L’abbandono, l’addio, la lontananza.
Tre parole che rappresentano la sintesi di chi, come me, un giorno ha dovuto lasciare gli Amici, la propria Città, la propria Terra. Parole che, per chi è “restato”, spesso, appaiono, addirittura, incomprensibili.
Questo ho cominciato a capirlo “assaggiando” la sofferenza degli “altri”.
Negli anni cinquanta, ragazzo, avevo assistito alla partenza di una di quelle navi che, nei porti italiani, caricavano file di uomini per trasportarli, migranti, in Argentina, in Brasile, in Australia. Nessun sorriso. Solo fazzoletti in mano che servivano per asciugare occhi e per essere sventolati nell’improbabile speranza che chi, sulla nave, riuscisse a distinguere un puntino nero dall’altro, nella miriade di puntini neri stipati lungo la banchina.
Qualche singhiozzo superava il sommesso e diffuso brusio. Poi il distacco della nave dal molo. Il lugubre fischio di saluto mescolato al fumo nero e, dai ponti, un unico bianco sventolio in risposta a quello che si levava da terra. Uno sventolio di resa alla propria Terra incapace di dare lavoro, pane e sicurezza.
Un saluto dal sapore di addio, di rinuncia, di “perdita”.
Oceani a separare la Nuova dalla Vecchia Terra. Un Mare di lacrime e di amarezza a separare Affetti, Sentimenti, forse Amori.
E l’ho potuta misurare, questa amarezza, avendo conosciuto, da adulto, un Commissario di Bordo, colui che accompagnava e assisteva sulla nave i migranti in questi lunghi ed estenuanti viaggi della speranza e, soprattutto, perché ho potuto dialogare con emigrati di prima e seconda generazione.
Radicarsi in Terre così diverse e lontane non è stato per nulla facile per questa povera Gente. Il miscuglio di “disperati” non ha mai amalgamato le diverse etnie che, per sopravvivere dapprima e per difendersi poi, si sono chiusi in Clan, in Gruppi e neppure per Nazione ma, addirittura, per Regione!
Dunque i Veneti con i Veneti, i Laziali con i Laziali, i Siciliani con i Siciliani e così via.
Circoli chiusi fondati all’incirca una sessantina di anni fa! Dunque, ancora oggi, usi costumi, dialetti, con le particolari inflessioni, sono quelli della fine degli anni quaranta e degli anni cinquanta.
Nelle riunioni conviviali, spesso settimanali, è un discorre del “Paese” per come si è vissuto, per come si è lasciato, per come è ricordato.
Troppo difficile e costoso il ritorno a Casa per le vacanze. La facile mobilità appartiene a quest’ultimo decennio o poco più. Poi, “lì” c’è il lavoro, “lì” si sono formate le nuove famiglie, lì ci sono i figli, la seconda generazione e “lì” ci sono i nipoti.
Quasi mai vengono assorbite “contaminazioni” da chi, corregionale, li incontra nella nuova Patria o, addirittura, nei loro rari rientri al Paese natio.
Per quanto incredibile possa sembrare, quasi sempre, è così. E, questo, sia per chi è oltre Oceano sia per chi ha avuto l’avventura d “osare” verso il Nord Europa.
E’ evidente, nei discorsi che si intessono con i “Vecchi”, che il dolore del distacco, la nostalgia hanno “accompagnato” tutta la loro vita dal giorno della partenza e, questo sentire, in qualche modo lo hanno trasferito ai figli, anche se meglio inseriti nel tessuto della nuova Patria.
Quasi un contagio.
Poi il racconto dell’accoglienza. Anzi, della non accoglienza. La diffidenza verso i nuovi, verso il nuovo arrivato. E la difficoltà di scuotersi da dosso i “luoghi comuni”, le dicerie, la mala fama: mafia, disonestà, scarsa voglia di lavorare, la scarsa pulizia personale. Mai, mai alcuno capace di guardare le mani di quella Gente, la pelle e le rughe del volto per cercare di “leggere” la verità e comprenderne la storia.
C’è chi ha fatto tanta fortuna, chi poca e chi niente.
Ma questo, alla fine è contato e conta poco. Restano le loro malinconie profonde che ho letto nei loro occhi persi lontano ed appannati dalle lacrime.
Solo un solo flebile sospiro:
....... “U Paesuzzu miu” .......