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 - di Aristide Casucci  -

 Si sa che, intorno all’anno mille, in estremo oriente, la stampa era già un fatto di larga diffusione e si conosce anche che, qualche secolo dopo, gli operosi cinesi avevano la possibilità di stampare, cioè trasporre su un supporto cartaceo mediante un’impronta predefinita ed inchiostrata. 

Preparare l’impronta era naturalmente difficoltoso, specie se questa matrice dovesse essere fatta su una tavoletta di legno duro tutta intera. A questo punto il filosofo cinese Pi-Cheng propose di farlo con dei caratteri mobili e, pertanto, componibili fra loro. 

Fu il rientro dei viaggiatori dall’Oriente che rivelò nell’Europa l’arte della stampa e i relativi procedimenti; bisognerà però attendere il 1400, quando Johann Gensfkleisch Gutemberg, tedesco di Magonza mise a punto un sistema di caratteri mobili che, opportunamente composti fra loro, formavano una matrice da inchiostrare in grado di trasferire l’impronta tramite una pressa. 

Questa persona ebbe una vita abbastanza movimentata e solo a trent’anni, dopo essere stato bandito dalla sua città, si trasferì a Strasburgo per impiantare la sua stamperia a torchio. Si era intorno al 1428. 

Questa nuova tecnica dilagò in Italia immediatamente e a Roma, intorno al 1465, era attiva una stamperia, la prima, intestata a Giovan Filippo de Lignamine, di origine messinese

Ad onore della verità storica fraPalermo e Messina nacque una diatriba sul primato di quale di queste due città avesse introdotto per prima in Sicilia l’arte della stampa. Potremmo dire che sull’argomento ognuno rimase con le proprie convinzioni: fatto sta che l’avvio effettivo in Messina dell’arte della stampa si deve al tedesco Heinrich Alding anche se Giuseppe La Farina, nelle sue note storiche, indica Errico Scomberg, anch’egli tedesco. 

Dopo di lui operarono in Messina altri stampatori: tali, Rigo Forti che forse si chiamava Stark, Giovanni Schade,Giorgio Ricker e Guglielmo Schomberg. Oltre a questi pare che due fratelli fiamminghi Andrea ed Olivino Bethecar,alla fine, acquistarono le attrezzature di Alding introducendo nell’illustrazione dei testi la Xilografia (incisione a rilievo fatto su legno duro). 

Il secolo successivo, 1500, vide l’affermarsi in città della famiglia Spira che coprì, col suo lavoro, tre generazioni; dove Pietro Spira pare sia stato il primo a produrre più di venti volumi con soste fra le varie edizioni; ciò ci induce a pensare che verso la metà del 1500 di libri a Messina ne dovevano circolare parecchi. Convinzione supportata dalla gran quantità di volumi stampati a Messina, ritenuti eretici dal grande Inquisitore di Sicilia, che era anche Vescovo di Patti. 

In sostanza in città la stampa e la diffusione dei libri venne, in poco tempo, estesa e risulta che allo Spira, le autorità cittadine, pagavano fior di danaro per invogliarlo ad “imprimere la bona stampa”. 

Altro stampatore messinese attivo negli anni 1585 e seguenti risulta essere stato Fausto Bufalini che viene ritenuto, nell’ordine di importanza, il secondo della città e che venne invogliato dalla Giurazia (autorità) con la cessione di un locale e con un lauto stipendio. A questo stampatore si devono opere cinquecentesche di rara bellezza e contenuto se solo si vuole pensare che era sto capace di fondere perfino caratteri in greco oltre a Xilografie ornamentali realizzate con matrici in rame e con stemmi e cornici rare e, principalmente, con le iniziali ornate. 

Il capolavoro assoluto del Bufalini viene ritenuta l’opera di Filippo Gotho Breve raguaglio, in cui è raccontato, fra l’altro, il giubilo della città per il ritrovamento dei corpi di San Placido e compagni e, naturalmente, la storia dei martiri stessi. Illustrazioni di tutto rispetto contraddistinsero la pubblicazione.                                                                   

- di Guido Signorino -

  

Il momento storico nel quale  viviamo è  caratterizzato da una profondissima crisi economica e finanziaria e da tragici eventi causati dal ripetersi di fenomeni meteorologici eccezionali e dall’incuria dell’uomo.

È superfluo ricordare che questi tragici eventi colpiscono tutto il territorio nazionale, ma – con inquietante frequenza – lo specifico territorio nel quale io mi trovo ad operare. Questo riferimento al “luogo comune” che è il territorio dove vivo, non è dovuto a moti di nostalgia ancestrale, né a piccole vanità provinciali. Il fatto è che, proprio nel messinese, si consuma una vicenda politica esemplare ai fini di un discorso su territorio “mangiato” e difesa di un “bene comune” atipico (almeno dal punto di vista della definizione economica di “bene comune”) quale è il territorio.

Mi riferisco al gigantesco spreco di risorse pubbliche costituito dal progetto di un ponte sullo Stretto di Messina, reso ancor più indigesto dallo stato di degrado e rischio idrogeologico del territorio sul quale, con un insopportabile impatto ambientale, naturalistico, paesaggistico, tale infrastruttura verrebbe a collocarsi.

