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Barcellona Pozzo di Gotto: i deportati salvati da Don Tullio Rizzo

- di Marcello Crinò -

Don Tullio Rizzo, sacerdote salesiano, nacque a Giarratana (RG) il 19 agosto 1907. Visse in gioventù a Barcellona Pozzo di Gotto, città  dove fu trasferito il padre, appartenente alla Guardia di Finanza. La madre era la nonna materna del giornalista Melo Freni. Frequentò l’Oratorio Salesiano di Barcellona, fu ordinato sacerdote a Messina nel 1934, e operò in diversi Oratori della Sicilia. Dopo i bombardamenti della Sicilia del 1942 fu inviato nel Veneto, e a Pordenone si trovò a compiere il salvataggio di un gruppo di prigionieri italiani che stavano per essere deportati in Germania. Per questo gesto ricevette la Medaglia d’oro al valor civile dal Presidente della Repubblica. Dopo la guerra Don Rizzo tornò a Messina, dove insegnò latino e greco all’Istituto Salesiano San Luigi, e ogni fine settimana raggiungeva Barcellona per trovare la sorella e gli amici. Uno degli amici, avendo saputo della vicenda, di cui lui non parlava facilmente, lo invitò a mettere per iscritto questa operazione di salvataggio, cosa che lui fece utilizzando la forma della terza persona, anche se talvolta passa alla prima persona. Gli consegnò quindi la copia del dattiloscritto, composto da sette pagine, datato 6-III-1983 e firmato di suo pugno con una penna rossa.

Il testo che pubblichiamo è la trascrizione fedele e integrale del dattiloscritto di Don Tullio Rizzo, morto  a Messina il 25 ottobre 1990 e seppellito per sua volontà  nel cimitero di Barcellona.

(La foto di Don Tullio Rizzo è tratta da: Santo Russo, L’opera Salesiana a Barcellona, La Grafica Editoriale-Edizioni Di Nicolò, Messina, 2010).

“Una saggia voce fu – Che mel disse”

Otto giorni di vera passione furono per il povero Prete, D. Tullio Rizzo, Salesiano della Sicilia, otto giorni di immane sofferenza fisica e morale dal 10 al 18 settembre del 1943 a Pordenone. Proprio, nel pomeriggio del 10, egli se ne tornava al collegio “D. Bosco” abbastanza trampolante nelle gambe dalla Stazione Ferroviaria.  Dopo la drammatica impresa, che egli aveva osato affrontare, per dare a trenta soldati italiani, prigionieri dei tedeschi e chiusi  come bestie in vagone-merci di una lunghissima tradotta, possibilità di scappare e porsi in salvo, aveva rifiutato ogni “comfort”, gentilmente offertogli dal Comitato, proposto per la liberazione dei nostri prigionieri dalle varie tradotte. E rifiutava, altresì, ogni invito a riposarsi, rivoltogli dalle molte persone, che, a conoscenza della rischiosa impresa, si erano accorte del suo passo traballante e del suo volto emaciato e pallido del pallore della morte. “E … chi gliel’ha fatto fare, Reverendo?... I Tedeschi son diavoli in carne e ossa!... Non guardan nessuno in faccia!... Non la perdonano neppure al loro padre!... E… chi gliel’ha fatto fare?”

“Già!” – diceva tra di sé il nostro Reverendo – “Chi me l’ha fatto fare?!... “E subito ripeteva a sé stesso sommessamente, mentre gli risuonava ancora all’orecchio scultoria, la frase, che era uscita dal cuore e dalle labbra di un suo Caro Confratello Salesiano, D. Luigi Pasa, Cappellano Militare dell’Aeroporto di Aviano presso Pordenone, poco prima che una tradotta militare, caricatasi nella stessa Stazione di Pordenone di nostri soldati avieri, fanti, artiglieri, alpini, fatti prigionieri dai tedeschi, se ne partisse alla volta della Germania. “Quand’anche fosse un solo mio soldato a partire prigioniero, io partirò con lui!” Così rispondeva prontamente il tanto bravo D. Pasa – Sento tutto il sacro-santo dovere di stare coi miei soldati, viver con loro, assisterli, aiutarli!... Costi quel che costi!”

