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 - di Gino Lipari -

La prima presenza di religiosi cristiani a Marettimo risale al periodo in cui Belisario liberava la Sicilia dai Goti.

Nella vicina Trapani il generale di Giustiniano nel 535 edificava tre chiese di rito greco.

La chiesa dell’Ascensione, quella di Santa Caterina della Rena e la chiesa di S. Sofia.1

Quest’ultima fu affidata a dodici monaci di rito orientale.

Alcuni di questi religiosi si trasferirono poi nelle isole Egadi ed andarono ad abitare gli “antichi casali”. 2

A Marettimo si insediarono sul piano denominato “case romane” dove utilizzarono, quale loro abitazione, l’edificio che era stato abbandonato dai romani.

Accanto a questo i monaci edificarono la loro chiesa sotto il titolo di San Simone. 3

Furono dei religiosi molto attivi. Oltre alla preghiera e alla meditazione, secondo la regola del loro Santo4 praticarono anche l’agricoltura e utilizzarono la piccola sorgente d’acqua esistente sul luogo e commercializzavano i loro prodotti con le navi in transito da Marettimo.

Con cognizione idraulica, incanalarono, le acque della sorgente, in una cisterna fino a farle confluire, per il tramite di un sistema a catusato, sulla riva del mare consentendo così alle navi della loro patria, che praticavano il commercio con la Sicilia e l’Africa, di far tappa nell’isola e rifornirsi di acqua potabile.

La stazione, gestita dai monaci basiliani, fu utilizzata anche durante il periodo delle Crociate dove al traverso di Marettimo incrociavano le principali rotte da e per la terra Santa.

L’attività di questa piccola comunità di religiosi, che gerarchicamente dipendevano dall’Archimandrita di Messina, si spense, a Marettimo, soltando “al tempo della guerra fra il re di Napoli e gli Aragonesi”. 5

Occorrerà attendere il XVI secolo per registrare nell’isola la presenza dei sacerdoti cattolici.

Questa coincise con la costruzione del Castello di Punta Troia dove all’interno sorse la chiesa di Santa Maria delle Grazie.

Furono i Regi Cappellani, che il re nominava ed inviava nelle sue fortezze al servizio spirituale dei soldati.6   Percepivano regolarmente il “soldo” dal Real Patrimonio e nella gerarchia militare del presidio militare erano secondi soltanto all’autorità del comandante.

La consistenza delle anime del castello di Punta Troia oscillava, nei secoli XVI e XVII tra le 30 e le 60 unità8 secondo le relazioni “ad limina” 7dei vescovi di Mazara.

Ad amministrarle fu un clero, formato da sacerdoti istruiti. Erano, teologi o predicatori, rampolli dell’aristocrazia siciliana, che venivano avviati alla vita sacerdotale dalle proprie famiglie, perchè queste, attraverso il loro congiunto, intravedevano la possibilità di ricavarne privilegi e benefici economici, non che la possibilità di esercitare un controllo anche sul ramo ecclesiastico.

All’interno del forte i Cappellani svolgevano il loro ministero nella celebrazione dei riti religiosi e nella somministrazione dei Sacramenti ai militari di presidio e alle loro famiglie, non che ai relegati e carcerati che, per conto dei diversi fori, si trovavano rinchiusi nel castello per espiare la pena .

Ma il loro ufficio non era limitato soltanto all’attività sacerdotale. Svolsero nell’isola “In defectio”, compiti di pubblico notaio e rogarono atti, apoche e procure riguardanti i residenti nel castello che, a diverso titolo, non poteva abbandonare il presidio.

Così come accadde nel 1757 al relegato Giuseppe de Giober, che dovendo tenere a battesimo il figlio di un militare di Favignana, in servizio nel castello di Marettimo, ricorse all’ufficio del Regio Cappellano.

D. Melchiorre Alionora Reggio Capp.no Interino del Castello dell’Isola del Marettimo, faccio piena ed indubitata fede, per mancanza di Notaio, come il Relegato D. Giuseppe de Gioben volontariamente ha eletto e nominato per suo Procuratore al Signor Aggiutante Maggiore del Castello di S. Giacomo dell’Isola di Favignana D. Giuseppe Canino, dandogli potere e facoltà di tenere in suo nome secondo il rito della nostra S.ta Madre chiesa al sacro fonte battesimale della Parrocchia di Favignana al figlio, o figlia, nata, o sia per nascere, da Ninfa di Bono moglie di Francesco Sanna naturale dell’isola di Favignana; ed in fede del vero perché detta procura sia valida ed abbia il suo effetto ho fatto la presente siggillata col nostro sigillo. Marettimo li 2 luglio 1757. Testimoni Nicolò Beltrano, e Gioacchino Guerino. Sacerdote Don Melchiorre Alionora Reggio Cappellano Curato.” 9

Il sigillo, in dotazione al Regio Cappellano, riproduceva l’immagine della Madonna delle Grazie e veniva apposto accanto alla firma del sacerdote su ogni documento di servizio che i Comandanti del castello inviavano alle Autorità militari o all’amministrazione dell’Erario.

Diversamente questi documenti non avevano alcuna validità giuridica.

Alti incarichi rappresentarono per i Regi Cappellani il redimere gli eretici che, scampati al rogo del Tribunale della Santa Inquisizione, erano stati condannati dal Santo Uffizio alla relegazione perpetua nell’isola.

Pertanto si fregiavano anche del titolo di Rappresentante dell’Inquisizione come si legge da una procura del 15 dicembre 1765 rogata dal Sacerdote Alionora.10

“Ego infrascrittus Regius Cappellanus et Commissarius Santiss.ma Inquisitionis huius Castri Maretimi ob defectum pubblici Notaris fidem facio qualiter Marcus Torrente .….” 11

mappamarettimoL’autorità dei Regi Cappellani spesso travalicava anche le peculiarità del comandante del forte tanto che nel luglio 1803 fu proprio il sacerdote e non l’ufficiale a chiedere alla secrezia la fornitura del grano necessario al fabbisogno del castello.

“Fra Fedele Scalabrino teologo e predicatore dell’ordine di nostra Signora della Mercè e Primo Regio Cappellano e Curato dell’Isola e Forte del Maretimese. Faccio Fede a chi spetta veder la presente, come dalla Piazza maggiore, ed intiero Distaccamento della Compagnia di Dotazione si è dato l’assenso pello disbanco delle solite onze 26. 20. 19 che si fa dalla V. Tesoreria pella consueta compra de frumenti, onde in attestato della necessità mi soscrivo di mio proprio pugno, e autentico la presente con il Sigillo della Parrocchiale Chiesa di mio carico sotto titolo di Maria SS. Delle Grazie. Maretimo li 16 Luglio 1803. Fra Fedele Scalabrini, Primo Regio Cappellano e Curato.” 12

Una disposizione del Real Patrimonio ,del 1 ottobre 1791, stabiliva che a tutti i Regi Cappellani spettavano due mesi di licenza retribuiti per ogni anno di servizio prestato nei castelli.

Di tale beneficio, il 28 settembre 1825, si avvaleva Padre Bonaventura Piombi, figlio del Barone Don Leonardo Piombo di Trapani e Cappellano di Marettimo, che ebbe corrisposte, a tale titolo, sei once dalla secrezia “per i due mesi di licenza usufruiti nei mesi di Marzo ed Agosto del 1825”. 13

Con l’avvento dei Borboni, sul finire del XVIII, e per i rivolgimenti politici, la popolazione carceraria del castello di Punta Troia diventava più consistente .

In pari tempo iniziava anche il popolamento di Marettimo con la configurazione del primo villaggio dell’isola che prese il nome di S. Simone.

L’aumento demografico dell’isola poneva anche alla diocesi di Mazara, nella cui giurisdizione ricadeva Marettimo, la necessità di istituire nelle isole Egadi nuove parrocchie .

Bartolomeo Castelli, vescovo di Mazara, sin dal 1696, anno del suo insediamento nella cattedra vescovile aveva chiesto alla Regia Corte, ma senza alcun risultato malgrado l’appoggio avuto dalla famiglia Pallavicini proprietari delle isole, di poter istituire due nuove parrocchie nelle isole di Favignana e Marettimo.

La Regia Corte, aveva sempre negato al vescovo tale facoltà, anche perché spinta dai Regi Cappellani, che intravedevano nella iniziativa del vescovo una minaccia alle loro condizioni economiche.14

Il Prelato riuscirà nel suo intento soltanto più tardi e cioè tra il 1702 e il 1705.

A Favignana veniva eretta la nuova parrocchia mentre per Marettimo si adottava una soluzione di compromesso accorpando nell’incarico di Regio Cappellano anche quello di parroco.

Ma in quest’isola per far fronte alle sopravvenute esigenze parrocchiali un solo sacerdote non fu più sufficiente.

A supporto del Regio Cappellano infatti nel 1794 venne affiancato un secondo sacerdote. La variazione d’organico determinò nei due sacerdoti una distinzione rispettivamente nei titoli di Primo Regio Cappellano e di Regio Cappellano Trimestrale.

Ma anche un posto di vice Regio Cappellano, in un’isola così lontana, fu particolarmente ambito in modo particolare tra i sacerdoti, che appartenevano agli ordini religiosi minacciati dalla eventualità di una soppressione dei loro conventi.

In considerazione dei troppi pretendenti la Real Corte adottava la soluzione di facoltare cinque conventi della città di Trapani i quali avevano l’obbligo di fornire, a turno e ogni tre mesi, un loro religioso per l’ufficio della seconda cappellania di Marettimo.

