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I fichidindia

- di Giuseppe Cavarra -

 

Oggi i fichidindia costano un occhio della testa. Ne facciamo esperienza durante le feste di fine d’anno quando per un chilogrammo di bbastadduni dobbiamo sborsare fino a cinque euro.


Negli ultimi due secoli, il prezioso frutto della terra sicula ha visto le proprie quotazioni salire sempre più sul mercato. Il Pitrè ci informa che fino al 1860 cinque fichidindia erano venduti al prezzo di un “grano”; nel 1882-83 si cominciarono a vendere a peso: «cosa che al popolo fece grande sensazione», commenta l’illustre demologo.


Oggi si vendono solo a peso e, a quanto pare, il mercato tiene.
Viaggiando sulla provinciale Catania-Ragusa, è facile vedere qua e là appezzamenti di terreno coltivati esclusivamente a fichidindia: ad essi gli agricoltori dedicano le stesse attenzioni che, in passato, dedicavano solo a piante come gli ulivi, i peri o i mandorli. Che non siano i fichidindia a tirarci fuori dalla crisi in cui la Sicilia si dibatte?

L’haiu ruossi e frischi i ficupali [Ce l’ho grossi e freschi i fichidindia]. Così gridano i venditori di fichidindia nei mercati di Ragusa e di Siracusa.


In un indovinello popolare è il frutto stesso a decantare la propria succulenza:
Ti fazzu mali, non mi tuccari,
ma, si mi spògghju, ti fazzu scialari.
[Ti faccio male, non toccarmi, / ma, se mi spoglio, ti faccio scialare].

Ultima modifica il Sabato, 08 Ottobre 2016 17:43
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