Nell’ottica economica della “sostenibilità”, della “equità intergenerazionale” e della costruzione e tutela dei “beni comuni”, la realizzazione di qualunque intervento sul territorio deve rispondere ad alcune domande preliminari:

È da due mesi disponibile il “Progetto Definitivo”, verso il quale Italia Nostra (con il WWF e Legambiente)  ha esposto le “osservazioni” entro la scadenza  del 27 novembre. Per rispondere a queste tre domande farò dunque riferimento non a ipotesi o suggestioni, ma (per quanto possibile e per quanto nelle mie competenze e conoscenze) ai dati del progetto definitivo. Proverò ad esporre alcune osservazioni, concludendo che il ponte è infrastruttura che non tutela né il “bene  comune”, né i “diritti” delle generazioni future.

Un ponte, qualsiasi ponte, ha un senso in quanto infrastruttura di trasporto. La sua costruzione si giustifica solamente se, e nella misura in cui, offre beneficio alla società, servendone in maniera adeguata le esigenze di trasporto. Quando nell’agosto 2003 il CIPE approvò il progetto preliminare, raccomandò anzitutto di procedere ad un attento monitoraggio dei flussi di traffico, che rappresentavano ad un tempo la base per l’evidenza di un effettivo vantaggio economico e sociale del progetto ed il suo aspetto più critico.

Il progetto definitivo non ottempera a questa raccomandazione in maniera soddisfacente. Infatti la relazione di aggiornamento (che propone un modello trasportistico del tutto differente rispetto al preliminare, con ciò dichiarando l’inadeguatezza del precedente approccio)risulta ancora metodologicamente carente e, per alcuni versi, incompleto e contraddittorio. Non è il caso di entrare nel dettaglio tecnico in questa sede, ma può forse servire sapere che, attraverso alcune forzature in virtù delle quali la sola costruzione del ponte sembrerebbe quasi raddoppiare il tasso di crescita del PIL in Sicilia ed in Calabria, il nuovo modello prevede un flusso di autovetture e di autocarri sostanzialmente in linea con gli scenari intermedi del progetto preliminare (fino a 6.000.000 di autovetture e fino a 2.750.000 autocarri nel trentesimo anno di esercizio dell’opera). Con la differenza che, mentre nel progetto preliminare il costo da recuperare con questi passaggi era pari a 4,4 miliardi di Euro, oggi questo è sostanzialmente raddoppiato: 8,5 miliardi. E nulla, nel progetto definitivo, mostra che questo flusso di passaggi (atteso che sia credibile la sua stima) possa sostenere i nuovi costi. Già, perché il progetto definitivo (o per lo meno la documentazione resa pubblica) non contiene alcuna analisi costi-benefici del progetto, né presenta il Piano Economico Finanziario dell’opera. Ad una richiesta di accesso agli atti avanzata dalle tre associazioni, i progettisti hanno risposto negativamente, argomentando tra l’altro che “solo a conclusione delle procedure [di approvazione del Progetto Definitivo] si potrà definire e approvare il nuovo Piano Economico Finanziario”, con ciò candidamente confessando che tale Piano non c’è. Il che potrebbe far considerare incompleta ed irricevibile la progettazione detta “definitiva”. Non è dato dunque di sapere (o di poter valutare) se un’opera dal costo di 8,5 miliardi genera un adeguato beneficio per la società.

Ancora, le analisi dei trasportisti spiegano che il tasso di utilizzo del ponte non supera, al massimo, il 10-15% della sua capacità teorica. Come dire: si costruisce un insediamento di 100 palazzine sapendo che non ne saranno utilizzate più di 15! Lo spreco di risorse è di tutta evidenza.

Veniamo alla seconda domanda, relativa ai termini in cui questo spreco di risorse produce un “consumo” di territorio, particolarmente grave in un’area esposta ad un così grave rischio sotto il profilo idrogeologico. Un dato per tutti. La realizzazione del ponte e dei raccordi stradali e ferroviari (molti dei quali in galleria) determina letteralmente una montagna di detriti: 10 milioni di metri cubi circa di materiali di scavo. Di questi, una parte non irrilevante verrà depositate in discariche situate nelle zone a monte della città, a ridosso di luoghi abitati, in siti di impluvio, determinandone un “tappo” fisico non previsto dalla natura. Il problema non è tanto relativo alla tenuta delle strutture di contenimento, quanto al fatto che le acque che con evidente e tragica abbondanza cadono nel messinese necessitano di canali di scorrimento verso il mare. L’ostruzione di questi canali determina la necessità per le acque di trovare altre vie di deflusso, con l’evidente incremento del rischio di allagamenti e frane in un territorio già così provato e fragile. Appare evidente che l’impatto del ponte non è limitato alla irreversibile alterazione dell’equilibrio paesaggistico imposto dalle sue dimensioni (torri di 400 mt. che superano l’altezza delle colline circostanti) o alle interferenze che esso determina con le specie faunistiche o naturali che popolano l’ambiente, ma riguarda lo stesso equilibrio idrogeologico del territorio e la sicurezza abitativa della città.

Infine, possiamo considerare adeguata a tutelare i diritti e le condizioni di vita delle future generazioni questa infrastruttura? Se, in una prospettiva economica, consideriamo non solamente il costo dell’opera, ma anche il sistema tramite cui si ipotizza di ammortare tale costo, anche questa domanda riceve una risposta negativa. L’ipotesi, infatti, quando ancora il costo stimato era fissato a 4,4 miliardi, era che l’ammortamento avvenisse non nei termini ordinari della durata della concessione (30 anni), ma nell’arco di due concessioni (30+30 anni). Alla scadenza della prima, lo Stato avrebbe riacquistato la concessione dalla Società Stretto di Messina per un valore massimo pari alla metà del costo di investimento, ossia pari a circa 4 miliardi e mezzo.