I conventi interessati furono quelli dei Carmelitani, Agostiniani, Terzo Ordine Religioso, Domenicani, Paolotti, Mercedari e Francescani .15

Il compenso mensile per questi sacerdoti trimestrali venne determinato in tre carlini al giorno.16

I Regi Cappellani Trimestrali si alternavano nel servizio, oltre che a Marettimo, anche nei forti di Favignana, Colombaia, Castello di Terra e di S. Anna a Trapani.

L’aspirazione comunque di questi sacerdoti trimestrali rimaneva sempre quella di superare il loro stato di precarietà con il definitivo passaggio in pianta stabile ed occupare il posto di Primo Regio Cappellano che avrebbe consentito loro una retribuzione fissa di tre once al mese.

Un sogno questo che nel febbraio 1795 diventava realtà per Fra Fedele del Cuore di Gesù, al secolo Fedele Scalabrini dei Mercedari scalzi, che trovandosi titolare della seconda cappellania trimestrale di Marettimo, avanzava alla Regia Corte la richiesta , essendo vacante la Prima Cappellania, di avere titolarità per il passaggio al grado superiore.

Il 23 giugno 1795 infatti la Real Segreteria accoglieva la richiesta avanzata dal religioso e con decreto del Tribunale del Real Patrimonio del 20 luglio dello stesso anno Fedele Scalabrini diveniva Primo Regio Cappellano curato e Rettore della Real Chiesa Parrocchiale dell’isola di Marettimo.17

Il 29 giugno 1844, per decisione reale, Marettimo cessò d’essere Piazza d’armi. Il castello venne chiuso e con esso venne meno anche la giurisdizione parrocchiale dei Regi Cappellani . 18

Si racconta che il 29 giugno del 1844 Ferdinando II, a bordo della sua nave ormeggiata a Marettimo, venne affiancato dalle barche dei pescatori dell’isola che gridavano:

Maestà, grazia chiediamo, non ci lasci privi della Santa Messa e dell’uso dei Sacramenti”.19

Nello stesso giorno il re rientrando a Palermo, per non lasciare l’isola priva di sacerdoti, nominava con un suo decreto due nuovi Regi Cappellani da destinare a Marettimo.

Ma questi non furono tempestivi quanto il provvedimento reale infatti ritardarono il loro insediamento e così l’isola rimase per lungo tempo priva di sacerdote per celebrare almeno la messa domenicale.

La causa di tale ritardo, secondo il sacerdote Mario Zinnanti, era da ricercare nel fatto che in tale periodo,            

facevasi le pratiche d’innalzare a Diocesi, con sede Vescovile, la Città di Trapani;20 il Vescovo di Mazara per questo potè venir meno ad un suo dovere col provvedere immantinenti l’Isola, pensando che avrebbe dovuto provvedere il nuovo futuro Vescovo di Trapani”. 21                          

La nuova diocesi di Trapani , veniva affidata a Vincenzo Maroda (1803.-1854)a il quale prendeva possesso della sede vescovile solo il 24 dicembre 1844.

Il nuovo vescovo affrontava subito i problemi organizzativi della diocesi dove numerose questioni nel tempo non avevano trovato soluzione. In particolare gli antichi ed insoluti problemi legati alla questione delle numerose chiese sparse sul territorio che non venivano utilizzate, per le distanze, dai sacerdoti neanche per le messe domenicali. Dovette anche affrontare la spinosa questione legata al proliferare, in particolare in Monte S. Giuliano, di “mastri missara”, ciè di quella parte di clero che per conto degli arcipreti, parroci e beneficiali, era quotidianamente impegnato nello smaltimento della grande mole di messe perpetue che si celebravano e che aveva consentito ai parroci il godimento delle rendite annuali derivanti dall’onorare gli atti testamentari di quei benefattori che si erano preoccupati della sorte della propria anima. 22

Il vescovo non ebbe il tempo a riordinare le cose diocesi sia per la pestilenza del 1847 che per i rivolgimenti politici del 1848.

Tuttavia, facoltato dal sovrano, fece appena in tempo a nominare, in surroga dei precedenti cappellani di nomina regia ,i nuovi cappellani da destinare a Marettimo che furono i sacerdoti Giuseppe Criscenti e Francesco Bileti entrambi di Monte S. Giuliano. 23                    

Questi e gli altri sacerdoti furono soltanto ministri di una chiesa virtuale dal momento in cui mani sacrileghe avevano già profanato, devastato e spogliato di tutti gli arredi sacri, l’antica chiesa del castello.

Non fu neanche il caso di restaurarla anche perché, rispetto al paese, la chiesa risultava ormai fuori mano ed era d’incomodo e di non facile accesso per gli isolani.

Per questo la Regia Corte, a proprie spese, affittava da Nicolò Carriglio un magazzino che venne adatto ad uso di chiesa e che fu da quei sacerdori ericini “motu proprio” intitolata non più a Maria Santissima delle Grazie, ma alla Madonna di Custonaci padrona della loro città d’origine la cui immagine raffigurata su tela è ancora sull’altare dell’attuale chiesa.

Quel magazzino venne nel 1870 definitivamente acquistato dal governo quale luogo di culto24e la chiesa fu posta sotto la Vicaria di Favignana alle dirette dipendente dell’arcipretura di quell’isola riprendeva, anche se a rilento, l’attività ecclesiastica quantomeno nel corso delle festività e nelle domeniche con un sacerdote che Favignana raggiungeva Marettimo per la celebrazione della Messa. Cresime, battesimi, matrimoni ed altre funzioni religiose erano divenute avvenimenti di carattere eccezionalie e venivano celebrate saltuariamente dall’arciprete quando questi si recava a Marettimo.

Ad un clero colto che fu quello dai Regi Cappellani si sostituiva ora a Marettimo con sacerdoti ignoranti, ed arrogantei, paghi d’essersi finalmente assicurata la titolarità di una Cappellania anche se in luogo così aspro e lontano rispetto alla terra d’origine quale era Marettimo.

Preti, che da sempre avevano soggiaciuto all’autorità dei parroci sotto i quali si erano formati e dai quali aveva attinto per tanto tempo soltanto le briciole degli utili derivanti dalla celebrazione delle messe perpetue.

Ora, riscattati da quella vita di bisogno, divennero più licenziosi.

Spesso abusarono anche di quella autonomia, nelle cose della chiesa e non solo, che deriva loro della mancanza di quel controllo gerarchico che distava 30 miglia.

Andarono oltre la morale e l’altrui rispetto nel rigore dei quali erano stati educati.

Praticarono più le “taverne” che gli altari e furono artefici e protagonisti di clamorosi litigi pubblici.

Le notizie naturalmente rimbalzarono al di là del mare fino ad approdare nell’episcopio.

Il vescovo, non potendo raggiungere la lontana Marettimo, dava incarico all’arciprete di Favignana di recarsi nell’isola per far rientrare tutto nella normalità.

E così l’arciprete Giovanni Grammatico , più volte e per volontà del vescovo, dovette lasciare Favignana affrontare il pericolo del mare e raggiungere Marettimo per togliere gli scandali in quei luoghi così lontani ed abbandonati le cui anime necessitavano di pace e serenità in un clima più confacente alla religione.

Ma non sempre l’inviato del vescovo riusciva nell’incarico ricevuto tanto che il 31 ottobre del 1868 così scriveva in una lettera che inviava al vescovo di Trapani:

Mi trema il cuore e la mano quando devo scrivere all’E.S.Reverentissima, affari di Marettimo, sapendo bene quanto si amareggia il bel cuore pastorale dell’E.S. Reverentissima. Questo è stato il motivo, che ho tardato ad informarLa dei disordini di quest’isola, ma ora sono astretto dal bisogno perché le cose vanno ingrossando a danno dei fedeli [] A segno che alcuni genitori non hanno voluto amministrato il Sacramento del battesimo perché dubitano che non siano validamente battezzati [] So ancora da persone probe, che s’ingiuriano l’un l’altro vergognosamente, e quasi venuti alle mani, e quel popolo che guarda sempre minutamente le azioni dei Cappellani ne resta scandalizzato..” 25

La risposta del vescovo ferma e decisa non si fece attendere e informava l’arciprete:

relativamente ai Cappellani di Marettimo di cui forma oggetto il suo foglio [] le manifesto che colla opportunità di una barca, che l’altro giorno partì da questa per quell’isola ho scritto separatamente ai medesimi raccomandando loro la pace, la concordia e l’allontanamento dagli scandali nel servizio della chiesa poiché in caso diverso sperimenterebbero misura molto spiacevole. Le sia ciò d’intelligenza.” 26

I due sacerdoti furono poi, per decisione del vescovo, allontanati dall’isola e in loro sostituzione fu conferita la nomina, su proposta dell’arciprete, al giovane sacerdote di Favignana Mario Zinnanti che nell’isola si avvalse dell’opera di Fra Mulè da Burgio , un francescano che a seguito della soppressione del suo convento si era trasferito nell’isola e così il cielo ecclesiastico divenne più sereno27.

Ma il comportamento di quei sacerdoti , poi allontani dal vescovo, rimase indelebile nella memoria della gente che mostrava grande diffidenza nei confronti dei preti.

Tale aspetto veniva, a distanza di anni, constatato persino da quel sacerdote che nel 1951 fu nominato primo parroco di quella martoriata chiesa di Marettimo.