Infatti, mentre così diceva, nella commozione generale  della folla, che gremiva la Stazione, andava, correva su e giù, lungo la tradotta, a scoparne i vagoni, a riassettarvi pagliericci a portare ai vari reparti viveri, bibite ed ogni altro “comfort”, offerto dal generoso popolo di Pordenone, perché i prigionieri viaggiassero in quegli abitacoli ferroviari il men peggio che fosse possibile. Orbene, tanta squisita carità di D. Pasa, particolarmente, quelle sue commoventi espressioni al nostro Reverendo D. Tullio Rizzo, che era presente, risuonavano fortemente nelle orecchie e lo spingevano ad imitarne in qualche maniera l’esempio. Ed, ecco, proprio, presentarglisi una buona occasione subito dopo, quando, partita questa tradotta alla volta della Germania fra la commozione generale della grande folla di popolo e gli “Evviva!” osannanti e gli applausi calorosi per D. Pasa ed i suoi soldati, viene subito annunziato ufficialmente l’arrivo di una tradotta carica di centinaia di soldati italiani prigionieri dei tedeschi, proveniente da Verona.  

Poco dopo, circa le ore 17,30, l’arrivo della tradotta annunziata è accolto nel silenzio e nella commozione della folla. Poco dopo, vi serpeggia un parlare sommesso e confuso sull’azione da svolgere secondo i piani, stabiliti dal Comitato “Liberazione Prigionieri”, i sistemi di prudenza da adottare, sul tempo opportuno, in cui prudentemente intervenire per l’assalto ai singoli vagoni, onde aprirne alla svolta i carrelli e dar il “Via” di fuga ai prigionieri. Il problema, certo!... si presentava difficile per la rigida sorveglianza delle numerose scolte, piantate lungo la tradotta.

Pertanto, ecco mettersi in funzione, “lento pede” per la rischiosa avventura, un sistema fortemente preventivo, prima di arrivare al prefisso tanto ansiosamente atteso scopo della salvezza delle varie centinaia di nostri fratelli. Infatti, avreste visto numerosissimi giovanotti alti e robusti muoversi con tutta calma alla volta delle varie scolte tedesche e con serenità e gentilezza offrir loro tra un saluto e l’altro ed uno  scrosciante “Heil Hitler!” in bicchieroni da taverna liquori d’alto calibro, che pur in piccola quantità spapolare, direi, quasi, il cervello, fanno calare le tenebre negli occhi e nel cervello stesso, per far vedere molto presto lucciole per lanterne. Inoltre, a quei bicchieri di brigantesco liquore, così come per dargli una mano d’aiuto e lo “sprint” per un’assolata pace acquiescente dello spirito dei bravi Tedeschi, si aggiungevano in altrettanti capaci bicchieri vini, anch’essi, di nobile rango del gran dio “Bacco”.

“Ah, vino ‘taliano molto belo!... Ah!... Ja!... Ja!... Molto belo!”… andavano gridando i Tedeschi con già negli occhi un vivo rosso luccicore e con nelle gambe un andamento d’equilibrio instabile, e tanto instabile, che si buttavano a terra sì da non potersi rialzare sulle loro gambe!... Pertanto, poco dopo, il meraviglioso affetto di liquori e vini, dalla parte opposta della folla, solleticò e piedi e gambe e mani di uomini, donne, giovani, Preti per spingerli a correre ad assaltare ogni carro ferroviario, onde aprirne, in men che si dica, i carrelli di chiusura esterna e dar il “via” di fuga precipitosa ai prigionieri e di “fuggi-fuggi” e “scappa-scappa” precipitoso fuori dalla stazione.

Qui i fuggitivi erano attesi da un encomiabile Comitato di Giovani d’Azione Cattolica per un loro rapido travestimento in borghese con vestiti di tutte le fogge e di tutti i tagli e per un rifornimento di viveri e denaro, affinché in velocissimo viaggio si potessero avviare alla volta della montagna, dove alloggiarsi, lavorare e vivere tranquillamente lungi dalla sbirraglia tedesca.

