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L’attività è stata tramandata da due generazioni. I fondatori risalgono ai genitori di DE LUCA PIETRO,DE LUCA PLACIDO e RIZZO GRAZIA che svolgevano la loro attività lavorando in casa, mentre il figlio PIETRO vendeva con un carrettino che trainava a mano la granita e il gelato per le strade,ciò risale a 1946,il ragazzino PIETRO aveva solo 15 anni.Nel 1950 nasceva a BRIGA MARINA il primo piccolo e modesto BAR nella seconda PIAZZA di BRIGA MARINA,con proprietaria la madre RIZZO GRAZIA.

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Successivamente nel1965 insieme alla moglie BASILE GRAZIA, cambia sede accanto a quella attuale fondando così il primo bar col nome PIETRO.Da quei momento in poi comincia a cimentarsi con granite e gelati,studiando e elaborando tante bontà e nel 1970 si trasferisce nella attuale sede e insieme alla moglie arricchiscono e fanno crescere sempre più il bar.Dal 1990 circa i figli PLACIDO e GRAZIELLA,subentrano con tanta esperienza tramandata dai genitori e con amore e devozione(no trascurando mai,facendone anzi tesoro i loro consigli, riescono a migliorare l’attività e sperano con esperienza e professionalità di migliorarla sempre di più.

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        Intorno alla fine degli anni venti , Giovanni Assenzio, comincia la sua missione di panettiere, esercitando l’attivita’ nel proprio panificio, sito in via La Farina  Is. A. Sono tempi in cui il fornaio, lavoro duro , inizia la propria giornata lavorativa intorno a mezzanotte, per terminare verso le le ore 2 pomeridiane.

Uomo intraprendente, gestisce, un altro panificio in via Palermo, e pian piano che la famiglia cresce, viene coadiuvato dal figlio Carmelo.

Nel 1949 decide di traslocare la propria attivita’ in un luogo piu’ centrale, e precisamente in piazza Due Vie, sommita’ della Via nino Bixio, cuore pulsante del commercio cittadino.

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Anni 60   la madre di Giovanni Assenzio in una istantanea all’interno del vecchio panificio 

Grazie all’installazione di un forno di marca “TIBILETTI” , massima garanzia di qualita’, arricchisce la sua attivita’ con  un assortimento di pasticceria panaria ed una gustosissima focaccia messinese.

Nel 1975 Giovanni Assenzio va in pensione, e l’attivita’ viene proseguita ufficialmente dal figlio Carmelo, che con passione professionalita’ e competenza, continua a non demeritare fra i panifici cittadini. E come una ruota che gira, pian piano si inserisce nell’attività il nipote Giovanni,il quale  visto che buon sangue non mente,  tuttoggi continua la vecchia attivita’ del nonno,  adeguandosi ai tempi ha  ristrutturato il locale con un design moderno   Cardileforni     sviluppando la vendita con  magnifici pidoni al forno, arancini, una vasta gamma di biscotti, senza tralasciare la tradizionale focaccia con la tuma.

E’ sua la fornitura del pane alla chiesa di sant’Antonio, in occasione della festività di Sant’Annibale con circa 3000 panini, e in quella di Sant’Antonio con circa 6000 panini che poi vengono benedetti e donati ai fedeli.

I buon Giovanni, molto sensibile ad iniziative solidali e’ uno degli sponsor prioritari della festa di sant’Antonio, e in occasione della  Pasqua , durante la processione del Cristo e della Madonna, e’ solito rendere omaggio a quest’ultima  salendo sulla scala e aprendo una cesta piena di colombe bianche in segno di devozione.

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 preparazione della focaccia tradizionale con il formaggio al di sotto della scalora e pomodoro

 

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la focaccia è pronta per essere gustata

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 un  due e tre            son le cose che piacciono a me………

 

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Giovanni mentre sforna i pidoni

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per chi non soffre di diabete……..

