- di Giuseppe Rando -
Due mesi dopo il terremoto, la sera del 5 marzo 1909, il ferry-boat riportava a Messina il professor Concetto Marchesi, che al “Liceo Maurolico” aveva insegnato fino a tre anni prima insieme con l’amico fraterno («più che amico fratello») Edoardo Giacomo Boner. Alla ricerca del poeta, sperando fosse ancora vivo, il futuro, grande latinista mosse tra palazzi distrutti e cadaveri ancora insepolti (dopo più di sessanta giorni!). Quella tragica, funerea visione della città dello Stretto, che amaramente «imputridiva» in un’aria ammorbata, raccontò, quindi, a caldo, in un articolo poco conosciuto, intitolato Edoardo Giacomo Boner, apparso nell’ottobre dello stesso anno sulla «Rivista d’Italia. Lettere, Scienza ed Arte» e ripubblicato da Giuseppe Rando, La narrativa di Edoardo Giacomo Boner, Appendice I (pp. 149-168), EDAS, Messina 2002.
Vale la pena riproporne, in questo 28 dicembre 2016, qualche nudo lacerto, che documenta, al pari – se non più - di altri reperti fotografici e filmici, lo sfacelo.
Ricordo che una violenta emicrania mi fasciava la testa e che ritto a prora in mezzo al cordame, […] tenevo gli occhi lacrimanti sulla spiaggia isolana in cerca della città. Ma […] nessuno dei noti segnacoli io distinguevo, né per l’ampia azzurra cintura m’appariva la mole dei grandiosi palagi e la candida fuga di case e di ville verso il Faro. In luogo della città rosseggiante ne’ vesperi di perla, io non vedevo più che un’enorme, mostruosa e irregolare cava di pomice, desolata e cinerea. […]
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Il giorno appresso, accompagnato da un amico dottore di Messina, mi aggiravo per le incredibili rovine […]. Dietro a me l’amico ricordava: «Qui era la piazzetta dell’Immacolata». L’Immacolata era là sul pesante zoccolo di marmo, come ingombro di cosa vecchia […]. «Là era il liceo, a sinistra». Là, il liceo? Non era possibile: e proseguivo incespicando, trascinandomi fra le travi e le pietre […]. Scheletri di palazzi vuoti come teschi, avanzi di colonne, spigoli di muri sottili sottili, e lunghi lunghi come certe ombre della notte ne’ chiassi stretti al lume di luna: nient’altro. […]
I morti si estraevano insieme con le masserizie dirotte e venivano fuori con mostruosa regolarità le cose oramai inutili della vita. Sentivo una donna vicina, una madre, accoccolata sur una trave: «Mettetelo la, con Maria». Diceva di un pianoforte. Maria era nella cassa scoperchiata, avvolta in un lenzuolo: un braccio solo appariva, come fradicio piccolo tronco piegato a mezzo per il forno. La madre teneva un granello di canfora sotto il naso: e il piano spinto su, rotolato tintinnava e chioccolava lugubremente. […]
Uomini passavano con zappe, vanghe, casse da morti; ma i morti stavano dentro. […]. Mi sorgeva dinanzi in lucida visione la scuola, là, un poco a sinistra, con gli alunni a centinaia e coi tanti professori e le tante aule aperte e la campana agitata nel mezzo… […]: avevo compreso finalmente. Eran tutti morti, tutti, anche Edoardo, il fratello mio.
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[…] Egli abitava tra via Fata Morgana e via Cola Pesce: tra due vecchie leggende di cielo e di mare. L’avrei trovato certamente. Mi avviai verso la marina, arrampicandomi per il cumulo enorme degl’immensi palagi rovinati. Alcuni uomini, là sopra, vigilavano: altri uomini più giù scavavano. Un lezzo ammorbante di cadaveri si appastava alle narici e alla gola. C’eran tre casse allineate e ripiene ed altre eran attese con impaziente malumore, Scavavano dalle dieci del mattino, ed avevano estratto dapprima poche masserizie rotte e qualche oggetto prezioso; poi vennero i morti, e non finivano più.
I morti di due palazzi s’eran dato convegno in quella orribile notte di dicembre: eran venuti là da tutti i piani e da tutte le camere. Eran già racchiusi nelle casse tre bambini, una giovinetta e due donne; Dalle pareti scabre della fossa sporgevansi intanto altre braccia e ciuffi di capelli, mentre il piede di uno scavatore affondava in qualcosa di morbido e di gonfio, ch’era il ventre di una sepolta. […] Distinguevo i contatti lividi e flosci, le mosse strambe e orrende, la funebre oscenità delle nudità putrefatte, la gazzarra muta dei corpi gonfi, neri, flaccidi, sovrapposti, attorcigliati, intossicati e intossicanti, in quell’afa senza brividi, l’aria che li rischiarava, le travi e le pietre che li avevano uccisi.
Concetto Marchesi non ritrovò il corpo di Boner, che fu rinvenuto «solo dopo diciassette mesi dal terribile disastro» (!), «proprio in quel punto ch’egli aveva designato in sogno» a una bambina, stando a quanto asserisce la sorella di lui, Giulia, in una lettera al cugino Giorgio Boner.
Concetto Marchesi, catanese, ritornò a Messina, in qualità di professore di Letteratura Latina presso l’Università degli Studi, nel 1915, dopo aver conseguito la libera docenza in quella nobile disciplina: vi rimase fino al 1923, quando ottenne il trasferimento all’Università di Padova. Socialista fin dal 1895, Comunista dal 1921, Accademico dei Lincei dal 1928, fu rettore dell’Università di Padova dopo la glaciazione del ventennio fascista (in cui fu obbligato dal PCI a giurare fedeltà al fascismo, per motivi di strategia politica) ed entrò nella politica attiva, quale membro del PCI. Intellettuale e professore divergente rispetto alle logiche accademiche e politiche del tempo, conseguì fama imperitura negli studi di antichistica per le sue edizioni critiche e per i suoi saggi fondamentali su autori latini, oltre che per la famosa Storia della Letteratura Latina. Costituisce, senza meno, uno dei fari più luminosi della cultura messinese. E andrebbe opportunamente riproposto ai giovani di oggi per irrobustirne le radici e il debole impegno culturale.