Questo valore verrebbe poi recuperato dallo Stato tramite un’asta per la collocazione di un nuovo periodo di concessione. Ma l’esito felice dell’asta ha come presupposto che la domanda di attraversamento del ponte sia stata adeguatamente sostenuta. Se, come è molto più probabile, tale domanda dovesse essere insufficiente, determinando perdite nella gestione dell’infrastruttura, il valore di mercato della concessione crollerebbe e lo Stato non sarebbe più in grado di recuperare il valore trasferito al concessionario, determinando nuovo debito pubblico. Come si vede, in barba alla retorica del projectfinancing, tutto il rischio di un’opera decisa irresponsabilmente dalla generazione presente viene assunto dal settore pubblico e trasferito in carico delle generazioni future.

In conclusione, il ponte costituisce un chiaro esempio di come le scelte di governo del territorio non sono neutrali rispetto alla tutela dei beni comuni e dei diritti delle generazioni future. I principi di responsabilità e di precauzione dovrebbero ispirare la determinazione di tali scelte e, nel caso di cui parliamo, dovrebbe imporre un immediato blocco delle procedure di approvazione del progetto definitivo, anche al fine di evitare il danno erariale delle “penali” che potrebbero, in questa fase, rappresentare il vero obiettivo delle imprese coinvolte nella progettazione. Politicamente, sarebbe essenziale giungere nei termini più rapidi possibile alla soppressione della Società Stretto di Messina SpA, in modo da interrompere un insopportabile spreco di denaro pubblico.

 

- di Rocco Giuseppe Tassone -

n.b. l’articolo, a firma di Rocco Giuseppe Tassone, è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista dell’Istituto della Biblioteca Calabrese di Soriano Calabro “ROGERIUS” n° 2/2011

 

Certo sposarsi è stato sempre un dilemma: dall’abito rigorosamente bianco e ricco di pizzi e merletti, alla cerimonia in casa o al ristorante, dall’anello alla dote della sposa. Già la dote! Ancora oggi si parla di dote che la sposa deve portare ma da questo atto notarile del 1905 leggiamo una dote alquanto curiosa ma per l’epoca importante e soprattutto non ci si sposava se la sposa non portava con se “a caddara”. La caldaia di rame nella quale si doveva preparare il maiale o il sapone di casa ma anche l’acqua per ‘a vucata. E tradizione vuole che “a caddara” venisse ereditata da madre in figlia, soprattutto quando non c’era la possibilità di acquistarne una nuova, ma anche in segno di augurio e prosperità. Mi è capitato rovistando tra le carte in occasione della morte di mio nonno l’atto notarile che riporto di seguito e che ritengo una testimonianza d’una cultura ormai superata ma non tanto lontana. 

“N° 112 Rep.Reg. n°1388 Rep. Not.

Donazione. Regnando Vittorio Emanuele 3°= Per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d'Italia = Lo annomillenovecentocinque il giorno trenta del mese di dicembre in Laureana di Borrello, nel mio studio notarile in via Borrello Vecchio n° 78 Avanti di me Signor Domenico Russo fu notar Francesco, notaro residente in questo suddetto Comune, iscrittto presso il Consiglio Notarile Distrettuale di Palmi alla presenza degli infrascritti due noti ed idonei testimoni per legge richiesti Signor: Corbo Bruno fu Antonio usciere di conciliazione nato e domiciliato in Candidoni e Figliucci Francesco di Giuseppe, commerciante nato e domiciliato in Laureana= Si sono volontariamente e personalmente costituiti i coniugi Maria Giuseppa Gallo fu Gaetano, donna di casa, nata in Candidoni e Lascala Francesco di Domenico, calzolaio nato in Polistena, che interviene nel presente atto tanto in nome proprio quanto per autorizzare la predetta moglie da una parte.

E dalla altra la comune loro figliola Maria Teresa Lascala di Domenico anco donna di casa, nata in Polistena= tutti di età maggiore, domiciliati nel comune di Candidoni e personalmente conosciuti da me notaro Dichiarano  i costituenti coniugi che maritandosi la prenominata figliuola con l'attuale di costei marito Scarmato Domenico, oggi residente in America, in occasione del matrimonio stesso, la madre di lei sopradetta Gallo, col consenso del marito faceva donazione di una casa palaziata come appresso descritta, ed inoltre tanto essa Gallo, quanto il marito unitamente promettevano di donare alla stessa al medesimo titolo il corredo d'uso, come in seguito designato.

Perciò per mancanza di moneta onde sopportare le spese dell'atto pubblico relativo, tale donazione rimase puramente verbale, sicchè oggi trovandosi essi coniugi di disporre del danaro occorrente dichiarano di voler fare con atto pubblico e rivestito delle forme legali quanto avevano fatto verbalmente. Perciò  col presente atto, la costituita Gallo assegna e dona irrevocabilmente  fra' vivi alla prenominata sua figlia Maria Teresa Lascala, una  casa palazziata composta di due vani. terreno e superiore sita in Candidoni sulla via Chiesa Vecchia n° 6, limitante con eredi Pasquale Tartaria, con eredi del sign.