 

 

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I Triscari

Andando in Sicilia e trovandosi nel bel mezzo di feste di paese, capita di vedere montate bancarelle con leccornie di dolciumi tra cui, accanto ad arachidi e nocciole, dei chicchi dalla forma sferica: la “calia”.
Con l‟appellativo “Caliaru” (italianizzato in “caliaro”) s‟intende chi lavora e vende la “calia” ovvero i ceci. Non si tratta ovviamente di ceci qualsiasi: la qualità è data da una tipologia molto antica di questo legume caratterizzata dalle dimensioni piccole.
Normalmente quando si pensa ai ceci l‟idea è quella che siano cotti in pentola, magari con sedano, cipolla e pasta, ma a Naso i ceci, o meglio la “calia” viene mangiata in modo diverso e ha soprattutto un significato simbolico particolare.
Abbiamo notizie del mestiere di Caliaru di Naso risalenti ai primi anni del Novecento nella figura di Campana Carmelo, capostipite della tradizione della calia a Naso. Ma ad affermare la popolarità e divulgare quest‟arte culinaria sarà il figlio Nicola Campana, nato nel 1933, che vi ha dedicato tutta la sua vita con passione e sacrificio coinvolgendo la famiglia, moglie e due figli maschi di cui uno, Carmelo Campana, continua tuttora la tradizione.

La lavorazione della calia richiede tempo, pazienza ed esperienza per far sì che i ceci abbiano la giusta sapidità e croccantezza. La tipologia del terreno e del clima non permettono di coltivare in grandi quantità questo tipo di legume, così veniva preso a Enna e Siracusa. Durante la pulitura di questi ceci veniva coinvolto tutto il vicinato che dava sempre una mano con piacere. Si procedeva quindi a preparare in una piccola giara la “sammòria”, ovvero la salamoia fatta con acqua e sale, che si aggiungeva poco alla volta ad un calderone (in siciliano “quadaruni”) riempito con semplice acqua. Preparato il fuoco con la legna predisposta a ferro di cavallo sotto il gran pentolone, si immergevano i ceci in sacchi di juta e si iniziava la conta dei secondi: intorno ad 80/85 secondi si levava il sacco e si metteva a colare. Importante in questo passaggio la ben precisa dose di sale per non causarne lo spellamento. Successivamente i ceci, tolti dal sacco, venivano messi nella maìdda (madia in italiano, indica il recipiente in legno in cui si impastava il pane) a riposare con sopra delle coperte per 15 minuti circa. Poi in una calderone più piccolo (in siciliano chiamato “menzu aranciu”) si metteva la sabbia marina, il caliaro controllava poi che fosse alla giusta temperatura per metterci a poco a poco i ceci, e iniziava lo spettacolo: con un cucchiaio di legno di grandi dimensioni girava rapidamente i ceci formando col movimento un otto; al suono scoppiettante simile a quello dei pop-corn la calia era pronta. Disposta in una cesta larga e bassa con una fascia diagonale ai lati da mettere al collo, “ „u trinnigghiu”, il caliaro Nicolino, ricorda il figlio Antonio Campana, partiva in groppa al suo asinello in giro per i vari paesini limitrofi: Militello, Frazzanò, Alcara Li Fusi, Mirto, fin quando non giunsero i tempi dell‟automobile e iniziò a montare le bancarelle in occasione di festeggiamenti di santi patroni.
Altra famiglia di Naso che porta avanti questa tradizione sono i F.lli Triscari; partendo dal padre che aveva iniziato questo mestiere grazie all‟incoraggiamento di Nicola Campana, oggi i fratelli Triscari da più di 10 anni portano i sapori di Sicilia in tutta Italia, in particolare nella zona centrale della penisola. Il procedimento per ottenere la calia è lo stesso di tanti anni fa, ma vi è una novità introdotta nell‟ultima fase di preparazione: un macchinario rudimentale, creato dalle idee di queste famiglie “caliare”, per ottimizzare i tempi e avere sempre la calia bella calda. In pratica si posiziona su una fiamma una sorta di pentola/cestello in alluminio con una estremità aperta inclinata verso l‟alto che gira di continuo con ceci e sabbia grazie ad un motorino preso per l‟occorrenza da una lavatrice.
Maurizio Triscari ci spiega che oggi è rimasta una sola famiglia a Ramacca che coltiva questa tipologia di ceci e che questo lavoro richiede molta passione e impegno perché si perdono molte ore di sonno tra la preparazione e la vendita alle feste.
Nel vedere i caliari a lavoro sono due le cose che colpiscono di più: sentirli “banniare” e il momento dell‟assaggio dei loro prodotti.
Per il venditore ambulante è solito “urlare” le qualità dei suoi prodotti ai passanti, ma nel caso dei caliari l‟invito a comprare è arricchito da filastrocche come “Signora Maria, signora Rosa, sta calia è tutta n‟atra cosa”, e doppi sensi costruiti sull‟ambiguità di parole siciliane, come ad esempio “pacchi, pacchi chini, inchitivi i pacchi”coi quali si tentava di avere la meglio sulla concorrenza.
L‟assaggio è il momento in cui il caliaro dà dimostrazione della genuinità del prodotto; ultimamente infatti sul mercato italiano si trovano ceci importati dalla Siria: la differenza, oltre che nel gusto, sta nella cottura finale fatta con della polvere bianca.
Tradizione ormai scomparsa, quella di tirare la calia addosso alle vare dei Santi in segno di devozione. C‟erano diverse persone che pagavano infatti il caliaro per tirare la calia sul santo: pratica ormai abbandonata per preservare lo stato di conservazione, spesso successivo a restauro, delle vare.

