di Giuseppe Cavarra
Tommaso Cannizzaro, nato a Messina nel 1838, era una personalità poliedrica. Giovanissimo, intraprese da solo lo studio delle lingue approdando ad una buona conoscenza del francese, del portoghese, del tedesco, del russo, del danese, del magiaro. Per tutto l'arco della sua vita coltivò la poesia, da lui ritenuta una forma di indagine sui fatti della natura e dell'uomo.
Dei suoi versi (oltre 5000 complessivamente) dissero bene il Carducci, lo Zanella, il De Amicis, il Capuana. Nel 1884 gli scriveva tra l'altro il Rapisardi: «Stupendi i vostri versi e tali da farmi vergognare delle quattro strofettucce che scrissi per voi, unicamente ispirate dall'affetto e senza punto badare all'arte. È davvero mirabile che voi sappiate con sì viva e spontanea e numerosa facilità tradurre in francese il vostro pensiero. L'anima vostra è davvero un'arpa da cui tutti i venti dello spirito [...] traggono ora soavi ora selvagge armonie». Parole più meditate gli dedicò lo storico Armando Saitta, evidenziando tra le qualità dei versi cannizzariani la «ribellione contro l'ingiustizia, l'amore per i forti e gli umili, il canto dell'affetto e il frizzo della satira».
Resosi conto che, grazie all'opera "amorosa e paziente" di Lionardo Vigo, di Giuseppe Pitrè e di Salvatore Salomone Marino, la ricerca nel campo della cultura popolare veniva assumendo in Sicilia le proporzioni che poi effettivamente raggiunse, il Cannizzaro si mise a girare per le campagne "colla matita alla mano" (sono parole sue) raccogliendo canti, fiabe, leggende sacre e profane, preghiere, canti morali, canti fanciulleschi, indovinelli, formule medico-magiche, proverbi, modi di dire, motti, aforismi, ecc. I documenti messi insieme, se pubblicati nel tempo in cui furono raccolti, avrebbero dato alla città dello Stretto un posto di primo piano nel panorama degli studi folklorici non solo siciliano.
A parte una raccolta di racconti popolari dati alle stampe da Dora Siracusa Ilacqua presso Olschki nel 1972, i documenti raccolti da Cannizzaro giacciono ammonticchiati da oltre un secolo nelle biblioteche cittadine, come tante altre "memorie" messinesi ingiustamente condannate all'oblio. Ne parlava in un incontro a Messina Giuseppe Bonomo, segnalando in particolare alcune centinaia di canti popolari raccolti dal demologo messinese sulla riviera ionica, in particolare a Roccalumera, dove Cannizzaro trascorreva abitualmente parte delle sue ferie. Tra quei canti ci sono anche quelli che da Casalvecchio Siculo veniva inviando allo studioso messinese Domenico Puzzolo Sigillo. Tra quei canti ottantacinque sono etichettati come "osceni". Cannizzaro fece di tutto per metterli a stampa, ma in Sicilia quei canti non poterono vedere la luce malgrado l'impegno del Pitrè e soprattutto del Salomone Marino.
Le ragioni del rifiuto degli editori siciliani il Pitrè le spiegherà più tardi in una lettera a Raffaele Corso, dove tra l'altro leggiamo: «Tutti gli editori di raccolte abbiamo il torto di aver lasciato al buio l'aspetto più naturale e forse più importante della vita del popolo [...] I popoli nostri son tutti a giudicare modelli di castigatezza. Ciò è un grande equivoco, anzi un vero errore, che io stesso deploro, ma che pure non avrei il coraggio di combattere, dando fuori le tradizioni scatologiche della Sicilia. Questo possono farlo giovani di impegno e di studi come Lei, freschi alla vita e senza legami di uffici pubblici. Ma Pitrè, Presidente del R. Educatorio Femminile Maria Adelaide, Deputato a vari Istituti cittadini di educazione, qui sarebbe messo alla gogna».