Così Giuseppe Vicari scriveva sul suo diario delle cose della nuova parrocchia che gli era stata affidata dal vescovo:

l’ultimo sacerdote effettivo era morto nel 1935. Nel popolo vi era molta ignoranza religiosa. Immense distanze tra sacerdote e uomini. Assenza assoluta della vita eucaristica. Molta superficialità in qualche pratica religiosa. Trascuratezza nella frequenza dei Sacramenti. Molta leggerezza nella relazione fra fidanzati. Nel campo sociale poi esisteva soltanto un circolo denominato Hiera. Politicamente poi non trovai un indirizzo definito, non esistendo alcun partito organizzato. Credo che il popolo si orientasse verso qualche avventuriero che per primo fosse capitato nell’isola. Come ho trovato la Chiesa ? Sembrava una catapecchia o addirittura a detta del popolo una stalla.”.28

Elenco dei Regi Cappellani dell’isola di Marittimo riscontrati nel corso della ricerca:

Melchiorre Alionora(1758) , Salvo Canino(1759), Giovan Battista Montalbano (1764), Giacomo Sara (1769) Ippolito Barraco (1782), Pietro Felice (1785), Giovanni Felice (1788) Fedele Scalabrini (1803), Bonaventura Piombo (1814), Gaspare Mazzara (1782),(aggiungere altri nomi) Giuseppe Rizzo (1854), Gaetano Amoroso (1825)

Sacerdoti dell’isola dalla chiusura del castello in poi:

Giuseppe Criscenti , Francesco Bileti , Vito Gammicchia, Giuseppe Tranchida, Francesco Amico, Giuseppe Li Volsi, Paolo Bevilacqua , Giuseppe Rizzo, Vincenzo Guadagnino, Giacomo Giardina, Leopoldo Amore, Giovanni Fulco , Didaco Mineo, Vito Tartamella, Nicasio Adragna, Mario Zinnanti (1875), Francesco Vaccaro (1877) Fra Antonio Mulè (18??) , Andrea Simonte (1900), Michele Scaduto (1927), Giuseppe Pisciotta (1935), Francesco Santoro (1938), Luigi Orecchia (1942), Giuseppe Scaduto (1942), Alberto Jacopino (1944) Giuseppe Vicari (1946), Girolamo Campo (1963).

 


1 Mario Serraino, Trapani nella vita civile e religiosa, Trapani 1968, p.172

2 G.F.Pugnatore, Historia di Trapani, prima edizione dall’autografo del secolo XVI a cura di S.Costanza, Trapani 1984 pp.59-60

3 Ibidem pp.25 – 221 n.31 in aggiunta nel ms.Di Ferro[..]et accanto al rivo dell’acqua già mentovato, un oratorio a san Simone dedicato”.

4 S. Basilio un santo venerato in oriente

5 G.F.Pugnatore, op.cit.p.60 “I quai Trapanesi per relazione de’lor padri et avi saputi gli hanno, essendone gli altri andati dopo quellem guerre in oblio, che fra i re di Napoli e gli Aragonesi duraron lungamente; di modo che anco essi casali ne restarono all’ora abbandomnati

6 Legazia Apostolica era il privilegio di funzionare da legato del Papa nell’isola e di impedire quindi eventuali appelli al Vaticano Con la Bolla “Quia propter prudentiam” di Urbano II del 1097al conte Ruggero il quale aveva ripristinato in Sicilia la fede cristiana la funzione di legato permanenete (Apostolica Legazia) In forza di quel conferimento di poteri i re di Sicilia ritenevano di essere gli unici a poter esercitare la giurisdizione “in spiritualibus” quali legati nati dal Pontefice.

8 Gaetano Nicastro, La Sicilia occidentale nelle Relazioni “ad limina” dei vescovi della chiesa mazarese (1590 – 1693), Isrtituto per la storia della chiesa mazarese, Trapani ,1988, p.90 . Trattavasi soltanto dei militari e le loro famiglie. Nelle relazioni vescovili non erano infatti considerate le presenze dei relegati.

7 Le relazioni “ad limina” erano le relazioni sullo stato della diocesi che ogni vescovo era tenuto a presentare al sommo Pontefice.

9 AST, Fondo Atti notarili diversi n. 1853 Anno 1752-1768

10 Il Tribunale dell’Inquisizione in Sicilia operò dal 1487 fino al 1782. Cessò sotto il vicerè Caracciolo con decreto reale del 16 marzo 1782 . Un anno dopo, il 27 giugno, su ordine della Corte di Napoli, cui non furono estranei membri dell’aristocrazia siciliana, i quali temevano che ne sortissero rivelazioni compromettenti fu purtroppo dato alle fiamme l'’archivio, disperdendosi in tal modo una ingente quantità di documenti. Il sacerdote Alionora probabilmente dovette essere quindi l’ultimo rappresentante del Sant’ Uffizio a Marettimo

11 AST, Fondo Atti notarili diversi n. 1853 Anno 1752-1768

12 AST fondo Secrezia

13 AST fondo Secrezia , spese amministrazione giustizia, n. 243 , 1821.

14 Gaetano Nicastro, La Sicilia occidentale nelle Relazioni “ad limina” dei vescovi della chiesa mazarese (1695 – 1791), Isrtituto per la storia della chiesa mazarese, Trapani ,1989, p.39

15 AST fondo Secrezia, n. 262 provvedimento del Real patrimonio del 23 giugno 1795

16 AST fondo Secrezia, n.

17 AST fondo Secrezia , , n. 262 lettere originali.

18 Mario Zinnanti, Cenni storici delle Isole Egadi, Tip. G.Genovese, Monte S.Giuliano 1912, p.18 -24

19 Ibidem p. 24

20 Con Bolla del Papa Gregorio XVIUt animarum pastores”del 31 maggio 1844 Trapani diventava diocesi e la sua giurisdizione comprendeva oltre la citta capolouogo i Comuni di Monte S. Giuliano, Paceco, Xitta, Egadi e Pantelleria

21 Mario Zinnanti , op. cit. p.25

a Questa la cronologia dei vescovi della diocesi di Trapani: Vincenzo Maria Maroda (1844-1854), Vincenzo Ciccolo Rinaldi (1853-1874), Giovan Battista Bongiorno (1874-1879), Francesco Ragusa (1879-1895), Stefano Gerbino(1895-1906), Francesco Maria Raiti (1906-1932), Ferdinando Ricca(1932-1947),Filippo Jacolino(1947-1950), Corrado Mingo(1950-1961) Francesco Ricceri(1961- 1978 ) Emanuele Romano (1978-     ) Domenico Amoroso (         ), Francesco Miccichè (

22 Vincenzo Adragna, Monte S. Giuliano, chiese e clero dal 1200 ai primi del’900, Paceco 1997, p..34

23 Mario Zinnanti, op. cit. p. 25

24 Ibidem p.26

25 AVT, lettera dell’arciprete Grammatico al Vescovo di Trapani

26 Ibidem , nota autografa del vescovo diretta all’Arciprete di Favignana.

27 I nomi dei sacerdoti che dettero orine agli scandali, per scelta dell’Autore sono stati omessi. Anche se i fatti risalgono ad oltre due secoli fa,ed essendosi verificati in una piccola comunità quale è Marettimo e ritenendo che possano dare adito, a chi, non comprendo lo spirito della storia, a balorde speculazioni che nulla hanno ormai hanno a che vedere con la realtà odierna dell’isola. Pertanto, nell’elenco dei sacerdoti di Masrettimo non vengono riportate le date in cui questi i protagonisti operarono a Marettimo.

28 APM, dal diario del sacerdote Giuseppe Vicari. 1951.

foto brid- di Rachele Gerace -

Non è impresa da poco discendere nell’anima di un libro e risalirvi con delle riflessioni in grado di orientare il lettore a leggerlo, a maggior ragione se si tratta di un volume in cui l’autobiografia interagisce con il discorso sul divino. In tal caso, la palpitante realtà esistenziale, il racconto e il sogno si intrecciano in un singolare percorso, dove la ricerca agostiniana è il dato costante per andare oltre la fragilità e la precarietà della condizione umana.

È possibile verificare tutto questo ne L’infinito nel cuore. Dialoghi sulla spiritualità (ed. Di Lorenzo, Alcamo 2013), presentato martedì pomeriggio, nell’Aula Magna del Rettorato dell’Università degli Studi di Messina. A discuterne con monsignor Raspanti, autore del testo, le docenti Paola Radici Colace, ordinario di filologia classica e Maria Antonietta Barbàra, associato di letteratura cristiana antica presso l’Ateneo messinese, la dottoressa Lorenza Mazzeo, medico e l’editore Ernesto Di Lorenzo.

Nel volume scritto sotto forma d’intervista, il vescovo illustra la sua autobiografia spirituale e intellettuale, come scrive Massimo Naro nella prefazione. Rispondendo alle domande di Baldo Carollo, monsignor Raspanti riflette su vari temi che abbracciano, tra l`altro, il dialogo interreligioso, la fede, la spiritualità dei giovani, e la santità. Riguardo i temi della Verità, della Libertà e dell’Amore, si giunge a delineare anche un parallelismo tra Socrate e Gesù, descrivendone convergenze e differenze.

In questi dialoghi sulla spiritualità si evince l’incontro con Dio che per il presule è avvenuto nel silenzio:“Dal silenzio ho scoperto che Dio abita dentro di me, fu la scintilla che accese il mio fuoco; e scattò la scelta radicale. Io non ho incontrato Dio attraverso la natura: molti lo hanno riconosciuto nella bellezza del creato, nell’armonia della natura con le sue forme, i suoi colori, i suoi richiami, i suoi rimandi. Non ho nemmeno conosciuto Dio dall’incontro decisivo con una persona: molti si votano a Dio grazie a una testimonianza, a un maestro spirituale. Nel mio caso non è stato né l’uno né l’altro: la mia scoperta di Dio è cresciuta come una pianta dentro di me, dal seme del silenzio. L’ho riconosciuto rientrando dentro di me agostinianamente”.