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Campana Nicola

 

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Oltre alle famiglie Campana e Triscari , han dato il loro contributo nel mestiere di caliari e continuano a farlo le famiglie Spaticchia e Caliò.

A proseguire questa arte anche una famiglia di S. Angelo di Brolo che aveva appreso i trucchi del mestiere proprio dai nasitani.
Un antico mestiere che passa tra le mani di nuove generazioni, metodi antichi utilizzati ancor oggi e arricchiti, il tutto espresso in un connubio di filosofia slow food con il finger food, ovvero gustare un cibo con le mani, in particolare la calia, accompagnata magari con un po‟ di cannellina (cannella zuccherata) in qualsiasi luogo o momento della giornata.

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Gattarello Gaetano inizia ad apprendere l’arte di ebanista nelle vacanze estive già dalla quarta elementare dal maestro Sebastiano Saitta. Dopo due anni va ad apprendere dal falegname Michele Alemanni e vi rimane tre anni. Dopo si trasferisce a Catania per altri sei mesi. Acquista sicurezza e pensa di aprire un’attività nel paese natio in C.da Martini e vi lavora per alcuni anni. Quando il lavoro scarseggia decide di trasferirsi a Bologna. Arrivato a Bologna lavora in una ditta di falegnameria per tre anni, fin quando gli operai decidono di mettersi in proprio costituendosi in cooperativa e realizzano mobili antichi su richiesta, fra questi quelli realizzati per il Cavaliere Monti a Roma e Bologna e tanti altri per personaggi influenti. Nell’anno 1982 ha nostalgia della terra natia e vi si trasferisce, e riapre il laboratorio di falegnameria in Cda Martini. Nel corso degli anni ha realizzato tantissimi mobili su richiesta. Gattarello ama questo lavoro in modo appassionato, per lui il legno parla, guarda il legno e subito pensa cosa può realizzare.

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Ricicla il legno realizzando piccoli oggetti con il torchio tipo bicchieri, porta penne, lampadari ecc. Ultimamente hanno donato alla Pro Loco di Sinagra un telaio antico del 1920 (erano dei pezzi di legno) Il Signor Gattarello ha assemblato i pezzi di legno tramite una fotografia ricostruendo e restaurando il vecchio telaio che è diventato il fiore all’occhiello del museo del ricamo che è stato inaugurato nel mese di Gennaio a Sinagra. Gattarello ha messo a disposizione della comunità di Sinagra il suo Sapere e la sua manualità in modo che le antiche tradizioni non vengono abbandonate e i giovani possono prendere esempio e salvaguardare il territorio.