Fatto sta che dei suoi canti "osceni" in vita il Cannizzaro riuscì a pubblicarne nel 1886 solo settantadue ad Heilbronn nella rivista «Kryptadia: Recueil de documents pour servir à l'ètude des traditions populaires», con testo in dialetto messinese e versione in francese. A tirare fuori quei canti e a proporli al vasto pubblico provvede ora l'editore Armando Siciliano con l'opera La falce di Priapo, uscita recentemente a Messina a cura dell'autore di questa nota. I motivi che hanno segnato il processo di evoluzione della donna sul piano intellettuale, politico ed economico nel nostro Paese qui ci sono tutti, a cominciare dal maschilismo che da noi ha sempre assegnato alla donna tutte le qualità negative insite nella natura umana. Nei canti cannizzariani qualche rivincita nei confronti dell'uomo di tanto in tanto il "sesso debole" se la prende denunciando i soprusi, deridendo le assurde pretese del "sesso forte", chiedendo uno spazio che al tempo in cui i canti furono raccolti alla donna veniva categoricamente negato.
Alla cultura del popolo il Cannizzaro si accostò sem pre con amore dando alle stampe vari documenti di vita popolare, tra i quali ricordiamo: una novellina popolare messinese intitolata Cuntu lu Ciropiddhu, Frammenti di canti popolari politici, Sulla canzone di 0iolina, Les trombes marines dans la mer de Sicile, II Commento a Lisabetta da Messina e la leggenda del vaso di basilico (Decamerone, V, 4), in cui il Cannizzaro sostiene che nei protagonisti della storia infelice bisogna vedere Matteo Palizzi, conte di Novara, e la bellissima Elisa, regina di Sicilia, figlia di Enrico I I duca di Corinzia e di Boemia, andata sposa a Pietro II d'Aragona.
Nel 1894 il Cannizzaro pubblicò a Messina presso l'Editore Principato la prima traduzione integrale in dialetto siciliano della Divina Commedia di Dante. Questa la dedica: «Ai Comuni di Sicilia - questa versione nel loro linguaggio collettivo - della Visione Dantesca - dedica il Traduttore - perché la diffusione del Sacro Poema-nel popolo-vaglia a rialzarne l'idioma la cultura lo spirito - e contribuisca mercé il dialetto che iniziò il volgare illustre - al più largo e sano sviluppo - della lingua Nazionale». Nelle «Memorie Storiche e Letterarie della Reale Accademia Peloritana» scrisse della traduzione dantesca Gaetano Oliva: «Il Cannizzaro non fece una semplice traduzione in bei versi italiani, ma una traduzione, come egli stesso dice, che conciliasse la massima fedeltà con le esigenze del verso, inevitabili in una riproduzione poetica, per il che egli rinunzia non solo alla seducente tentazione d'ingrandirla e di abbellirla con immagini proprie come la più gran parte dei traduttori ha fatto, ma si è astenuto eziandio di riprodurre le allitterazioni del testo».
Il Cannizzaro non ebbe una vecchiaia felice. Nel 1905 confessava al Pitrè di sentirsi «vecchio, povero e semicieco». Sopravvisse al terremoto del 1908. Nel 1912 perdette il figlio Franz. Il 20 aprile 1915 il Comune di Messina gli assegnò finalmente la somma di lire 25.000 a patto che alla sua morte i suoi libri e i suoi manoscritti sarebbero divenuti proprietà del Comune. Quei libri il Cannizzaro li aveva comprati a prezzo di grandi sacrifici, vendendo anche proprietà a lui intestate.
Si spense a Messina il 25 agosto 1921, pressoché dimenticato. In novembre la «Tribuna» di Roma annunciava ai lettori che pochi giorni prima Tommaso Cannizzaro era «sprofondato senza echi nella sua Messina nel doppio nulla della morte e dell'oblio». La «Gazzetta della Sicilia e delle Calabrie » lo ricordò ai messinesi con queste parole: « [ ... ] volto soltanto ai suoi ideali di arte e di bellezza, non intese le ragioni della vita: non seppe, né volle sapere le moderne arti della réclame sapientemente organizzata; non seppe così assicurarsi quelle insperate, se pur effimere, glorie di cui godono oggi scrittori mirabili solo di audacia e d'ignoranza [... ] AI Cannizzaro nocque l'essere completamente poeta, privo, vale a dire, di qualunque accortezza pratica ed impermeabile alle dure illazioni che scaturiscono dalle esperienze della vita». La Messina ufficiale non si mosse alla sua morte né si è mossa in seguito per far conoscere al vasto pubblico l'opera inedita ed edita. Per la maggioranza dei messinesi Cannizzaro è ancora colui che ha dato il nome ad una strada che attraversa il centro della città, ma pochi ne conoscono le ragioni.
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