Davanti a tanto ammirevole sacrificio di squisita carità veramente cristiana, anche il Reverendo D. Tullio Rizzo, presente alla drammatica e commovente scena, si sentì spinto a porgere qualche aiuto in favore dei prigionieri. Nello stesso tempo, a questi sembrò di vedere davanti a sé la cara figura di D. Luigi Pasa e di sentirne ancora le parole commoventi: “Quand’anche dovesse partire per la Germania un solo mio soldato, senz’altro, io partirei con lui”… Eh!… guarda, caso!... Due dei prigionieri, chiusi nel vagone, non avvicinato da nessuno e fermo davanti al Reverendo, se ne stavano, povera gente!... aggrappati l’uno a destra, l’altro a sinistra, colle mani abbrancato alle alte feritoie di aerazione del vagone, poverini!... guardavano il Reverendo in un muto ed eloquente silenzio. E … fu, proprio anche questo sguardo a spingere il Reverendo verso il vagone, non avvicinato da alcuno, ad aprirlo, pur in un estremo sforzo di braccia. E tutto questi fece tranquillo, sicurissimo dell’assenza della scolta tedesca. Infatti, aveva pur sentito gridare dalla gente che, in realtà, la scolta si era lasciata infagottare perbene dai fumi e dai profumi degli allucinanti liquori, generosamente offertile all’arrivo della tradotta.

Ma, l’opera generosa del nostro Reverendo sembrava votata al fallimento, perché i soldati, persuasi che fossero stati i Tedeschi a tirar di fianco il carrello di chiusura esterna, non cercavano neppur affacciarsi. Però, alla fine, assicurati dell’assenza assoluta della scolta dalle grida insistenti del Reverendo, se ne calarono giù in volata d’uccello un primo, un secondo, un terzo…. tutti … e … trenta, svuotando il vagone, per mettersi al sicuro al di là del muro di cinta della Stazione. Ed, in verità, di Tedeschi non se ne erano visti affatto!.... Ma, diavolaccio infame!... Ecco che, poco dopo, da un vagone di coda si parte una virata di mitra sui soldati in fuga, stendendone uno a terra, un povero bersagliere!...

Si capisce: l’aria fu incrociata di urla, grida, pianto da parte della popolazione, che cercava di correre in salvo negli uffici ferroviari, nelle sale d’aspetto, nei magazzini, fuori per la città. Il Reverendo D. Tullio Rizzo, sapendosi responsabile della fuga dei trenta militari, anche lui, fa per svignarsela velocissimo, sebbene si sentisse raggelare il sangue nelle vene. Ma, viene, d’improvviso, trattenuto da un soldatino del vagone dei trenta. Povero giovane!... Tutto infagottato in un paio di pantaloni grigio-verdi alla “zuava”, con un piede in una scarpa sgangherata, l’altro in una pantofola, indosso una flanellina leggiera leggiera e costellata di strappi!... Piccolo di statura, magro, asciutto in volto, era la fame … ambulante!... Il suo parlare tanto difficile ad intendersi: alla fine il Reverendo poté capire che era di Bari, e chiedeva dove andare, per nascondersi e sfuggire preso ai Tedeschi, giacché non era riuscito, come i suoi commilitoni, a saltare il muro di cinta  della Stazione, perché piccolo di statura. Se non altro voleva andarsene col Reverendo. Un momento, anche questo, molto più drammatico!... Quindi non c’era tempo da perdere, chè i Tedeschi degli ultimi vagoni, ai quali, chissà perché!... non erano arrivati gli allucinanti liquori, sollecitati da una spia, come poi si venne a sapere, correvano di qua e di là per la Stazione ad acciuffare, a sparare sui prigionieri in fuga. Pertanto, nel terrificante momento il Reverendo riprende la corsa sempre nell’ambito della Stazione, dando ali alle sue gambe, sebbene non ne volessero sapere, seguito dal soldatino di Bari e da una lunga teoria di persone, vecchi, uomini, donne, ragazzi, bambini, che piangevano, gridavano, terrorizzati dalla brutale ferocia dei Tedeschi. Sempre nell’ambito della Stazione, dopo una certa corsa da levar il respiro, come rifugio ai presenti all’angosciosa ansia di tutti un deposito di materiale ferroviario, diviso in due ambienti, l’uno all’ingresso, di quei due metri, l’altro, piuttosto grande, a cui si accede per una porta interna. Il Reverendo tutti si trascina dentro presto, pregando di occupare, alla bell’e meglio, tutta la stanza, pur a sistema di acciughe in barile. Quella piccola, d’ingresso a tutto il deposito, la occupa il Reverendo col soldatino di Bari e due altri uomini anziani. Questi si chiudono dentro, serrando per bene la porta esterna in una vaga speranza di farla franca alle malaugurate eventuali perlustrazioni dei Tedeschi. Ma, in verità, il Reverendo D. Tullio non ne la sentiva affatto al sicuro: il cuore gli batteva forte e tanto forte, che gli sembrava di venir meno da un momento all’altro. La preghiera di aiuto al Signore Gesù, alla Vergine Ausiliatrice, a S. Giovanni Bosco, che incessantemente da cuore gli sgorgava così piena di fede, aveva l’impressione che incontrasse qualche intoppo in gola, per non sentirsela arrivare alle labbra. E le altre forze fisiche sentiva che gli stavano tanto meno, che nel suo spirito subodorava come una certezza di avviarsi alla morte. Infatti, presentiva che da un momento all’altro bussasse a quella porta qualche soldato tedesco a snidare fuori del deposito, specialmente, due topi di particolare interesse, quale lui, il Reverendo D. Tullio, autore della fuga dei trenta soldati, e quell’altro, il soldatino di Bari, a ciascun dei quali i Tedeschi l’avrebbero fatta pagare ben cara sul momento.