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La pasticceria gelateria artigianale Calamunci si trova a Sinagra, in provincia di Messina. L’attività vanta alcuni decenni di esperienza, la gestione è prevalentemente familiare diretta dal maestro Tano Calamunci . Si è sempre curata la qualità dell’offerta con aggiornamenti, corsi di formazione e di specializzazione tanto da arrivare a un riconoscimento a livello internazionale con la vincita, grazie al gelato alla nocciola presentato al concorso organizzato tra i migliori gelatai del mondo della SIGEP a Rimini nel 2001. Prevalentemente fa uso di prodotti locali quale le nocciole, gli agrumi, il pistacchio e le mandorle ecc. Oltre ai dolci tipici siciliani con crema e ricotte, e a torte con disegni personalizzati, la ditta si è specializzata nella produzione di dolci a base di nocciola, che rappresenta al meglio a la cultura del luogo. Tra questi dolci, la crema di nocciole ha riscosso notevole successo: può essere paragonata alla nutella , da spalmare su fette di pane, crostini o farcire dolci. Non manca naturalmente il gelato nocciola , elemento di attrazione per i turisti soprattutto nel periodo estivo. Fra le offerte anche torte di nocciola, paste reali, paste di mandorla, frutta martorana ecc.. In estate il bar ha una grande richiesta anche di granita (limone, fragola, caffè con panna, more, mandorle ecc. sempre accompagnate dalle buonissime briosche, e non mancano i cornetti a mezzanotte.

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La pasticceria Calamunci, inoltre, nel periodo natalizio produce panettoni artigianali mandorlati o farciti o alla crema nocciola o cioccolato, mentre per Pasqua produce colombe e uova di Pasqua personalizzate. Insomma il Bar Calamunci è punto di riferimento e di incontro dove poter gustare un buon dolce, una granita, ecc.. Nelle serate estive vista la posizione del locale e la qualità dei prodotti si fa la fila per poterli gustare, con un sottofondo di gracidare di rane sotto lestelle. Gaetano sin da ragazzino ha fatto pratica nel Bar Foti di Capo d’Orlando, successivamente si ha aperto il locale oggi conosciuto non solo in Sicilia ma anche all’estero per la bontà dei prodotti che realizza.

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         In una, ancora assolata, giornata della prima decade di Settembre del 1934, a Letojanni,  piccolo paesino della Sicilia Orientale proprio sul mare Ionio emetteva i suoi primi vagiti uno splendido  bambino a cui venne imposto il nome GIORGIO, aveva splendidi  occhi azzurri come il mare per cui la mamma in cuor suo sapeva che il suo destino era già segnato.

La sua casa , di fronte al mare, distava dalla battigia poco più di cinquanta metri, qui il piccolo Giorgio è cresciuto, passando la maggior parte del giorno, a giocare sulla spiaggia allora piena di piccole imbarcazione da pesca, una delle principale attività locale. Queste piccole imbarcazioni fin da allora hanno esercitato su di lui un fascino particolare, tanto che chiedeva e riceveva informazioni particolareggiate su questi piccoli natanti e aiutava i pescatori nel “tiro” e “varo”  degli stessi.

All’età di tredici anni, dopo aver conseguito la licenza elementare,  andò a lavorare, quale apprendista barcaiolo, presso un piccolo cantiere navale di Alì Terme, viaggiando su uno sbuffante treno locale.

Qui Giorgio, adolescente, con molta passione ed interesse imparò le prime rudimentali tecniche del mestiere di costruzione e riparazione barche, ma sicuramente quelle poche conoscenze non bastavano all’ambizioso Giorgio, che aspirava a diventare un “Maestro d’Ascia”.

Per poter realizzare il suo sogno doveva completare e affinare le sue conoscenze, allora è andato a lavorare presso grossi cantieri navali a Palermo e Cefalù, che gli rilasciarono un attestato di frequenza  per  potere cosi sostenere gli esami ed acquisire la qualifica di “Maestro d’Ascia”  cose che avvenne all’età di vent’anni davanti ad una qualificata commissione composta da Ingegneri Navali e alti funzionari della Capitaneria di Porto.

