme dei nasi, deformavano le bocche e il seno, appannavano o rimpicciolivano gli occhi, in base a sapienti graduazioni. Nel giro di pochi anni nel paese non ci fu più una sola donna che si potesse chiamare bella secondo i classici criteri, né un maschio che potesse primeggiare per prestanza fisica.
Certo, per i minorati artificiali, l’afflizione fu grande. Tuttavia il loro sacrificio, come era già avvenuto col livellamento economico, era ampiamente compensato dalla soddisfazione dei minorati naturali i quali costituivano la stragrande maggioranza. Non più invidie, non più odi, non più complessi di inferiorità. Senza contare che, non essendo più disponibili esemplari umani di splendide forme, anche il gusto collettivo ben presto si modificò, accettando per buoni dei corpi e dei volti che un tempo sarebbero stati giudicati disastrosi. Era così tolta di mezzo una fonte inesauribile di amarezze e scontenti.
Si era infine raggiunta la soddisfazione generale, la serenità di tutti gli animi? Ahimè, una uguaglianza effettiva era ancora di là da venire.
Ben presto si lamentò un inconveniente, che del resto era facilmente prevedibile: anche se nessuno poteva arricchire, anche se nessuno poteva eclissare gli altri con la sua bellezza, anche se le condizioni di partenza erano uguali per tutti, anche se a tutti veniva somministrata una identica istruzione, già nel corso dell’adolescenza si manifestavano, da individuo a individuo, allarmanti disparità. C’erano gli intelligenti e gli zucconi, i crani pieni di fosforo e quelli pieni di ovatta.
Chiaro che nella vita i primi, che erano una piccola minoranza, avevano un netto sopravvento, accaparrandosi i posti di direzione e di comando con tutti i vantaggi relativi, sociali e materiali. Ecco dunque ancora un vergognoso privilegio, che faceva ancora più spicco di un tempo, le altre disuguaglianze essendo scomparse.
Anche in questo frangente si determinò una corrente di opinioni che diede vita a un grosso partito politico: la sua finalità, abolire questa ultima ingiustizia, fonte di infelicità per una massa immensa di persone. Ma come? Realizzando l’incretinimento artificiale delle persone più intellettualmente più dotate?

Proprio così. Per quanto mostruoso, il progetto, attraverso violente campagne di stampa, movimenti di piazza e perfino attentati, riuscì ad imporsi. E vari scienziati, nella speranza di ottenere una esenzione dalla incombente purga, si prestarono a fornire i mezzi per il ridimensionamento collettivo dei cervelli.
Inutilmente si faceva presente come, tarpate le ali agli ingegni migliori, il paese non avrebbe fatto più un passo sulla strada del progresso.
Quale progresso? si chiedeva. Il progresso scientifico e tecnico, si rispondeva. E i riformatori: A quello ci penseranno i paesi capitalisti, noi potremo sempre importarlo.
Il governo, naturalmente, era contrario, anche perché formato da uomini e donne di intelligenza supernormale i quali non avevano nessuna voglia di lasciarsela togliere. Ma le forze armate di cui esso disponeva, esercito, polizia, guardia nazionale, erano invece formate, nella quasi totalità, da teste mediocri se non addirittura da autentici somari.
I battaglioni schierati a contenere la «rivolta degli asini», non resistettero, facendo subito causa comune con gli insorti: dopo tutto, anche i soldati e le guardie soffrivano di quella superstite ingiustizia.
Una giunta, di idioti naturalmente, si impadronì delle leve del potere. Le galere non bastarono a contenere tutti i cittadini intelligenti o sospetti di intelligenza, che furono dichiarati nemici della patria. Alla periferia delle città sorsero vasti campi di concentramento.
Quindi i malcapitati furono tratti, a scaglioni, negli istituti dove, con appositi trattamenti fisici e chimici, si trasformavano le aquile in marmotte.
Dopodiché tutti si trovarono ad essere ottusi pressappoco allo stesso identico livello: con giubilo universale perché ormai anche i «castrati di mente» non erano più in grado di apprezzare i vantaggi dell’intelligenza.
Ci si accorse poi con molta soddisfazione che, non emergendo più spiccati talenti, l’amministrazione della cosa pubblica procedeva di gran lunga più ordinata e spedita di un tempo, insomma che un certo clima di cretinismo diffuso era favorevole, anziché controproducente, all’attività governativa.
Ora, finalmente, nessuno più poteva lamentarsi di ingiustizie, tranne quelle attinenti alle malattie, le quali però, in confronto al passato erano molto ridotte di numero e di virulenza. Ci si doveva dunque attendere l’avvento di una serenità, se non di una felicità generale.

linguaggio del corpo

Ultima modifica il Lunedì, 08 Gennaio 2018 18:41
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