Il bravo Reverendo, tentando di usare un certo mezzo di salvataggio “in extremis” dispose che il Barese per la sua piccola statura, standosene accovacciato nell’angoletto d’ingresso al deposito, si stringesse in sé al massimo, ché egli, il Reverendo, l’avrebbe coperto colla sua persona e la veste talare, fatta distendere per intero da destra a sinistra colle sue stesse mani, avendo ancora come barriera di copertura i due uomini anziani. Pertanto, raccomandavo vivamente al Barese che cercasse di non muoversi e … possibilmente non fiatasse, ché in realtà, al Reverendo sembrava di essere tra la vita e la morte imminente. 

Raccomandava, inoltre, alle persone, rincantucciate nell’altro reparto, che non parlassero, non gridassero, chè le loro voci avrebbero attirato il fiuto del “gattone tedesco”.

Ma … sì!... che c’era un bel dire … e un bel fare, ché tra il dire e il fare c’era in mezzo il mare … E c’era, infatti, in mezzo … il mare in tempesta anche per quella gente, che piangeva terrorizzata di paura … e c’era il soldatino, che, stretto in quell’angoletto, necessariamente doveva muoversi, per sgranchirsi un po’ e prendere aria; e … c’era il cuore del Rev. D. Tullio, che palpitava, chissà! Quanto al minuto e così forte, che aveva l’impressione facesse sentire i suoi battiti!... Ed ecco, infatti, ad un certo momento, un soprassalto al cuore, che il Reverendo sente un forte battere alla porta d’ingresso!... Ma…  non apre!... “Oh, Dio mio!... Ci siamo ora!”... – disse tra di sé – “E’ finita!... Signore… Maria Ausiliatrice… S. Giovanni Bosco… tutti i Santi del Paradiso, aiutatemi!”. Al soldatino stretto e costretto come un topo in quella garitta “Non ti muovere!”… diceva sommessamente. E a quell’altra povera gente del reparto attiguo, che piangeva di terrore, non trovava né sentiva la capacità in gola di gridare silenzio e coraggio anche perché si susseguivano alla porta d’ingresso altri colpi più forti, seguiti da una voce dura, imperiosa: “Aprire!” Sì!... altro che aprire!... Non me ne sentivo affatto la forza: per sé ed il Barese vedeva già davanti la morte, se non pure una strage di quell’altra brava gente di là!... Però, insistendo sempre più tempestosi contro la porta i calci, fatti scatenare non più coi piedi né colle mani ma con mitra, D. Tullio chiede alla persone dell’altro reparto con un fil di voce che cosa debba fare: “Apra, Padre, apra!”. “Apro, si!... Ma, tu, soldatino, non ti muovere minimamente!” dice il Reverendo con voce sommessa a quell’altro poverello, raggomitolato dietro di lui. Ma, in verità, appena aperta la porta, se non fu una raffica di mitra né un colpo di pistola ad accoppare il Reverendo, furono per lui le sembianze della morte, stagliate sul volto duro ed arcigno di un soldato tedesco, armato di mitra e di pistola, a penetrare nello spirito di D. Tullio come siringa di morte. Piantandosi, poi, davanti a lui, quegli l’afferra per il colletto della veste talare, mentre D. Tullio cerca di tenere colle mani  sempre più distesa la veste sulla persona del Barese, e punta a lungo i suoi occhi in quelli  del Reverendo, quasi, a volervi scandagliare “il colpo del delitto”. Questi, inoltre, temeva che da un momento all’altro lo lanciasse fuori colla conseguente scoperta del “topo”: ne sarebbe venuta certamente una doppia carneficina!... Ma, buon per lui che non si macchiò le mani di sangue, e molto meglio per il Reverendo ed il Barese, che ne furono risparmiati!... Ma!... Chissà perché?!... O perché liquori e vini bevuti anche da lui, avevano scalfito il suo cervello a metà strada si da fargli vedere un po’ di lucciole ed un po’ di lanterne; od era un buon Cristiano od un Sacerdote od un bravo soldato austriaco, che,  come tutti gli Austriaci, la cui nazione era stata accoppata, anch’essa, dai Tedeschi hitleriani ed obbligata a combattere accanto ai loro aggressori “nulla voluntate” non la sentiva per nulla a favore della bestiale ferocia di Hitler.