Il giovane Giorgio, iniziò così la sua escalation professionale, dapprima lavorò, con la sua fresca qualifica, presso importanti Cantieri Navali, percependo anche sostanziosi compensi, tanto che ritenendosi in grado di poter  mantenere  economicamente  famiglia si  sposò  ancora giovane e si trasferì a Nizza di Sicilia dove iniziò in forma autonoma la sua attività e diventò “Mastro Giorgio il barcaiolo”.

Man mano che il tempo passava il garage al piano terra della sua casa e la piccola striscia di spiaggia che usava per esercitare la sua attività gli  cominciavano ad essere stretti perché la sua fama di bravo barcaiolo cresceva sempre più  e gli portavano delle commesse  importanti.

Allora negli anni ottanta ha chiesto ed ottenuto una concessione di area demaniale ad Alì Terme su cui  impiantò un bellissimo e moderno, per allora,cantiere navale per la costruzione e riparazione di barche da pesca in legno, munito di attrezzature importanti ed esponendosi finanziariamente con le banche.

La sua fama valicò i confini regionali e raggiunse la Calabria con le città marinare di Reggio Calabria, Vibo Valentia, Bagnara Calabra, Melito Porto Salvo, andò anche oltre come la Puglia,  fino a raggiungere Genova città marinara per eccellenza,  costruendo imponenti imbarcazioni da pesca.

In ognuno di questi posti veniva chiamato con nomi diversi, nella Sicilia occidentale “u zi Giorgio” nel calabrese “ mastru Giorgio”  o genericamente “ il signor Giorgio”.  

La sua attività raggiunse il suo massimo splendore costruendo barche da pesca  con stazza fino a 160 tonnellate e barche da diporto fino a 25 metri, mentre  nei mesi invernali  durante il fermo biologico il cantiere si riempiva di grosse barche da pesca che venivano tirate a secco per la manutenzione generale fra cui il calafataggio, dando lavoro anche ad oltre trenta dipendenti.

Le barche da pesca più importanti che costruì portano il nome di “Santa Barbara” con stazza di trentacinque tonnellate, “Ardito”  quaranta tonnellate, “Mosè” sessanta tonnellate, “ Kon Tiki” sessanta tonnellate,” Sicilia” ottanta tonnellate, “Orazio Padre” centodieci  tonnellate, “L’Aurora” centoventi  tonnellate e il “Paradise” di centotrenta tonnellate.

Dopo aver conosciuto la storia e la personalità del signor “Giorgio” passiamo ad esaminare la sua attività descrivendo la tecnica usata per la costruzione di una barca in tutte le sue fasi.

Dopo aver ricevuto la commessa, cercava di capire quali fossero le esigenze e le idee del proprietario e discutevano sul progetto che era personalizzato per  ogni singola imbarcazione, curandone i dettagli nelle più piccole sfumature. La bravura del sig. “Giorgio” consisteva nel dargli una forma slanciata e funzionale da rendere l’imbarcazione veloce e sicura; poi usava la sua tecnica sopraffina per eseguire i lavori di rifinitura,  che erano sempre di qualità eccellente usando materiali pregiati.

Le attrezzature che usava maggiormente nell’esecuzione del lavoro erano l’Ascia , l’attrezzo principe, il mazzuolo, le palelle , la pialla a filo, la pialla a spessore, la sega a carrello e la sega a nastro.

Si iniziava con la scelta del  legname che il nostro “ signor Giorgio”   andava a comprare e visionare personalmente, curando che fosse di pregio e ben stagionato anche se di qualità diversa in base alle parti dell’imbarcazione a cui servivano. Per  la chiglia  usava un legno molto duro e resistente proveniente dall’Africa che si chiamava “azobè” mentre per il fasciame  utilizzava un legno resinoso utile per una maggiore impermeabilizzazione ed anche altri tipi di legno.