Pietro Golotta e strada suddetta, riportata in quel catasto fabbricati in testa di essa donante allo art° 219 pel reddito di L. 15,00= Tutti e due poi essi coniugi compiendo la loro promessa fatta un anno dietro proprio all'epoca del matrimonio, alla loro figlia, donano ed assegnano a costei un corredo di beni mobili consistenti in oro e argento formanti due paia di orecchine due anelli, un fermaglio e due medaglie sagre, in tre coperte di cotone, in una caldaia e in una casseruola di rame, in tre paia di lenzuola in un letto completo con cavalletti in ferro, in otto salviette, in otto tovaglie da tavola, in otto asciugatoi, in sei vesti, in un tavolino di ciliegio, in due casse di abeto nuove, in tre fazzoletti di seta, in quattro camicette, in cinque sedie, ed in altri oggetti di uso, dei quali mobili la donataria dichiara avere ricevuto parte all'epoca del matrimonio, parte pochi giorni dietro, prima di questo atto e di averli trovati tutti di suo pieno compiacimento,nell'accettare essa donataria la donazione fattale sia dalla madre sola nonchè da tutti e due coniugi, rende loro vivi ringraziamenti.

I donanti dichiarano di aver fatto le rispettive donazioni alla prenominata loro figlia sulla quota disponibile di ciascuno di essi, con dispensa di collazione e riduzione, ed il supero dichiarano di averlo donato come lo donano, pei diritti di leggittima che a li spetteranno sulla successione materna e paterna.

Per gli effetti del registro si dichiara dalle parti costituente che la casa donata ha il valore di lire Duecento e altre Duecento valgono i mobili colla dichiarazione che l'apprezzo dei mobili non deve produrre proprietà e o alcuna al marito della donataria, essendo di assoluta spettanza di costei. Il solo Lascala Francesco si sottoscrive al presente atto avendo le altre dichiarato di non sapere nè leggere nè scrivere per  non aver mai appreso. Del che si è formato il presente atto del quale si è data da me notaro lettura in presenza dei testimoni alle parti che l'hanno confermato in ogni sua parte. Il presente atto venne scritto di alieno carattere su quasi quattro pagine di un foglio di carta legale. Firm=ti Lascala Francesco = Figliucci Francesco = Corbo Bruno = Domenico Russo fu notaro Francesco notaro”.  

Bene forse è il caso di dire “figli maschi!”.

 

- di Lella Vultaggio -

 

Non sembri neppure siciliana…

Sei simpatica, intelligente, aperta non pensavo i siciliani fossero come te…

Con tali frasi mi accoglievano, a Bologna, i colleghi di lavoro nel lontano 1963 , quando ebbi la prima nomina per insegnare materie letterarie nella Scuola Media Unificata.

Le frasi non erano ostili, in fondo esprimevano simpatia ed anche un senso di liberazione per loro , costretti a supplire le ore dell’insegnate di lettere che non era stata ancora nominata, a un mese dall’apertura delle scuole, poiché esaurite le graduatorie degli aventi diritto, in tutta Bologna e provincia non si trovavano più laureati che potessero ricoprire il ruolo Proprio di laureati, in giro, non se ne trovavano. A Bologna

Ancora non era esplosa la scuola di massa , si sarebbero dovuti diplomare i giovani che, intrapreso il percorso della scuola media obbligatoria e poi di quella superiore, avrebbero deciso o avuto la fortuna di frequentare l’Università.

L’Emilia Romagna anni 60, terra di piccoli imprenditori, coltivatori diretti, agricoltori con aziende fiorenti nel campo della trasformazione delle carni suine e della conservazione dei cibi, impiegava molto bene in tali settori lavorativi , i suoi giovani e le sue giovani.

Con la nomina di insegnanti e il contratto di lavoro per un anno, arrivavano i giovani laureati dal Sud. Non solo per la scuola, anche per ricoprire ruoli dirigenziali per le poste i tribunali e altri enti statali .

La chiamata dei “laureati” dal Sud deve aver fatto scattare, nei nativi del profondo Nord , la molla del complesso di inferiorità intellettuale se con aggressività , quasi colpevolizzandoci ci dicevano che “…tanto in Sicilia le lauree le regalano “ e che “ loro del Nord preferivano lavorare e mandare avanti l’economia del paese, contrariamente ai meridionali scansafatiche capaci di chiedere soltanto soldi allo Stato e vivere sulle spalle del Nord produttivo… “ e “quelli che si laureano a Bologna devono continuamente difendersi dai meridionali che rubano loro il posto di lavoro, quando non addirittura le donne… ”

Assurde discussioni per sostenere che io la mia laurea l’avevo sudata, perché studiare mi piaceva, perché attraverso la conoscenza , la ricerca , il sapere vedevo l’unica possibilità di emancipazione…

Frequentare il liceo classico a Trapani e poi l’Università , per me adolescente siciliana di genere femminile, alla fine degli anni 60 non è stato un problema . Era questa anche la volontà dei miei genitori, ma capivo perché molti giovani sceglievano l’Università mancando la possibilità di inserirsi, dopo il diploma, nel mondo del lavoro.

Così stranamente, laurearsi in Sicilia aveva più possibilità che in altre regioni d’Italia

….E qui altri LUOGHI COMUNI sull’intelligenza dei meridionali …

Pirandello, Verga , Sciascia …grandi teste ma incapaci di cambiare le cose …. L’aveva capito anche TOMMASI DI LAMPEDUSA

E poi, la gelosia dei Siciliani?

Se io uscivo da sola o con amici maschi …. il riferimento era a CUMPARI TURIDDU , alla lupara . E visto che tornavo sempre a scuola senza lividi o segni di botte del coniuge … scattava, soprattutto da parte delle colleghe, la frase : ma tuo marito ti lascia fare tutto ?