Pertanto, il Reverendo emise un sospirone di sollievo, quando il soldato, abbassate le mani dalle sue spalle, dà uno sguardo superficiale nell’altro reparto e, senza dir parola, “vota bordo… e se ne va!”

… Oh, veramente!... Su tutti si apre il cielo…; in tutti ritorna la vita!...” Signore, Vi ringrazio!”… grida a gran voce il Reverendo”. E veramente sia benedetto e ringraziato il Signore Dio!... Ed, in verità, qualora il Tedesco  con uno spintone lo avesse lanciato fuori, ecco… il colpo del delitto!... Accucciato nell’angoletto e reso invisibile dalla mia veste talare, tirato fuori il soldatino, che cosa sarebbe accaduto? Per tutt’e due o un colpo di pistola all’istante o… Campo di Concentramento a Dachau o ad Auschwtz od altrove… in qualche forno crematorio!... Ma la bontà di Dio non permise tanto per l’intercessione della Vergine Ausiliatrice e di S. Giovanni Bosco, tanto angosciosamente da lui pregati nel momento drammatico e, credo pure, dalla Mamma e dal Papà e degli altri Suoi (chè i cuori, che si amano pur a distanza, si comunicano i sentimenti di angoscia pur a distanza per misteriosi fili elettrici) che dalla lontana Barcellona affannosamente lo seguivano col pensiero e col cuore e colla preghiera, tanto più da moltissimi mesi (come poi al suo rientro in Sicilia dopo la guerra essi gli riferirono) non ne avevano più notizie per le drammatiche congiunture belliche.

Or, dunque, per la grande bontà di Dio, sani e salvi tutti “topi” e non “topi” se ne uscirono dal loro rifugio con profondi sospiri di sollievo e di contentezza, dopo circa un’ora, quando la tradotta, veloce perché abbastanza disappesantita, si avviava verso Tervisio per l’Austria. Alla Stazione in un determinato ufficio D. Tullio affidò al Comitato, preposto per il tutto “da fare” a favore dei prigionieri liberati il soldatino di Bari per quanto necessario alla sua ecclissazione.    

Da quei giovani del Comitato, alle cui orecchie era già pervenuta notizia della drammatica vicenda, si vede circondato con tanti segni di ammirazione ed affabilità.

Sommo, però, lo sdegno di tutti contro una spia, che, proprio, essa, quando i vagoni della tradotta rapidamente si erano cominciati a svuotare, corse subito a darne avviso alla scolta tedesca degli ultimi vagoni, a cui non erano arrivati per tempo o nella necessaria quantità gli allucinanti liquori-vini.

Da tutti si affermava la presenza di una spia in mezzo alla numerosa folla di popolo nell’attesa della tradotta da Verona. Infatti, passeggiava su e giù per la Stazione un ometto, piccolo di statura, con inforcati tra orecchie e naso grossi occhiali da sole, ed in testa un cappello estivo a larghe falde, calate sulle orecchie.

“La spia… la spia fascista…” anche D. Tullio, in mezzo alla folla, aveva sentito sommessamente passar di bocca in bocca; e la gente con prontezza gliene faceva largo. Orbene, era stato, proprio, ‘stu brav’uomo, che, quando la popolazione potè dare l’assalto alla tradotta per la fuga dei Militari, corse subito a darne avviso a quei pochi Tedeschi degli ultimi vagoni, che non erano stati stuzzicati dai famosi farmachi di Bacco.

Proprio, da qui ebbe origine, come poi si poté accertare da testimoni oculari, il drammatico marasma, che poi colle mitriche sfuriate si mutò in tragedia.

Però, quel povero uomo, “la spia fascista” dopo qualche settimana pagò caro il suo gesto di pessimo ed innominabile patriottismo con una sferragliata di mitra alle spalle.