Dopo aver preparato i singoli pezzi della barca, chiglia, prora, poppa, ordinate e fasciame che avevano  misure e forme standard in base alla stazza, si passava alla posa a piombo, della stessa su puntelli in legno, equilibrando il peso di prora e poppa con il bilanciere.

Con la posa ad incastro delle ordinate e delle cinghie, in legno di rovere,  fermate da chiodi zincate, si  formava la struttura portante dell’imbarcazione, si proseguiva con la realizzazione della  parte superiore cioè la tavola di cinta che bloccava definitivamente le ordinate.  

A questo punto la struttura della barca era completa e si proseguiva  con la chiusura della poppa e della prora per poi passare alla costruzione delle parti interne ricavando all’interno la sala macchine, la sala motori e una spazio refrigerato, destinato a deposito del pesce, e una parte di essa a deposito di attrezzi in genere. Dopo avere eseguito la fasciatura delle fiancate laterali si passava  alla posa del fasciame di coperta, fermati esternamente da chiodi zincati  la cui testa veniva ribattuta ed incavata nel legno e che  una volta stuccata, gli veniva impedito il contatto con l’acqua salmastra evitandone la corrosione.

Dalla coperta, attraverso il boccaporto, si scendeva nella parte inferiore della barca, mentre sulla maggior parte della coperta si costruiva la cabina in cui si ricavava la sala pranzo con cucina, i bagni e le camere da letto, fuori attraverso una scaletta si accedeva sopra la cabina dove c’era il ponte di comando.

Si completava l’opera con l’impermeabilizzazione del l’imbarcazione  specialmente delle parti sommerse, la cui operazione più importante era il calafataggio, cioè il sistema di evitare che l’acqua filtrasse fra le giunture delle tavole con l’inserimento negli interstizi  di canapa o corda operando con un mazzuolo di legno. Poi si procedeva ad impermeabilizzare il tutto con uno strato di pece quindi si stuccava ed infine si pitturava, ultimamente invece della pece si è usato del minio di piombo, ma sembra che questo prodotto sia nocivo per la salute.

Purtroppo, come tutte le cose della vita, tutto si evolve e tutto cambia ed oramai sulla battigia del  mare ad Alì Terme non c’è più traccia del famoso cantiere navale dello “zi Giorgio” “mastro Giorgio” “sig. Giorgio”, a tenere vivo il suo ricordo solo qualche carcassa di vecchie barche in disarmo.

Ciò è dovuto al fatto che per la costruzione delle barche si usa un nuovo materiale la “resina” e anche, perché i nostri governanti  non hanno supportato e incentivato tale attività con leggi che proteggessero i prodotti  sviluppando una politica Ittica che tenesse conto della freschezza  e la salubrità del prodotto.

Allora oggi, anche sulle tavole degli italiani, malgrado la nostra penisola sia circondata da migliaia di chilometri di spiaggia  e che a differenza dei grandi Oceani, ha una mitezza climatica che permette una pesca tranquilla e una varietà di fauna marina di specie pregiata, arriva un prodotto surgelato, derivante dalla pesca di alto mare o da allevamento, niente a che vedere con il pesce fresco, tutto ciò in nome del dio “denaro”.

Attualmente il  nostro “Giorgio” vive con una misera pensione, quasi nell’indigenza con la moglie invalida, a cui racconta come una nenia il suo passato splendore, anche se lei a causa della sua malattia neanche lo ascolta più.

Negli ultimi anni avendo fatto degli investimenti sbagliati ha dilapidato tutti i suoi guadagni e si  è indebitato con le banche e ora anche se vive ancora nella sua casetta in riva al mare a Nizza di Sicilia, ne ha perso la proprietà, e passa parte delle sue giornate seduto  sul muretto sul lungomare dove persone appassionati di mare gli chiedono consigli a cui lui risponde con malcelato orgoglio.

Quando  mi ha raccontato la sua storia eravamo seduti in riva al mare,  in una  calda giornata d’autunno, mentre  indossava una  camicia bianca che faceva risaltare il suo volto eternamente abbronzato dal sole ,preso in un’intera vita, con i capelli oramai bianchi e i suoi  occhi sempre azzurri come il mare  che mostravano la fierezza di una persona che, anche con i suoi molteplici errori, ha vissuto con pienezza.