Scusate ma perché mio marito ha il diritto di prelazione… deve darmi il permesso ? perché sono incapace di intendere e volere ?

Razzismo ? forse soltanto pre-giudizi. Non conoscenza, ignoranza e competizione immotivata o semplicemente paura di essere contaminati: da una cultura, anche in senso antropologico, differente.

Erano gli anni del boom economico el’immigrazione era soltanto interna così a disturbare la “ pace sociale” erano gli immigrati “ terroni – detti anche marocchini in senso dispregiativo “ insomma quelli che non si lavavano, buttavano l’immondizia dal balcone e nel bidè conservavano le olive in salamoia e nella vasca da bagno coltivavano prezzemolo.

A Bologna collocarono, tutti i meridionali arrivati per lavorare nelle fabbriche , in edilizia pubblica in un quartiere –ghetto che adesso è utilizzato per gli extracomunitari, mentre chi era arrivato per un lavoro intellettuale, in fondo era autonomo e si integrava facilmente partecipando alla vita culturale della città.

In quel periodo i meridionali immigrati erano oggetto di osservazione sociologica o attenzione giornalistica , così ad una intervista fattami dal Resto del Carlino , quotidiano locale allora diretto da Enzo Biagi, dichiarai, con l’arroganza tipica dei giovani… che sia io che mio marito eravamo arrivati, si con il Treno del Sole non con la valigia di cartone ma con un grosso bagaglio pieno di cultura che a Bologna mancava.

Così il giorno dopo , sul muro della mia scuola lessi a caratteri cubitali “meglio negri che terroni “

Nessuna frase è stata meno profetica di questa Anni dopo i “ negri” sono arrivati assieme ai “ marocchini” gli unici che hanno diritto a pieno titolo di essere chiamati tali e così il rifiuto, la non accettazione, la paura del diverso…. si è spostata su di loro Noi, adesso, siamo sempre gente del Sud ma veniamo considerati intelligenti, generosi, con un grande entroterra culturale alle spalle, un mare meraviglioso, opere d’arte eccellenti, una gastronomia eccezionale…

Un solo neo : non riusciamo a liberarci dalla MAFIA…perché aspettiamo ancora un Garibaldi che faccia il lavoro al posto nostro.

Ho vissuto quasi mezzo secolo della mia vita al Nord. Ho conosciuto artisti, intellettuali, politici, emarginati, immigrati, donne e uomini di questo luogo e di altrove… riscoprendo, anche attraverso il confronto con loro, continuamente le mie origini e le mie profonde radici che affondano nella terra a forma di falce caduta nel mare Mediterraneo.

Sono queste la mia ricchezza e l’energia che ancora oggi dominano la mia esistenza . Rivendico, con forza, il mio essere trapanese che, a mio avviso, e’ un modo particolare, culturalmente ed etnicamente più complesso – di essere siciliani.

dal sito - Trapani Nostra

L'archivio della memoria di Trapani e provincia

 

- di Marco Giuffrida -

 

Un passo indietro per focalizzare scenario ed eventi, da cui ha origine questa breve storia che “attraversa” ben due secoli e dura “soltanto” cinquant'anni!


Momenti di gioia, di dolore e, soprattutto, vuoto e silenzi, fino a quando la “Rete” è riuscita con le sue maglie a ripescare quanto inesorabilmente sembrava perduto.

1955. Una “chiamata” a Roma per comunicare a mio Padre che, con la promozione, sarebbe stato trasferito.


“Dove vuole andare, Dottore? A Milano o a Belluno?”


Questa, in sintesi, la domanda che fu rivolta da un Funzionario del Ministero a cui, prontamente, mio Padre rispose: “a Milano!

Immagino il rapido ragionamento fatto per indicare nella Città meneghina la nuova sede: la guerra appena finita e l'Italia, ancora ferita, con un grande bisogno di scuotersi di dosso danni, povertà, addirittura miseria. Già si intuivano i segni di una Rinascita che, proprio in Milano, con le sue Industrie ricostruite ed i Commerci in piena attività, vedeva il “baricentro”.

Non fu Milano ma Belluno! Ad evitare, spiegarono, che nella città Lombarda, il papà potesse avere “legami” che avrebbero potuto condizionare la sua posizione delicatissima di “Servitore dello Stato”.


Lui fu costretto a partire quasi subito per la nuova sede, lasciando la famiglia a Messina in attesa, fra l'altro, di trovare casa e, soprattutto, perché noi ragazzi potessimo finire tranquillamente l'anno scolastico e riprendere i corsi di studio nelle scuole bellunesi.

Tutto semplice, addirittura “liscio”. Apparentemente!

Quattordici anni vissuti nello stesso ambiente, anzi, in un microcosmo “speciale” di Messina. Speciale almeno per me: il Torrente Boccetta!


Un'Oasi dove era possibile incontrarsi e, a seconda dell'età, giocare, discutere, progettare.


Due strade parallele, con al centro l'alveo del Torrente coperto ed arredato con aiole di oleandri e panchine semicircolari in pietra, al cui centro, piccole piante di palme.

Eccomi dunque, dalla primavera all'autunno d'ogni anno, ad incontrarmi all'aperto con i miei amici.


Potrei nominarli tutti ed indicarne il nome, uno ad uno.