Quest’altro fatto di sangue, tuttavia, provocò nel Reverendo tanto dispiacere, sebbene la “spia fascista” fosse stata causa di mortali incubi anche al suo spirito non solo nel momento del furibondo momento dei Tedeschi, ma anche in seguito, per tutta la susseguente settimana. Infatti, dalla sua stanza del quarto piano del collegio “D. Bosco” attraverso la finestra, ogni giorno, il Reverendo osservava la presenza di quel signore “la spia fascista”. Il suo andar lento e circospetto lungo la “Via Napoleonica”, su cui si erge il collegio “D. Bosco”; il solito cappello a larghe falde, calato sulle orecchie; il suo sguardo alquanto attento e prolungato sul nostro collegio, ed, in particolare, verso la finestra del Reverendo D. Tullio, ogni giorno, e mattino e pomeriggio, poco per volta, lo confermarono nella certezza che quell’uomo dal giorno del suo gesto ardimentoso in favore dei trenta prigionieri si fosse accertato del suo nome e cognome, della sua qualifica e della sua resedenza, per poi andarlo ad acciuffare a colpo sicuro coi suoi sgherri fascisti.

Questo il convincimento del povero Reverendo, per cui si sentiva di nuovo sparire la vita… la, ecco che, una domenica, intorno alle ore 16, il portinaio del “D. Bosco” comunica a D. Tullio la visita di due suoi amici. Ma, quest’annunzio gli fu come “doccia gelata”, alla quale tentò di sottrarsi più e più volte. Ma poi, alle insistenze reiterate e rassicuranti del portinaio, che gentilmente gli dimostrava con prove e con sempre più chiare affermazioni che nulla c’era da temere da parte di quei signori, beh!... alla fine, per quanto ancora sgangherato nel corpo e nello spirito, D. Tullio se ne scese in porteria. Dal cortile gli si avvicinarono con passo lento ed in atteggiamento garbato e dal volto sorridente due bei giovinotti: egli osserva bene in volto e l’uno e l’altro. Tanto gli vale, per assicurarsi che non c’era “la spia fascista” che aveva immaginato. Questo, perciò gli fece allargare il cuore. Ma li osserva ancora, li squadra bene in volto: erano due giovinotti dal volto illuminato da un bel sorriso. E, quasiche avessero letto il tutto il portamento del Reverendo D. Tullio, specialmente, nel suo viso chiuso e sbiancato l’interna sua paura ed una certa aria di sospetto nei loro confronti: “Oh!... Reverendo!”… dicono sollecitamente. “Non abbia paura!”… ripetono in tono alquanto carezzevole ed affettuoso. Ma, tuttavia, essi s’accorgono che egli avesse accolto quelle loro affermazioni come sarcasmo di pessimo gusto, che velava un inganno; perciò, essi con parola molto più carezzevole ed affettuosa soggiungono subito: “Siamo, Reverendo, due dei trenta militari italiani, prigionieri dei Tedeschi, ai quali, domenica scorsa, lei ebbe il fegataccio veramente coraggioso ed ammirevole di aprire, pur in barba ai Tedeschi, il vagone della loro prigione, dandone piena possibilità di fuga!... Siam venuti, dopo aver appreso da sicure informazioni il suo riverito nome e la sua residenza, per ringraziarla dell’alto gesto di umanità e carità cristiana a nome nostro e degli altri nostri commilitoni!”… “Oh, si!”… soggiunse D. Tullio “Ringraziate, piuttosto, assai il Signore… Da Lui ogni bene… ogni beneficio!... E siatene sempre degni e riconoscenti nella vostra vita!...”

Nella serata di quello stesso giorno i due giovinotti, l’uno, Tenente di Fanteria, l’altro, Tenente dei Bersaglieri, riforniti dal tanto benemerito Comitato di vestiario borghese, denaro, valigia, vettovaglie e biglietto ferroviario gratuito, se ne partirono alla volta dei loro Paesi, il primo per Marina di Pisa, l’altro per una cittadina del Milanese. Pertanto, poco per volta, ben rinfrancato nello spirito e nelle forze fisiche, cominciai a vederci veramente bene e resi infinite “Grazie” al Signore per il riuscito salvataggio di nostri numerosi fratelli, che probabilmente sarebbero stati carne da macello nelle mani dei feroci hitleriani e per la scialuppa di salvataggio, concessa pare al coraggioso Reverendo D. Tullio Rizzo. Messina, 6-III-1983.

30 gennaio 2020

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