Massimo Naro e Baldo Carollo, i prefatori mettono in luce, muovendo da punti di vista diversi ma complementari e convergenti, la storia di una ricerca che si manifesta attraverso il metodo dell’intervista. Siamo negli anni Settanta che videro sulla scena l’agitazione del mondo studentesco, anche se nella periferica Alcamo, cittadina di un’ovattata provincia di Sicilia (Trapani) ne furono vissuti solamente i riflessi. Da studente liceale, la sua scelta di giovane cattolico è quella dell’impegno responsabile (come non ricordare la pedagogia di don Milani e l’esperienza della scuola di Barbiana). Egli ama raccontare aneddoti, riferisce di esperienze teatrali, cita gli autori che allora si leggevano, tra cui Siddharta di Hermann Hesse o Eros e civiltà di Marcuse; ma è la lettura del Vangelo, oltre alla guida dei maestri spirituali ricordati con una punta di orgoglio, a immetterlo in un cammino di fede “fondamentalmente lineare, graduale, senza salti”. Quando il dato dell’individualità, ancorché necessaria, si eclissa, ecco l’apertura della narrazione ai grandi problemi del bene e del male, della testimonianza nel dolore, del nascere e del morire, sulla genesi, la funzione e il destino dell’anima. Gli schemi interpretativi destano interesse, risultano modulati sul linguaggio dell’ossimoro e dell’ambiguità del reale (a partire dall’analisi di Gianni Vattimo), e individuano la connotazione essenziale della post-modernità nella “rinuncia ai grandi orizzonti di senso”.

Intense, degne del pensatore acuto che spazia dalla letteratura al sapere scientifico-antropologico, nonché del religioso attratto dall’esperienza dei mistici, le pagine sul dolore come “prova” e sulla “gioia” che, vista nel mattino di Pasqua, “cambia di segno” il senso della sofferenza. Soltanto alcune tracce, queste, che potrebbero bastare a stuzzicare l’attenzione alla lettura di questo godibilissimo libro sul cristianesimo e la sua fede: potrebbe sicuramente porsi come supporto della costruzione di una cultura “meno debole”, più decisamente schierata dalla parte di ineludibili prospettive escatologiche.

Il titolo, già abbastanza intrigante, manifesta quel sentimento che, durante l’esperienza del “passaggio”, si concretizza nella scoperta del Dio vissuto, del suo silenzio, della sua voce “che chiama e riecheggia”, nell’ossimoro del “silenzio che parla” e che è si lega a quell’esigenza di recuperare quel lessico filosofico e mistico necessario per comunicare con l’Essere supremo, vincolo di trascendenza e di immanenza.

 

 

 

Trascrivo, da un vecchio manoscritto di Torre Faro, un’antica versione del Patri nostru sicilianu, invitando i miei concittadini e i siciliani tutti a inviare a questa testata altre versioni dialettali – è presumibile ne esistano molte - della stessa preghiera fondamentale.

 

 

PATRI NOSTRU SICILIANU

 

 

Facemunni la vera, santa cruci,

chidda ch’è stata a lu munti Cabbariu:

mi nni dugna a ‘razia e ‘a vera luci

lu patri nostru sicilianu.

 

Patri nostru chi stai ntà l’altu munti,

comu sarbasti li passi e li punti,

comu sarbasti ‘nta macchia la via,

sarba a ma figghiu cu la so cumpagnia.

 

Ma figghiu matineddu si isau

e cu lu pedi rittu si quasau,

appoi sinni annau a la muntagna

e vitti un bravu cacciaturi

cu na vistita magna.

 

A ma figghiu cu ci avi a fari tottu

mi avi u cori mottu,

nui autri amici e boni parenti

facemunni la vera santa cruci

e non c’è paura ‘i nenti.

 

Cu la grazia di Diu.

 

Aggiungo la versione dialettale (molto più armonica) del Padre nostro siciliano, inserita da Edoardo Giacomo Boner in Chiasso dei Marini, una novella della raccolta Sul Bosforo d’Italia, da lui pubblicata a Torino nel 1899.

 

Adoramu a sta vera Santa Cruci,

Chidda chi scisi di munti Carbariu,

Ddiu mi pozza dari menti e luci,

Lu paternostru di San Giuliano.

 

Come sarbastu li passi e li punti,

E comu sarbastu Enoccu ed Elia,

Sarbati Vanni e la so cumpagnia.

 

Vanni sta matina si livau,

Avanti a la porta si sidiu,

Li so nimuci cascaru a buccuni,

San Giuliano accompagnulu tuni.

Vanni si surgiu e annau a chiazza.

 

Pe vvia c’incuntraru i so nimici,

Vanni avi una forza di liuni

San Giuliano accompagnulu tuni.

 

 


 

Patri nostru, chi ‘ssì ‘nni li cèli,
sia santificatu lu tò ‘nnòmu,
vegna lu tò ‘rregnu,
sia fatta la tò vulintà.

Danni oj lu nostru pani jurnalèri,
e ‘ccancèlla a ‘nnuàtri, li nostri debiti,
comu nuàtri, li cancillàmu a li nostri ‘ddibbitùra,
e u’ ‘nni spingiri ‘nni l ‘ntantaziòni,
ma libbiracci di lu mali,
e accissì, sia.

Il Padre nostro dei Cattolici,
tradotto nella neo Lingua siciliana,
di Rosario Loria di Menfi (Pa)

MICHELE ALFANO - Invito mail e facebook FILEminimizer

- di Maria Teresa Prestigiacomo -

MICHELE ALFANO

“COME MATERIA CHE LENTAMENTE SCORRE”

a cura di Antonio Vitale

coordinamento di Giuseppe Vitale

sabato 2 aprile, ore 18

Catania. Allo SPAZIOVITALEin di Catania, dal titolo “Come materia che lentamente scorre” a cura di Antonio Vitale ed il coordinamento di Giuseppe Vitale la personale di Michele Alfano, segue l’esposizione di Beppe Burgio dal titolo “Ero Adesso”.

“Tutti gli sguardi hanno un’origine, sicché potremmo dire che il punto di partenza dell’esplorazione pittorica di Michele Alfano trovi ed usi la figura umana in ogni sua esibita circostanza relazionale, raffigurandola a mezzo busto o incorniciandola nell'attenzione particolare di un viso, nel sentimento di un volto. […]

La tendenza di Alfano nel tempo è infatti quella di usare i colori con lo scopo di creare una sua idea di espressionismo, che veleggia in una doppia armonia oscillante tra l’ambiente pittorico delle sue tele e le sue figure immerse in una continua trasformazione, palpabile e visibile al punto tale da conferire a ciascuna un significato interiore, un potenziale espresso, un mutamento sempre atteso. Circa l’uso che fa poi del continuum di immagini, mediate dalla vita e dal suo vivido immaginario, troviamo che la materia pittorica sia sempre pastosa, fluida ma non liquida, percettivamente magmatica e per questo destinata a scorrere lentamente sulle superfici delle sue tele. […]

UNA MOSTRA IN EQUILIBRIO TRA REALTÀ E FANTASIA, TRA PENSATO E TACIUTO.”

 

INFORMAZIONI…

 

Mostra Personale di

Michele Alfano

“COME MATERIA CHE LENTAMENTE SCORRE”

a cura di Antonio Vitale

coordinamento di Giuseppe Vitale

 INAUGURAZIONE - sabato 2 aprile, ore 18.00

 A.C. SPAZIOVITALEin – via Milano 20, 95126 Catania

fino a martedì 26 aprile 2016

martedì>sabato 16.30>20.00

domenica> 10.30>12.30

La devozione alla Madonna della Lettera non ha origini recenti come si potrebbe pensare.  Sicuramente i messinesi, fino al ‘400, veneravano come Patrona S. Maria della Scala.

- di Giovanni Cammareri -

Fosse stato un brusco risveglio avrei potuto pensare di essermi svegliato in un tardo pomeriggio di fine novembre. Tanto era il vento freddo e, come se non bastasse, a tarda sera il rombare dei tuoni annunciò l'imminente pioggia.

Mi avessero poi portato in un posto senza dirmi dove, avrei potuto scommettere di essermi trovato…che so, beh, diciamo in ben altre latitudini.

Poco, del resto, suggeriva la lunghissima teoria processionale che mi scorreva davanti. Ampie le strade, abbondante il verde circostante, emotivamente staccata quanto basta la gente sopra e vicina i marciapiedi ad assistere; ecco, ad assistere. O almeno così mi è sembrato.

Quindi solo canti liturgici irradiati da amplificatori dislocati lungo un percorso ingentilito dai pennacchi dei carabinieri in alta uniforme, dalle eleganti mozzette dei confrati e da stendardi di ogni forma e misura. Ne ho contati cinquantasei. A rappresentare confraternite, parrocchie e quant'altro. La maggior parte del luogo. I rimanenti sodalizi erano giunti a Messina - sì Messina, in Sicilia cioè, altro che luoghi distanti- da paesi limitrofi, giusto per partecipare, anzi, essere presenti alla festa patronale. Già, patronale: 3 giugno, locale ricorrenza della Madonna della Lettera. Uffici e negozi chiusi, giornata di vacanza, città semideserta. Soprattutto al mattino.

Chissà perché; diciamo per la mattinata altrettanto piovosa. Voglio crederlo. Insomma, di feste patronali ne avevo viste abbastanza, qui in Sicilia. In diversi anni ho avuto modo di essere partecipe a momenti di gioia collettiva dove ogni fede locale viene esaltata da impennate emozionali davvero incontrollate, talvolta ai confini della ragione. Senza essere per questo blasfeme o irriverenti nei confronti del santo condotto in mezzo alle strade di questo o quel paese o città. Imponenti luminarie e bande musicali, giaculatorie e fumo di moschetterie. Per non parlare delle attese, ore di vigilia che elettrizzano l'aria in un brulichio continuo, incessante, fatto da gente mai soddisfatta di pulsare assieme al cuore della festa. Folle immerse nei consueti, tipici odori dei giorni sacri siciliani, felici di essere lì, nella piazza principale del paese, ossia al centro del mondo: trovarsi al centro del mondo e partecipare, ecco, partecipare a suo modo, santo cielo, senza tante correzioni ecclesiali.