Mi piace, però, soffermarmi di più su quattro di loro con cui, anche dopo la mia partenza e per diversi anni, ho mantenuto i contatti. Quattro fratelli: la maggiore, Maria; il primo dei maschi Annibale, poi Franco e, infine, il più piccolo Renato, di pochi mesi allora, a cui la sorella maggiore, spesso, faceva da “mamma”.

Partire è un po' morire dice il vecchio adagio. Unica consolazione il fatto, che all'allontanamento dagli amici si presentava per me l'illusione di un Futuro, probabilmente, migliore lì nel profondo Nord.
Come si diceva, come si sperava.

Ci si immergeva negli anni del boom e del Benessere e lo si avvertiva chiaramente nell'aria.

I miei quattro Amici, dunque.
Ricordo perfettamente la desolazione che colpì la loro famiglia con la morte del Padre. Piansi con loro e giurai a me stesso che quella sarebbe stata l'ultima volta della mia vita che lo avrei fatto.


Era di maggio, poco prima della fine dell'anno scolastico.
Maria venne a scuola vestita di nero ed Annibale, all'occhiello della giacchetta grigia, portava una vistosa striscia nera. Anche le loro scarpe erano diventate “miracolosamente” ed improvvisamente nere. Così si usava...... dolore “dentro” e lutto, in vista, fuori.

Unii il loro dramma al mio e partii con un carico incredibile di tristezza, mitigato appena,  per quattro anni, dal fitto scambio di corrispondenza che ci tenne aggiornati delle novità, dello stato di salute delle famiglie, dei progressi negli studi....... Un solo incontro, poche ore, nel 1961.

Poi, inevitabile, per il divergere delle nostre Vite ed il trascorrere del tempo, l'affievolirsi dei contatti fino allo spegnersi totalmente.
Infine, solo silenzi.

Di tanto in tanto il risvegliarsi prepotente del Ricordo di quei ragazzi oramai grandi, cresciuti come me ma lontani. E poche angosciose domande, rivolte a me stesso.
Dove cercare? Come?

Oramai il silenzio si era sommato alla nostalgia ed al bisogno, mai soddisfatto, di sapere della loro salute, della loro Vita! Mi restavano soltanto una manciata di foto scattate nell'ultimo incontro, e qualcuna che loro stessi mi avevano inviato.


Certo non intendevo appoggiarmi ad un investigatore privato e neppure ricorrere a quelle assurde e melense trasmissioni radio o televisive. Ma, in qualche modo dovevo farcela!

Quanti gli anni di timide ricerche e, soprattutto di grandi speranze, sempre deluse per riuscire a sapere?


I conti sono presto fatti: una cinquantina d'anni e qualcosa di più.

Poi arrivò Internet.


Con il computer avevo (ed ho) una certa dimestichezza, acquisita con la passione ed il lavoro, e non mi è stato difficile cominciare a cercare.


Non potevo certo pensare che anche i miei amici avessero conoscenze “tecniche” e, dunque, avrei dovuto “provare” con i figli se non, addirittura, con i nipoti.

Chat? Social Network? Si, anche quelli!

Con molta prudenza e riservatezza ho iniziato ad esplorare questi “ambienti” senza successo finché un giorno ho scoperto, e ci sono entrato mettendoci la faccia, il più noto ed importante “punto d'incontro” frequentato da ragazzi ed adulti.


Furono tentativi infruttuosi vagando con frettolosa ansia e senza metodo. Poi, sistematicamente, ho provato ad contattare tutti quelli che avevano il cognome dei miei Amici: “soltanto” duecento novanta fra femmine e maschi, giovani e vecchi.

Ho inviato poche righe chiarificatrici, delicatissime e con tanto di presentazione per chiedere e da cui ho avuto risposta, purtroppo, sempre negativa.

Poi, un giorno, “nell'icona” piccina piccina, una giovane bionda e, sullo sfondo, il porto di Messina.


Provo, con la certezza in cuore, di un'ennesima risposta negativa. “È l'ultima volta”, mi dissi! Invece......

Dopo alcune ore, mentre digitavo altro alla tastiera, un “bip” che mi annunciava l'arrivo di un messaggio!


Eccolo, testuale con qualche piccola omissione: “Buonasera... le persone di cui lei parla sono mio padre (Annibale) ed i mi zii. Quindi credo che abbia trovato il giusto contatto per una CARRAMBATA. Noi viviamo a …....., a parte lo zio Renato che sta in…....., e...si, il panorama alle mie spalle è quello di Messina, sono spesso lì per lavoro.


Saluti”.

Felicità assoluta!


Cinquant'anni e più di ricerche e silenzi cancellati in un attimo grazie a Internet d'apprima, al telefono poi. Ed a Skype, ultimo, con cui ci siamo perfino visti. Ma, nel bene e nel male, soprattutto, abbiamo, HO saputo!!

Ancora non siamo riusciti a incontrarci. La stretta di mano e l'abbraccio fanno parte delle speranze che aiutano a vivere... guardando lontano.

 

- di Rosario Fodale -

 

Morire in stanza con altri degenti, in un reparto del Policlinico Universitario di Messina non è una esperienza positiva. Ne sa qualcosa il sottoscritto,  Rosario Fodale,  al quale proprio ieri pomeriggio è venuta a mancare l’amata suocera.