E mentre io prendevo appunti lui sciorinava i suoi ricordi, alternando momenti di orgogliosa gioia in cui gli occhi gli brillavano come il sole a momenti di tristezza  in cui si riempivano di lacrime e nostalgia.

Quando abbiamo finito in un momento di trance ci siamo abbracciati mentre le lacrime scendevano copiose e sentimenti contrastanti, si agitavano dentro di me,  certi volte di ammirazione ma anche di rabbia, frustrazione e impotenza,  ma dopo contento mi sono avviato verso casa perché avevo conosciuto una persona che aveva saputo vivere intensamente.

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A Gualtieri Sicaminò, per un’artista avanzato in età, un uomo dalle maniere antiche, dalle mani forti ma affaticate e travagliate, che nasconde molto gelosamente e nel segreto della propria dimora delle vere e proprie opere d’arte, di una bellezza senza tempo, frutto della propria creatività e bravura.

Opere d’arte in ferro battuto, dalle curve morbide come i petali di una rosa rossa impressa su un telaio in ferro forgiato, o come i lineamenti dolci di un viso giovane di San Pio …

Ma ancor più complesse e avviluppate quando queste opere d’arte fanno da struttura e supporto a tavolini, componenti di arredo e addobbo.

Poco importa se elementari o articolate, multiformi o sfaccettate, ma ancor più importante è che tali capolavori sono la testimonianza della disciplina e della vocazione di un artigiano che dedicava la propria vita ad un mestiere difficile da realizzare, descrivere e sintetizzare in poche righe.

E’ davvero impressionante come, da semplici legature di ferro si possa modellare e dare vita a dei manufatti accurati e originali, che esprimono nell’immaginario di chi li guarda emozioni di stupore, fantasia e curiosità ……

Un professionista, esperto ferraiolo, che invita quanti ne sono appassionati ad accostarsi a tal forma d’arte, a riscoprire un antico mestiere tradizionale che, con le moderne innovazioni tecnologiche, rischia ormai di essere superato e abbandonato.  

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ICopianizierà venerdì 28 marzo, alle ore 21, con la proiezione di alcune scene del film “Matrix” presso la sede di Tulime Onlus (via S. Agnelli 5, Palermo), il primo dei tre appuntamenti di cinema e filosofia, in programma per tre venerdì consecutivi.

Cos’è la CineFilosofia? Al termine della visione di un film succede talvolta di continuare, da soli o con altri, a riflettere sui pensieri suscitati da ciò che si è visto. La cinefilosofia, così come verrà intesa in questi incontri, consiste in una interazione tra scene tratte da film, pensieri di un filosofo e riflessioni condivise tra i presenti ed il conduttore come si faceva agli albori della filosofia. Lo scopo non sarà trovare risposte definitive ma suscitare riflessione e consapevolezza per illuminare aspetti della nostra vita quotidiana lontani dalla sterile erudizione.

Programma:

Venerdì 28 Marzo – Il significato della domanda e della ricerca in Filosofia. Scene dal film Matrix, regia di: Andy Wachowski, Lana Wachowski - Usa 1999.

Venerdì 4 Aprile – Memoria e identità tra empirismo e ricerca dell’io. Scene dal film Memento, regia di: Christopher Nolan - Italia 2000.

Venerdì 11 Aprile: Platone vs Aristotele: Siamo tutti copie o originali? Scene dal film Copia conforme, regia di: Abbas Kiarostami - Francia 2010. Ospite di eccezione: Prof.ssa Maria Antonietta Malleo.

 

Dopo una breve introduzione, ogni scena dei film verrà discussa, commentata dal Prof. Vincenzo Lima ed accompagnata da un rinfresco a base di dolci fatti in casa dai volontari.

L’incasso verrà devoluto a Tulime Onlus.

Per partecipare: tesseramento 25 euro.

Info e prenotazioni: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. - tel. 091. 427460

 

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