Bella città, Messina, bella e coraggiosa, capace di rialzarsi dopo ogni caduta pesante, dopo ogni tonfo voluto da un destino beffardo, troppo spesso eccessivamente crudele nei suoi confronti. A volte mi ricorda così tanto la mia, di città. Perché se penso che l'andamento delle loro storie sia andato in parallelo, non credo di sbagliarmi. Due città geograficamente, perfettamente opposte, che sempre si sono guardate. Se un privilegio riguardava l'una, subito veniva chiesto dall'altra, che l'otteneva. Per le fiere franche, ad esempio e per le feste patronali dei nostri giorni, purtroppo, per il modo tiepido che hanno nel viverle, queste due città distanti e sorelle, legate dalla storia arrivata dal mare e dalle bombe piovute dal cielo.

Questo pensavo mentre la Madonnina d'argento, circa trenta centimetri di devozione, mi passava accanto. Dietro la statuetta i fiori sembravano comporre una sorta di fungo con all'apice una piccola teca contenente una singolare reliquia: frammenti di capelli che si dice appartenuti a Maria! Ecco, è forse questa la cosa più curiosa della processione. Nel 42 d.C., a bordo di un vascello giunse a Messina una lettera inviata proprio dalla Madonna ai primi cristiani della città.

La fede o la credenza vuole che quella lettera fosse legata da una ciocca di capelli della Vergine e che quei capelli vennero distribuiti nei posti dove più forte era la devozione mariana, soprattutto nel Messinese. A Monforte San Giorgio sembra che di questi preziosi frammenti ne siano giunti addirittura tre. Il sabato precedente la prima domenica di settembre di ogni anno, viene fatta perciò una sentita festa chiamata d’u capidduzzu 'i Maria. Ma questa è proprio un'altra storia.

 

 - di Giuseppe Burgio -

A Palermo non c'ero mai stato, ed avevo vent'anni compititi : Tutte le mie conoscenze turistiche allora si limitavano a Palma Montechiaro e a Ravanusa. Ero stato. anche ad Agrigento,. una sola volta, di corsa e in fretta.

In compenso ero dotto di geografia, appresa nella scuola, Sapevo delle più grandí metropoli del mondo: Londra, New York, Tokio, Mosca, Montevideo, Buenos Aires, Città del Capo, Shanghai; di Parigi e del la torre Eiffel, del Museo del Prado e della Plaza de toros, dell'affascinante Siviglia sulla foce del Guadalquivir!

Fu nell'autunno del '43 che poté finalmente realizzarsi il sogno di visitare una città importante, di vederla con i miei stessi occhi, di ammirarla di presenza. Ero iscritto all'Università di Palermo, nella facoltà di lettere, e dovevo sostenere i primi esami. Fra giorni sarei stato proprio a Palermo, - ne ero sicuro - avevo i soldi del biglietto per i1 viaggio di andata , e ritorno, e gli altri occorrenti per soggiornarvi una ventina di giorni, o anche per mese; il tempo necessario per sostenervi gli esamii di letteratura italiana, di storia contemporanea, di archeologia.

Sapevo già dai libri che Palermo é una gran bella città, con le strade larghe e dritte:         Via Rorna, Via Maqueda; sapevo ' dei Quattro Canti di Città e dei Quattro Canti di Campagna, di Corso Tulcory, della via Lincoln, del lungomare e del porto, del viale della Libertà, fiancheggiato di alberi; poi delle sue chiese famose: la Cattedrale con la tornba di Federico II, la Casa Professa, capolavoro dell'architettura barocca, S. Giovanni degli Eremiti, la Martorana, i Cappuccini; infine il Teatro Massimo, Piazza Politeama, la Palazzína Cinese.           -

Distante pochi chilometri, Monreale, con la famosa Cattedrale e il Chiostro, gioiello dell'architettura araba.

Ero perciò felicissimo, mi ero preparato anzi tempo le valigie, rileggevo le illustrazioni che avevo: Palermo carica di storia fenicia e greca`di storia araba e normanna , Palermo al tempo della dominazione angioina, Palermo sotto gli Aragonesi...    ,

La Conca d'Oro e i giardini lussureggianti, Termini Imerese, Altavilla Milicia, Santa Flavia, Solunto, Bagheria; Monte Pellegrino che si staglia sul Tirreno, il golfo incantevole con il mare azzurrissimo... ...    

Già li vedevo come se ci fossi arrivato, come in un delirio mi   pareva di   essere ul Golfo di Termini, tra i villini e la fitta vegetazione di aranci e di limoni, e , guardavo dalle terrazze ariose di Altavilla, godendomi un panorama suggestivo.

Panormus - dicevo a me stesso – significa tutta porto, nell’ etimologia della língua greca antica. Quindi potrò vedervi i grandi transatlantici, quelli che fanno le rotte degli oceani; potrò vedervi qualche nave portaerei, le petroliere giganti, vere città galleggianti.

Trasmettevo la mia gioia -a tutti, agli amici che incontravo e a tanti altri dicevo che fra 'qualche giorno sarei stato a Palermo, capitale della Sicilia.

E finalmente partii. Di mattina prestissimo, con altri universitari del mio paese, dalla,stazione di Licata, in una calda giornata dei primi di ottobre, in un vagone carro bestiame, stracarico di gente.

In piedi e senza posto, appoggiato allo spigolo di una grossa valigia di legno, ch' era sistentata per tutta la sua altezza, rannicchiato in un angolo , con il respiro limitato. Il vagone carro bestiame era stracarico di gente d'ogni sorta che si portava appresso le cose più impensabili : sacchi di frumento, scatolame, polli vivi, uova, panieri di frutta, bevande per il viaggio. Era difficile spostarsi anche di poco per permettere di scendere in qualche stazione a qualcuno che lo volesse, difficile o addirittura impossibile salire. Un viaggio che mi sembrò lungo e interminabile, fra gente che gridava e imprecava alla guerra e a chi l'aveva voluta, causa di tanta sofferenza, di tanti inutili guai.

Con l'arsura nel corpo e con il respiro grosso, senza aver visto un pizzico di Conca d'Oro e di mare, giungemmo, nel pomeriggio, alla stazione di Palermo. Io stanco e distrutto, i miei amici anche. Avevo le idee confuse. Eravamo esauriti, come -.se fossimo usciti da una impresa -difficile e lunga, provati da una- grande fatica.

Poi - non ricordo come - mi trovai, insieme agli altri, in uno stanzone di un palazzo vicino all'Università, in piazza Ponticello.      

Uno stanzone desolante, con i muri ammuffiti, con una porta cadente e che non la si poteva chiudere, con una finestra senza vetri, con dei letti sgangherati.

Ma la stanchezza fu più forte di tutto e mi buttai - vestito com'ero - su una specie di ma terrazzo sopra una branda arrugginita e traballante. I miei amici fecero lo stesso, stanchi e distrutti al pari di me.

Ci svegliammo ch'era tardi, le dieci o le undici di sera, forse per la fame che ci divorava perché nel treno, durante il viaggio, ci era stato impossibile prendere un boccone.

Indignali dell'avventura. 'trascorsa, ma rifattici dalla stanchezza, aprimmo le sporte per dar fondo alle provviste: grosse pagnotte, formaggio, frittate d'uova, .salame, vino rosso, frutta, dolci., Sembrava che non avessimo mangiato da parecchi giorni, tanto fu l'appetito, e tanta la furia nel divorare tutto, quel ben di Dio. .

Allora tornò l'allegria e la conversazione vivace; qualcuno di noi si mise a raccontare barzellette, e propose agli altri di uscire, anche se era la mezzanotte.

E il lungo, infelice viaggio in carro bestiame?

Un’esperienza certamente   nuova e molto interessante, che di lì a poco avremmo sicuramente ripetuto, dopo che Palermo, con l'infinità delle sue case e dei suoi palazzi distrutti dai bombardamenti aerei della guerra recentissima, e con le sue macerie fresche, si sarebbe dispiegata tutta ai nostri occhi nella stia realtà più pietosa.

In quelle poche settimane ivi trascorse per sostenervi i primi esarmi , tutto ci fu difficile; finite le provviste che ci eravamo portati appresso, ci arrangiammo alla meno peggio, giorno per giorno gironzolando nella confusione della Vucciría e degli altri mercati per reperire un po’ di cibo da mettere nello stomaco.

Riuscimmo finalmente a sostenere ciascuno i nostri esami, e riprendemmo la via del ritorno, di nuovo in carro bestiame; ingoiai molto fumo, nero e denso che usciva dalla locomotiva, nelle gallerie di Marianopoli e di Caltanissetta Xirbi, e mi sembrava di morire asfissiato.