L’anziana signora, dopo il decesso, è rimasta per circa due ore e mezzo, nel proprio letto d’ospedale con accanto altri pazienti e con i solerti medici ed infermieri che si dimenavano telefonicamente con il personale della sala mortuaria per la traslazione della salma. Quest’ultima, è stata spostata solo quando i responsabili della sala mortuaria si sono dichiarati disponibili nel riceverla. E nelle due ore e mezza di attesa per la traslazione della salma, vergognoso a dirsi, non si è neppure pensato di trasferire la povera defunta, dalla camera in una stanzetta dello stesso reparto. Il che la dice lunga sulla mentalità, umanità e sensibilità dell’amministrazione dell’ospedale in materia. Mia suocera è deceduta attorno alle 18 e solo verso le 20,30 circa, è uscita dal reparto. Immaginate voi come si potevano sentire gli altri pazienti della stanza costretti a non mangiare, spostati nel corridoio. Vi è chi perfino ha dovuto subire una trasfusione di sangue, accanto alla defunta.

Cose da pazzi!!!! Pazienti deceduti lasciati nelle stesse stanze di quelli ancora vivi che avrebbero diritto di curarsi pensando più alla vita che alla morte!!! Al Reparto di Medicina Interna del Policlinico Universitario di Messina non esiste una “stanza del commiato” per i pazienti appena deceduti che non hanno più bisogno di assistenza,  che sia capace di dare discrezione e tranquillità  ai familiari nel grande dolore del momento.  E così si continua a non capire e a sperare di morire di notte, con la complice discrezione di un’ora in cui i pazienti riposano e gli infermieri, pochi, sono un po’ più liberi. Per disturbare meno e per non bloccare nei tempi tecnici (spesso lunghe ore) le vite degli altri.

V’è di più!!  In tutto il nosocomio, il più importante a livello locale, le uniche due ambulanze adibite non solo per il trasporto dei pazienti da e verso il pronto soccorso ma anche, per, appunto, la camera mortuaria, ad un certo orario non funzionano più. Che indignazione e sdegno per certe disfunzioni e per i numerosi disagi che ne conseguono!!!

Si rivela necessario rieducare alla morte una parte della società: nello specifico gli operatori sanitari, gli amministratori: una sfida che arrivi a far recepire la morte non antagonista ma parte della vita! E’ fondamentale che si umanizzino i processi che circondano eventi simili consentendo agli operatori ospedalieri, di gestire con maggiore delicatezza i sentimenti dei parenti dei defunti di vivere, nel rispetto della morte, con affettuosa tenerezza, il distacco dall’estinto nonché il diritto degli altri degenti e pazienti in cura ricoverati di non assistere a simili visioni.

Chissà se i Responsabili di questo fatto increscioso un domani si trovassero nelle stesse condizioni come  risolverebbero questo problema?

Passiamo la palla a chi di competenza per prendere gli opportuni provvedimenti del caso, quantomeno per una questione di civiltà ed umanità.

- di Giovanni Tomasello -

 

Già in passato il Professore Giuseppe Francesco Mobilia primario di ginecologia, e attivo nel portare avanti strenuamente le istanze del cittadino-paziente nel vorticoso e intricato sistema sanitario siciliano di recente oggetto di riforma da parte della Regione Siciliana, ci aveva edotto con le sue argomentazioni sempre molto oculate. Questa volta abbiamo voluto rincontrarlo per fare il punto anche e soprattutto sull’attuale situazione precaria che coinvolge l’Ospedale di Lipari che nelle intenzioni della Regione sembra debba essere fortemente ridimensionato. Il Prof. Mobilia oltre ad essere investito dal Sindaco di Lipari Mariano Bruno dell’incarico di consulente per la Sanità del Comune, riveste anche le cariche molto significative di Commissario del Sindacato U.G.L. in materia sanitaria per la Regione Sicilia, ed anche Presidente del Comitato Spontaneo di cittadini in difesa dell’Ospedale di Lipari.

“In questo momento, come vanno le cose a Lipari, Professore?”

“Vorrei dire, anzitutto, che nelle ultime settimane c’è stato un abbandono da parte dei 108 Sindaci della Provincia di Messina, in ben tre riunioni, indette dal Sindaco Buzzanca,  andate a vuoto. E in ben tre occasioni, mancando il numero legale, non si è potuto sviluppare il tema all’ordine del giorno. Nell’ultima riunione bastava che fossero presenti 39 Sindaci, invece erano presenti 17. Anche i Sindaci delle Eolie non sono apparsi a queste riunioni, e neanche i loro possibili sostituti. Questo è un fatto che mi ha enormemente dispiaciuto, perché ancora una volta si è persa l’occasione di mettere sul tappeto tutte quelle cose da fare per salvare la rete ospedaliera siciliana. Rete ospedaliera che si trova in una situazione di stand-by, visto che la Regione attraversa un momento di crisi istituzionale, e se non passa la finanziaria, approvata a maggioranza, rischiamo di andare a nuove elezioni. In questo momento, quindi, la sanità interessa meno rispetto alla finanziaria.