Fui felice finalmente quando su quella specie di treno, giunsi al mio paese. Anche se non ero riuscito a vedere la' Conca d'Oro con i suoi lussureggianti giardini, né la Cattedrale di Palermo dove dorme Federico II, e neppure il grande porto, con le navi ,i portaerei e i grossi transatlantici, che sono come città galleggianti.

  di Carmelo Trasselli

Queste pagine(apparse per la prima volta sui Quaderni Meridionali del 1972 n.d.RR) raccolgono pochi appunti cui aveva dato occasione la lettura della Storia degli Ebrei in Italia di Attilio Milano, non stesi allora, forse ancora opportuni dopo un articolo di Lelia Cracco Ruggini. [1]

Si ha l’impressione che la più recente storiografia sugli Ebrei in Italia trascuri totalmente la ricerca documentaria e che, anche della letteratura esistente, venga trascurata quella relativa alla Sicilia. Da anni non viene offerto agli studiosi un materiale del tutto nuovo (salve le epigrafi) e quello stesso materiale documentario che è già stampato da decenni non è stato ulteriormente sfruttato.

Per fare un esempio, si discute ancora sull’usura come attività caratteristica degli Ebrei, ma non sembra che alcuno, tranne l’autore di un brevissimo ed insufficiente articolo, abbia mai messo le mani tra le migliaia di documenti dei banchieri ebrei” di Roma, già conservati dal vecchio notaio Buttaoni e che io stesso, alcuni anni prima del l’ultima guerra, trasportai ed ordinai nell’Archivio di Stato di Roma.

Quegli Ebrei non erano affatto usurai o non lo erano esclusivamente: erano piuttosto mercanti, se vogliamo mercanti-banchieri. Tale documentazione, integrata da pochi processi del Governatore di Roma, delinea la storia ultima dell’ebraismo romano, sino alla fine del XVIII secolo, quando alcuni Ebrei sembrarono assumere anche un atteggiamento politico.

E non vedo che siano state messe a profitto alcune notizie sporadiche le quali spesso illuminano sulla realtà di certi fenomeni che noi guardiamo da un solo punto di vista.

Per esempio, che a Mantova, nonostante la presenza del Monte di Pietà, gli Ebrei continuassero a prestare denaro su pegno; ed anzi che, per rinsanguare il Monte, gli si destinasse il “sovrappiù” della vendita dei pegni non richiesto dal debitore[2].

O che a Milano, espulsi gli Ebrei, i prestatori cristiani prestassero a tassi inverosimili e la gente preferisse andarsene presso gli Ebrei di Monza, perché il Monte milanese non poteva prestare più di 8 lire.

Si rilevi però che l’adozione fiduciosa delle conclusioni cui sono pervenuti taluni studiosi israeliti sarebbe imprudente; non alludo soltanto a qualche volume moderno scopertamente agiografico come quello del Polyakov sugli Ebrei di Corte in cui la cronologia subisce un trattamento alquanto disinvolto ed in cui pertanto una buona informazione desta seri dubbi, ma anche a monografie prettamente scientifiche: in quella di Nahum Slousch (un discepolo, nientemeno di Hartwig Dercubourg) sull’elegia di Mosè Rimos, martire ebreo a Palermo nel XVI secolo[3], in sette pagine scarse di introduzione al testo sono infilzati tanti errori di cronologia e di geografia e tante fantasie nella critica dei documenti, che si finisce per dubitare della stessa esattezza del testo ebraico e della sua traduzione; basti dire che il buon Rimos, che tutto indica come Maiorchino, diventa Siciliano, Palma diventa Palermo, una universitas ebraica è data come esistente a Palermo a metà del sec. XVI mentre tutti conoscono l’espulsione del 1492 e così via.

Chi non conosca l’ebraico e non possa per conseguenza controllare i testi, deve necessariamente diffidare dinanzi a tanta disinvoltura; e la diffidenza non si cancella nemmeno dinanzi alle molte affermazioni, non controllabili, di uno studioso noto come Samuel Stern, che forse solletica la mia vanità di Siciliano scrivendo Un circolo di poeti siciliani ebrei nel secolo XII[4], ma che tuttavia non dà dell’esistenza di quel circolo di poeti nemmeno un principio di prova. Si tratta di un “divano” o raccolta di poesie, proveniente dal Cairo ed oggi a Leningrado; lo Sten non dice se scritto su pergamena o su carta o su papiro;né con scrittura di quale secolo; lo Stern afferma che nessuna poesia fu scritta dal poeta Anatoli prima dell’arrivo in Sicilia e del soggiorno nell’isola che, da nessun elemento, viene però determinato in un mese e forse più; Anatoli veniva da Marsiglia ed il suo più intimo amico a Palermo fu un ebreo Tripolino, ma ben due sono i versi citati che ricordano la gazzella, animale non siciliano e non provenzale; Anatoli era ancor vivo nel 1212, quindi senz’altro può esser nato nel 1150…

E’ perdonabile chi, non conoscendo l’ebraico e non potendo leggere le poesie di Anatoli, ritiene non dimostrato che al-madina sia Palermo e che l’identificazione di Mazara, Termini, Messina e Reggio Calabria sia da controllare?

Quella dello Stern è una brillantissima ipotesi di lavoro., anche gradita, che sentimentalmente posso accettare ma dopo la quale logicamente devo porre un punto interrogativo.

Di gran lunga superiore è l’attendibilità della Storia di Attilio Milano; ma anche in questa difetta l’informazione nuova. Per la Sicilia egli cita sovente i tre volumi del Codice dei Lagumina. Ma questo fornisce un solo e limitatissimo aspetto della vita degli Ebrei siciliani, perché i documenti raccoltivi provengono essenzialmente da due serie d’archivio, la Cancelleria e il Protonotaro del Regno.

Sono quindi rapporti ufficiali tra gli Ebrei e il governo; ma altre centinaia di documenti di importanza non minore si troverebbero tra le Lettere Viceregine, nei registri della Tesoreria, della Screzia di Palermo e così via.

I fratelli Lagumina non si illusero mai di aver pubblicato un’opera completa, anzi si proponevano di estendere la ricerca agli archivi comunali ed agli archivi notarili; ed in questi esistono moltissime migliaia di documenti sugli Ebrei.

Tocchiamo così quello che è secondo me il punctum dolens nella storia degli Ebrei italiani.

Vi sono due problemi ancora aperti: l’uno riguarda l’usura, i Francescani, i Monti di Pietà; l’altro riguarda l’espulsione dai domini spagnoli.

E’ comodo vederli separatamente; ma forse è più corretto unificarli in una sola domanda: perché nel XV secolo insorge violento l’antisemitismo? (il processo per la morte di Simonino a Trento non sembra collegato né con la Spagna né coi Francescani, ma appartiene forse all’ambito di un antisemitismo non mediterraneo).

Ferdinando il Cattolico era un uomo sordido, un ipersessuale come suo padre che era stato uno dei più accaniti sporcaccioni del secolo; padre e figlio martirizzarono i Catalani non meno che gli Ebrei; occorre ricorrere a Freud per spiegare il trattamento che Ferdinando riservava alle proprie figlie naturali (due, di madre diversa, rinchiuse nel medesimo monastero). Da un tale monarca c’era da aspettarsi di tutto.

In Catalogna come in Sicilia, egli provocò la reazione popolare contro i provvedimenti antiebraici e rimane classica la difesa barcellonese del segreto bancario nel macabro processo intentato al cadavere dissepolto di un Ebreo, colpevole soltanto d’essere stato ricco in vita. Ho detto “reazione popolare” ; sarò forse più vicino al vero dicendo “reazione degli operatori economici”, dei competenti in affari e in commercio e in produzione e in finanza, reazione caduta nel vuoto come sempre la reazione dei “competenti” contro una sciocchezza decisa in sede politica.

I Francescani: I Francescani erano irrequieti fin dall’inizio del XV secolo; sentivano il bisogno di muoversi e di far muovere le folle; a Trapani un Cornelio francescano (non siciliano, come dimostra il nome), esorcista con grande seguito tra il popolo, non predicava contro li Ebrei ma contro gli Agostiniani e provocò tali disordini che fu allontanato segretamente e di lui non si seppe più nulla. L’odio francescano contro i Domenicani ebbe campo di manifestarsi a Firenze al tempo del Savonarola: a voler essere irriverenti ci si potrebbe domandare se l’antiebraismo dei Francescani fosse soltanto una gara coi Domenicani, un mezzo, cioè, escogitato soltanto per non lasciare all’Ordine rivale l’esclusivo merito nella difesa del Cristianesimo.

Ma Francescani furono i teorici dell’interesse: francescano è il principio degli interessi corrisposti dal debitore al banchiere e dal banchiere al depositante a termine, che vedo applicato correntemente in un banco cristiano del ’400. Ed allora mi chiedo: I Francescani in Italia diventarono spontaneamente antiebraici oppure lo diventarono dopo aver sentito l’antiebraismo che si diffondeva tra le masse? E nella seconda ipotesi, che cosa fece nascere tale diffuso antiebraismo?

Poiché queste due domande possono riferirsi anche ai Domenicani spagnoli, siamo al centro del problema: che cosa, quali fatti stanno all’origine dell’antiebraismo del XV secolo o, più generalmente, quali fatti stanno all’origine delle esplosioni di antiebraismo che si verificano qua e là talvolta sotto forma di episodi isolati, talvolta sotto forma epidemica ? Uno scrittore quale l’Aretino, che certamente non si faceva scrupolo di usare termini drastici, pone in bocca ad un suo personaggio parole che fanno capire come l’opinione pubblica romana considerasse gli isdraeliti senza una speciale antipatia, ne riconoscesse anzi l’utilità, pur essendo diffusa la coscienza di una diversità di razza. E siamo a meno di mezzo secolo dall’espulsione dalla Sicilia, quando gli Ebrei siciliani rifugiatisi a Roma, se particolari difetti avevano, avrebbero dovuto già manifestarli…

Si deve aggiungere ancora che Francescani ed antiebraismo da una parte e Monti di Pietà dall’altra non sempre coincidono cronologicamente: per esempio in Sicilia l’espulsione ebbe luogo nel 1492-93 ma il Monte di Pietà, dopo le prediche di un Francescano, fu promosso molto più tardi (Palermo 1539, Trapani 1542). Forse l’intervallo di mezzo secolo può ritenersi coperto dal fatto che moltissimi Ebrei rimasero in Sicilia, convertendosi con grande abilità nella scelta dei cognomi (il che è largamente documentato) e forse proprio i più ricchi (il che è da accertare per fugare ogni dubbio) ?