E’ calata l’attenzione sul problema sanità, e quindi sulle Isole Eolie. Isole Eolie che ai politici interessano poco, perché i voti che prendono lì sono pochi, per cui non hanno interesse a seguire la sanità nelle Eolie. Però l’isolamento, è tale che…. Anche oggi, gli aliscafi non sono passati. Lunedì uno di questi è andato a fuoco mentre navigava. Quindi questi poveri abitanti delle Isole non possono essere seguiti bene, e rischiano di non essere assistiti adeguatamente. E restano abbandonati in osservazione in attesa che l’elicottero o la nave intervenga. E’ una situazione insostenibile, siamo ridotti al lumicino. Ci sono pochi ausiliari, e pochissimi medici all’Ospedale di Lipari. Ad alcuni non gli hanno rinnovato l’incarico. Gli infermieri sono carenti, non c’è la possibilità di poter ospitare i non residenti negli alloggi locali, perché ormai si avvicina la stagione estiva. E chiunque ha un appartamento grande o piccolo che sia, preferisce affittarlo ad un prezzo molto alto ai turisti che vogliono godere il sole delle Eolie. Questo comporta lasciare i medici e paramedici senza casa. Questo fatto aggrava la drammaticità del problema di assicurare una buona assistenza nelle Eolie. Avevo proposto al Sindaco Mariano Bruno, come esperto consulente, di prendere un vecchio stabile abbandonato, e adibirlo ad alloggio per il personale medico e paramedico che più o meno saltuariamente lavora nelle isole Eolie. Se non si dà vitto e alloggio a queste persone che vengono da fuori, purtroppo, dal 1° Giugno gli abitanti del luogo inizieranno a non affittare più case a medici e paramedici”.

Pare, quindi, dalle sue parole, che l’aspetto politico prevalga sugli effettivi bisogni dell’ammalato in primis?”

“A parte la politica, c’è la situazione ambientale locale. Il problema di avere la residenza lì, senza casa, scoraggia sia i medici che i paramedici. Qui i politici c’entrano poco. In realtà è la volontà delle singole persone delle Eolie che avendo più stabili, preferiscono introitare denaro per l’anno che verrà. In inverno, ad esempio, guadagnano meno, e hanno bisogno delle riserve di euro che accumulano in estate. Certo il Sindaco potrebbe prendere l’iniziativa nel favorire la residenza a questo personale medico e paramedico”.

“Al momento l’Ospedale di Lipari come funziona?”

“In atto l’Ospedale di Lipari gode di pochi reparti. C’è il reparto di Medicina che ha il pienone, data la sua potenzialità e specialità. Qui soprattutto gli anziani trovano l’assistenza.  Il reparto non offre grande assistenza in casi di infarti, ictus  e per altre patologie acute. Offre assistenza più o meno completa per gli anziani. Questo dal punto di vista sociale è lodevole, ma certamente non si dovrebbe solo occupare di questa fascia d’età, ma si dovrebbe occupare di dare assistenza in casi di patologie acute. Poi c’è il Reparto di Chirurgia, dove da sempre, da circa quindici anni, manca la figura del primario. Il Reparto di Ostetricia ha solo due medici, mancando il primario, ma anche la TAC e la Risonanza Magnetica. Insomma è veramente penoso assistere a questi elicotteri che fanno i taxi dell’aria per aiutare  i poveri ammalati delle Eolie, non sempre in condizioni di sicurezza, viste le condizioni meteomarine. Quindi sono abbandonati. L’opinione pubblica, i mass media dovrebbero attenzionare anche le Eolie. Sette isole che hanno solo la speranza dell’elicottero e dell’ospedale”.

“A livello sindacale, come commissario dell’U.G.L., cosa state pensando di fare per ovviare a queste problematiche?”

“La prima cosa che ho proposto di fare, da tre mesi a questa parte, è quella di mandare a turnazione medici e paramedici per trenta giorni ciascuno, per offrire la propria opera, la propria esperienza nelle isole Eolie. Le normative contrattuali attuali prevedono che la mobilità d’urgenza fino a trenta giorni può essere attuata, nel mandare personale valido, almeno trenta giorni a turno ciascuno, per offrire buona assistenza nell’Ospedale di Lipari. Questo vale anche per gli infermieri, gli ausiliari che a turno possono sviluppare attività ospedaliera nel presidio di Lipari, in attesa di poter fare bandi specifici per le Eolie. Tanti medici e tanti paramedici abitano nelle isole Eolie, quindi potrebbero lavorare nell’ospedale”.

“Il sistema sanitario siciliano, per concludere, a suo modo di vedere, possiede più pecche o più vantaggi?”


“Diciamo che non si fa altro che parlare dell’Ospedale Piemonte che perde uno, due reparti. Si parla di Barcellona se deve avere due o tre reparti di Chirurgia; si parla di Milazzo se deve avere tutto o il meno di tutto. Alla fine si dimentica di parlare di Mistretta e di Lipari che sono geograficamente, territorialmente condannati all’isolamento. Invece di occuparsi i mass media, i politici, di altre realtà, per umanità, per professionalità, per rispetto della salute umana, dovrebbero occuparsi anche degli ospedali di Mistretta e di Lipari. Anche se portano pochi voti ai politici, la salute non è paragonabile al voto”.

 

“Mi sono trasferito a Messina nel 1960 ed ho avuto subito una bellissima impressione: l’Università, gli ospedali, le fabbriche (Birra Messina, Rodriquez, Cantieri Navale), Marina Militare, Il Distretto Militare, ecc… .

Sono ripartito nel 1965 per ritornarci definitivamente nel 1977, per motivi di lavoro e per ricominciare a conoscerla meglio.

Diceva sant’Agostino: “La città non è solo mura e pietre”, e Sofocle, 2500 anni fa “la città è gente”.

Il primo aspetto cui farei riferimento riguarda i cittadini la vera anima del luogo e tanti non hanno alcun amore per questa città, bellissima.

Messina non ha una compattezza, rintracciabile ad esempio ad un movimento. Non ha uno spirito solidaristico, tutto si sta perdendo e l’anima si deteriora in una quasi sorta d’involuzione, di disarmo delle coscienze.”

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