Le esplosioni di antiebraismo hanno componenti psicologiche delle quali l’elenco sarebbe lungo: fanatismo religioso, razzismo, cultura sono le prime che mi vengono in mente, ma sono il contorno, la cornice; il movente vero è un altro e si può rintracciarlo costatando che quelle esplosioni si sono verificate sempre in momenti di crisi: o occorreva additare gli Ebrei come capri espiatori, o ci si illudeva di tamponare falle finanziarie con le loro supposte ricchezze, o occorreva additarli come profittatori della miseria popolare per rendere tale miseria meno insopportabile. Che poi il fanatismo abbia avuto una sua parte è innegabile: si può andare dall’estremo candore religioso fino al terrore magico per spiegare l’efficacia che hanno avuto senza dubbio le prediche dei Francescani o dei Domenicani non importa, o di pochi Ebrei convertiti prima dell’inizio della persecuzione che talvolta sono stati acerrimi nemici dei loro ex correligionari. I Viceré di Sicilia hanno dovuto intervenire più d’una volta contro i predicatori.

Ma né predicatori né governi – in genere gli Ebrei pagavano laudamente il privilegio di poter vivere indisturbati e relativamente protetti – si sarebbero posti spontaneamente e gratuitamente, o con loro danno, contro le masse popolari se queste non fossero state già mal disposte contro gli Ebrei. Ed è appunto la causa ed il momento della nascita di questa cattiva disposizione che bisogna ricercare.

E bisogna ricercare anche il come si presentavano gli Ebrei stessi di fronte alla persecuzione: in Sicilia, stando proprio ai documenti dei Lagumina, tra i giovani ebrei vi era un forte rilassamento morale e disciplinare e questo forse spiega le numerose conversioni del 1492; ma già tutto l’ebraismo siciliano era in movimento nel XV secolo, come mostrano le forti migrazioni da una giudecca all’altra e le sensibili diminuzioni numeriche di giudecche già fiorentissime e gli improvvisi accrescimenti di altre costrette,tra l’altro, ad ampliare le sinagoghe.

Nell’Italia Meridionale anche Ebrei erano stati colpiti economicamente da fenomeni che conosciamo male: faccio un esempio: un Ebreo maestro tessitore di sete e velluti lascia Catanzaro e se ne va ad impiantare i propri telai a Messina; siamo all’ultimo decennio del sec. XV, alla vigilia dell’espulsione: ma è contemporanea una crisi generale italiana tra i maestri setaioli cristiani che da Genova, da Lucca, da Napoli, da Venezia si trasferiscono a Messina.

Il fenomeno è evidentemente troppo ampio e non possiamo parlare di crisi circoscritta al setificio calabrese o ad un particolare artigianato ebraico.

Ho scelto a bella posta questo esempio perché esso ci mostra un Ebreo coinvolto in una cosa più grande di lui cioè in uno degli aspetti – il setificio – della più grande crisi che sotto mille modi, appariscenti o nascosti, superficiali o profondi, coinvolse tutta l’Europa nella seconda metà del sec.XV : la persecuzione spagnola o la lotta contro l’usura in Italia stanno dentro quella crisi generale, ne sono un fenomeno, increscioso e doloroso quanto si voglia, ma un fenomeno singolo di una crisi generale. Non si tratta soltanto del “rinascimento” al quale ognuno subito pone mente; si tratta anche di un’esplosione demografica mai registrata prima, della comparsa improvvisa dei “poveri vergognosi”, di un mutamento climatico con siccità e prosciugamento di sorgenti. E, per segnalare due aspetti poco noti di tale crisi nell’ambito siciliano, sono di questi anni gli acquedotti anche nelle piccole città, è di questi anni l’ostinata, pervicace, stupida lotta del governo … contro i muli.

Ho l’impressione che dalla letteratura ormai sia stato tratto quanto essa poteva dare e che ogni ulteriore revisione di quello stesso materiale sia soltanto un mezzo per aggiungere, alle già troppe componenti della storia ebraica, anche i nostri complessi, cioè per complicare invece di semplificare, per allontanarci invece di avvicinarci ad una corretta interpretazione dei fatti storici.

Noi abbiamo bisogno di rivedere i problemi dell’ebraismo italiano apprestando soprattutto nuovi materiali documentari , ed apprestandoli in modo assolutamente frigido, cioè dimenticando di essere Ebrei o Cristiani, semiti o ariani, comunisti o capitalisti: perché, in fondo, noi ignoriamo del tutto una cosa molto semplice a dirsi ma molto complessa a determinarsi: quale era la funzione degli Ebrei nella vita italiana? E per quali secoli abbiamo i documenti, senza ricorrere né a tradizioni né ad agiografie dell’una o dell’altra parte, né a fonti dottrinali o letterarie? Bisogna evitare di ricadere in errori come quello dello Slousch e di riecheggiare le prediche contro l’usura – in Sicilia ho trovato quattro processi per usura nel primo quarto del sec. XV e nessuno è contro Ebrei.

Nessuno ha dimenticato quanto hanno fatto in Italia, tra il secolo scorso e l’ultima guerra, illustri Israeliti nei più disparati campi della scienza, dalla filologia alla medicina; orbene, in Sicilia i medici ebrei erano numerosi e famosi; ebreo era l’oculista che operò Giovanni II di cataratta… Un raggio di luce sulle funzioni degli Ebrei in Sicilia prima dell’espulsione, è proiettato da questo fatto: all’inizio del XVI secolo arrivano in Sicilia medici forestieri (ricordo qualche genovese) benché vi sia nello Studio di Catania una “lettura” di medicina e benché la posizione di medico o di chirurgo assicuri vantaggi tangibili come l’esenzione dalle imposte.

Il solo documento già frigido di per se stesso e che possiamo affrontare frigidamente è quello economico. Ricerche sull’attività economica degli Ebrei ne esistono già alcune non coordinate organicamente; una non è stata mai effettuata: sulla vita degli Ebrei in Sicilia nei due secoli che precedono l’espulsione:sono diecine di migliaia di documenti nuovi, a disposizione degli studiosi, che ci mostreranno gli Ebrei in un ambiente non dichiaratamente ostile ma in cui l’antiebraismo popolare è latente e si manifesta talvolta in piccoli episodi locali.

Sono documenti che daranno il fatto nuovo di cui mi pare vi sia bisogno. Chi guardi la carta pubblicata da Milano vedrà che nessuna regione italiana aveva tanti gruppi numerosi quanti ne aveva la Sicilia.

Mi pare che ciò basti a porre la storia dell’ebraismo siciliano in prima linea.

Anche qualitativamente gli Ebrei siciliani non erano trascurabili: avevano una loro cultura (e sono documentate scuole e biblioteche), sapevano almeno firmare in caratteri ebraici; avevano un loro speciale notariato; esercitavano molti mestieri se non tutti; giungevano sino alle cariche pubbliche e si annovera un Secreto di Pantelleria ebreo; potevano essere ambasciatori del re e si annovera la famiglia Sala, che diede appunto ambasciatori e banchieri; erano mercanti imprenditori o piccoli industriali o finanziatori nell’industria dello zucchero; il primo che abbia eseguito una prospezione geologica della Sicilia fu un Ebreo; concorrevano al finanziamento dei comuni e dello stato con prestiti personali oltre alle imposte; esercitavano la funzione di interpreti…

La tolleranza nei loro riguardi non era assoluta e non era continua; gli episodi di intolleranza non saranno molti ma nemmeno pochissimi ed alla strage di Noto, vendicata dal Viceré in un bagno di sangue, converrà aggiungere i tumulti di Sciacca, sedati prima che giungessero all’irreparabile.

Si avrà notizia di qualche artigianato distrutto con la loro esplulsione e ripreso nel’500 chiamando a raccolta i convertiti.

E varrà la pena di accertare finalmente l’entità numerica delle conversioni nel XIV e nel XV secolo; e la mobilità estrema in Sicilia stessa, il continuo ricambio con nuclei ebraici non siciliani, la fraternità manifestata in cento modi verso Ebrei d’altri stati europei, e la tendenza verso la Palestina e, perché nò?, la passione del giuoco, la bigamia legale…

Insomma una vita ebraica vera, senza preconcetti, senza martirii, senza ostilità, che ci insegni finalmente che cosa rappresentò per due secoli la minoranza ebraica in mezzo ai Siciliani.

Perché minoranza numerica essi furono senza dubbio: ma vi sono luoghi e gruppi di anni in cui quella minoranza sembra aver avuto la funzione del lievito. Non credo sia possibile una compiuta storia economica della Sicilia se non si conosca a fondo l’ebraismo siciliano; e non credo si possa fare una storia dell’ebraismo italiano prescindendo da quello siciliano che sembra essersi presentato con una fisionomia propria.

Comunque l’ebraismo siciliano del XIV e del XV secolo non è conosciuto e questa, da qualunque punto si guardi, è una grave lacuna nei nostri studi.

Mi pare non sia stato abbastanza rilevato che Oberto Fallamonaca, funzionario di Federico II ma musulmano e che scriveva in arabo ancora durante il governo angioino, fece venire alcuni Ebrei dal Marocco per certe speciali coltivazioni.

Del resto, non è conosciuto meglio l’ebraismo dell’Italia Meridionale; e non è lecito dimenticare quanto narra il Bandello (Novella XXXII della parte I) contro un francescano spagnolo che avrebbe voluto espellere gli Ebrei dal regno di Napoli nel 1492, ma cozzò contro il buon senso del re Ferdinando di Napoli che lo sottopose a processo.

La novella, derivata da un racconto orale del Pontano, è dedicata al cardinale Ludovico d’Aragona, figlio naturale di Ferdinando il Cattolico, è un rimprovero palese al Cattolico, rappresenta l’opinione pubblica almeno moderatamente favorevole agli Ebrei, comunque avversa a certi francescani.

Per tornare alla Sicilia, niente affatto conosciute sono la sorte e le funzioni dei neofiti, dei neoconvertiti. In politica pare non si siano mescolati e, per esempio, nessun nome sospettabile di appartenere ad un neofita, si trova negli elenchi di coloro che, in un modo o nell’altro, parteciparono alla rivolta contro il Viceré Moncada.

Nomi di neofiti non si trovano nemmeno tra coloro che, nel primo ventennio del sec. XVI,lottavano accanitamente per impadronirsi delle amministrazioni comunali.

Un effetto immediato dell’espulsione fu sentito nei comuni minori: era d’uso infatti che l’ospitalità, la “posata” ai commissari governativi ed ai sindacatori venisse fornita dalle comunità ebraiche; sciolte queste, il carico ricadde sui comuni dai bilanci disastrati che invano cercavano di scrollarselo. Monte San Giuliano se ne lamentava sino in Parlamento.

Saranno stati usurai? Non credo. In occasione del Parlamento del 1518 riunito dal Duca di Monteleone, la città di Marsala presentò vari capitoli, uno dei quali era contro uomini e donne che prestavano ad usura; cristiani senza dubbio, perché in caso diverso i neofiti sarebbero stati espressamente menzionati.

Ferdinando il Cattolico, che aveva espulso gli Ebrei, fu costretto a tollerare che come convertiti rimanessero in Sicilia o vi ritornassero; in qualche luogo essi lamentavano di essere trattati peggio di quando erano giudei; ma in molti altri erano autorizzati a riscuotere crediti anteriori al 1492, il che appare tanto più strano in quanto l’espulsione era stata accompagnata dalla confisca. Si può citare un caso del 1508, sedici anni dopo l’espulsione: nel piccolo centro di Paternò erano giunti alcuni neofiti ed avevano riscosso vecchi crediti senza dare il 45% dovuto alla regia tesoreria; furono sottoposti a processo fiscale ma il Viceré, allora Remon Cardona, spagnolo, ordinò di soprassedere indottovi dalle richieste del nobile Giovanni Ferdinando Moncada medico fisico, di Laura sua moglie, dei suoi figli e di molti altri neofiti di Paternò[5].

Insomma, a Paternò la universitas ebraica era stata sostituita da una comunità di neofiti. Tra parentesi, il medico ebreo aveva assunto nome e cognome del potentissimo padrino, aggiungendo come secondo nome quello del re Cattolico.

I neofiti siciliani proseguivano i vecchi mestieri: maestro Pietro Monteverde produceva salnitro e lo vendeva al governo[6].

Ma chi lo riconoscerebbe per neofita se il documento non lo dichiarasse tale? A Palermo una Angela de Perrone risulta figlia di Salomone e di Perna Benassay; ma come lo sapremmo se essa non si dichiarasse tale in una questione ereditaria?[7]

E come li accolse la popolazione cristiana? Finchè cercarono di riscuotere crediti – e ciò sino al 1515 circa – ricorsero alla protezione del governo con la formula della regia salvaguardia; ma codesta non era una condizione speciale perché alla medesima formula ricorrevano tutti i mercanti, siciliani e forestieri, quando avevano paura di debitori violenti; vi ricorrevano persino le amministrazioni vescovili di Catania e di Agrigento, gli ecclesiastici di Sciacca, gli esattori della Crociata. Alcuni di Palermo che tuttavia portavano il prestigioso cognome di Leofante furono bastonati[8]; a Naro venivano trattati peggio che se fossero stati giudei[9]; ma a Giuliana un Ebreo era ritornato dopo l’espulsione e si era convertito[10];e a Naro stessa nel 1503 un neofita forestiero fu fatto cittadino vale a dire, stando al meccanismo delle cittadinanze acquisite in quell’epoca, venne riconosciuto utile al paese[11].

Ho l’impressione che sotto Carlo V scompaia la qualifica di neofita.

Ma quale fu in Sicilia la posizione degli Ebrei che come tali vi capitavano ? e, prima di tutto, ve ne arrivarono quali mercanti dopo il 1516?

E quelle diecine di donne, bambini, vecchi portati da Tripoli nel 1510 e venduti come bottino di guerra – un mercato di carne umana che commuove ancora oggi – erano già schiavi a Tripoli o lo divennero in seguito a quella che Ferdinando il Cattolico sognò come l’ultima Crociata ma che fu, per la cattiveria degli uomini, come altre Crociate, un ladroneccio?[12]

Frattanto, per mostrare quanto il nostro problema sia ampio anche dal punto di vista geografico, segnalo una nuova fonte che sarà da prendere in considerazione.

Un nucleo di ebrei siciliani dopo l’espulsione del 1492 fu ospitato dal governo turco a Costantinopoli, dove costituì una comunità. Infatti nell’inventario dell’eredità lasciata da Mehmed Beg, sellaio del sultano, nel 1656, sono elencati moltissimi crediti su ebrei e sono citate le comunità israelite d’Aragona, di Portogallo, di Germania, di Toledo, di Catalogna, d’Italia; della comunità di Sicilia sono ricordati nove individui: Avram Kapic, Abramo Capizzi; Muse Sami; Simitci Samoel e un altro Muse; Avram Firenc e Salamoi Salna; Salamoi Metlon;

Bakkal Aser e Basro[13].

Se gli ebrei siano partiti direttamente dalla Sicilia per Costantinopoli o vi siano pervenuti dopo un passaggio attraverso Roma o Napoli, città verso le quali la loro migrazione era già documentata, non sappiamo; sta di fatto che un secolo e mezzo dopo l’espulsione costoro ricordavano ancora il luogo d’origine; ed oggi ci indicano una nuova direzione delle ricerche da condurre anche negli Archivi turchi, poiché una comunità ancora fiorente nel 1656 deve aver avuto una sua storia e non può aver mancato di intrattenere rapporti, almeno nei primi decenni, con i Siciliani rinnegati o schiavi o che, liberi, frequentavano Costantinopoli[14].

Si apre così, attraverso la diaspora, un nuovo capitolo di storia siciliana.

                                                                                                                              


[1] ATTILIO MILANO, Storia degli Ebrei in Italia, Torino, 1963: LELIA CRACCO RUGGINI, Note sugli ebrei in Italia dal IV al XVI secolo, in Rivista Storica Italiana”, anno LXXVI fasc. IV, Napoli, 1964 pp. 926-956.

[2] E. Castelli, I banchi feneratizi ebraici nel Mantovano, 1386-1808, Mantova, 1959.

[3] Pubbl. in Centenario di Michele Amari, vol. II, Palermo, 1910, p. 186 e sgg.

[4] “Bollettino del Centro di Studi Filologici e Linguistici siciliani”, vol.4, Palermo, 1956 p.39 e sgg.

[5] Archivio di Stato di Palermo, Conservatoria, vol. 94, f. 662.

[6] Ibid., vol.93, f. 406, anno 1507.

[7] Ibid., vol. 98, f. 102, anno 1511.

[8] Ibid., vol. 85, f. 271, anno 1501.

[9] Ibid., vol. 83, f. 424, anno 1499.

[10] Ibid., vol. 83, f. 438, anno 1499

[11] Ibid., vol. 87, f. 274

[12] Ibid., vol. 99, ff.47 e sgg.

[13] OMER BARKAN, Edirne Askeri Kassami’na Ait Tereke Defterleri, 1545, Ankara, 1968, pp. 384-386

[14] Fin dal 1489 era noto che Siciliani frequentavano anche il palazzo del Gran Turco (C. TRASSELLI, Note per la Storia dei Banchi in Sicilia nel XV sec., Plermo, 1968, Parte II,. P.295).

Pare che i neofiti di Messina abbiano continuato i rapporti commerciali con gli Ebrei di Calabria: il neofita Jacobello Compagna comprava 12, ff. 238-239, 7 aprile 1509). Un solo neofita venne accusato di aver partecipato all’incendio della casa di Pietro Montaperto in Agrigento, ma l’incendio ebbe luogo nel 1516 nell’ambito di una lotta di consorterie locali, mentre l’accusa e del 1519 (Archivio di Stato Palermo, Segretari del Regno, Ramo Protonotaro, vol. 16, al 19 luglio). Fino al 1525 si occuparono dei neofiti, in termini blandi e generici, i Capitoli del Regno.

L’Inquisizione in Sicilia si occupò pure di loro, ma senza accanimento particolare, ed il governo li difese come potè. A Santa Lucia (già sede di una giudecca numerosa) Paolo Staiti e la moglie, neofiti, si videro sequestrare i beni dall’Inquisizione; il Viceré ordinò che i creditori non li molestassero (Ramo Protonotaro cit., vol. 19, 11 novembre 1520). Il caso più clamoroso resta quello di Tripoli, dove l’Inquisizione mandò un Leone da Guerda a processare i falsi convertiti fuggiti colà, nel 1525 (G. La Mantia, La Sicilia e il suo dominio nell’Africa Settentrionale, Archivio Stor. Sicil., N.S., vol. XLIV, Palermo, 1922, p. 225).

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