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rfodale

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- di Giuseppe Cavarra -

 

Il cannolo è un cilindro di pasta ripieno di crema a base di latte, zucchero, cioccolata, ricotta, pistacchio. Gli ingredienti possono mutare da una pasticceria all’altra anche nella stessa città. 
Un pranzo di Natale o di Carnevale in cui manchi il cannolo è «un mangiar senza bere, un murare a secco, lo stare al buio in una conversazione» (Pitrè).


Nel 1685 un poeta – tale sacerdote D. Stefano – scriveva in una sua poesia tra il gaio e il giocoso:
Beddi cannola di Carnilivari,
megghiu vuccuni a lu munnu un ci nn’è;
su’ biniditti spisi li dinari,
ogni cannolu è scettru di ogni Re;
arrivanu li donni a disirtari:
lu cannolu è la  virga di Moisè.
Cu’ nun ni mancia, si fazza ammazzari,
cu’ li disprezza, è un gran curnutu affè.
[Bei cannoli di Carnevale, / migliore boccone al mondo non c’è; / sono benedetti spesi i denari, / ogni cannolo è scettro di ogni re; / arrivano le donne ad abortire: / il cannolo è la verga di Mosè. / Chi non ne mangia, si faccia ammazzare, / chi li disprezza, è un gran cornuto, in fede mia]

- di Giuseppe Cavarra -

 

Un tempo le strade delle nostre città risuonavano delle voci “gridate” dai prestatori d’opera e dai venditori ambulanti.
Tàstala e viri ch’è bedda! [Assaggiala e vedi quanto è buona]: così gridava per le strade della Sicilia il venditore d’acqua allo zammù (anice).
Cunzàmu li piatti! [Ripariamo i piatti]: così gridava l’arrotino per le strade di Noto (Siracusa).


Cu’ havi capiddi di vìnniri? [Chi ha capelli da vendere?]: così gridava il compratore di capelli da donna per le strade di Palermo.
Senza focu addùmanu [Senza fuoco accendono]: così gridava il fiammiferaio per le strade di Siracusa.
‘A missa niesci,‘a missa [La messa esce, la messa]: così gridava lo “scaccino” sulla porta della chiesa per annunciare ai fedeli che il prete, già sull’altare, dava inizio alle finzioni.


Oggi ch’è primu lùniri di misi, la diasilla all’Armi Santi [Oggi che è il primo lunedì del mese, il dies irae alle Anime Sante (del Purgatorio]: così gridava il cantastorie cieco per le vie di Palermo per ricordare ai passanti che, essendo il primo lunedì del mese, era bene far cantare un dies irae in suffragio dei loro defunti.


Voci, usi e costumi che il rombo delle motorette e delle macchine ha cancellato dalle strade delle nostre città.
8 dicembre

- di Giuseppe Cavarra -

 

Mèttiri la sputazza a lu nasu [Mettere la saliva sul naso]
È un detto che in Sicilia ha larga diffusione. Nella maggior parte dei casi viene usato per evidenziare l’idea di vittoria accompagnata con un pizzico di dileggio nei confronti del concorrente o dell’avversario.


A quanto pare, il detto è nato in una scuola, dove il maestro puniva gli allievi incuranti dei propri doveri ricorrendo ad un castigo che non teneva in nessun conto la raccomandazione degli antichi: maxina debetur reverentia puero.


Secondo il Pitrè, si tratta di un castigo che «certi maestri di villaggio» infliggevano agli «scolaretti negligenti […] per mezzo d’un altro scolaro che stava innanzi a lui per istudio e diligenza; il quale intingeva della propria saliva la punta dell’indice e la passava sul naso del ragazzo, talora appiccicandovi una pagliucola o un pezzettino impercettibile di carta».


Il grande folklorista considera il castigo «non pulito certamente, ma di grande efficacia per la vergogna ond’è preso chi l’ha meritato». Evidentemente, al tempo in cui il Pitrè scriveva queste parole, non era molto sentito il problema della prevenzione intesa come azione che promuove la salute mentale del bambino e garantisce lo sviluppo della personalità dei più deboli nelle dimensioni necessarie alla loro più completa realizzazione.

- di Giuseppe Cavarra -

 

"Dove maggiore c’è, minore cessa”.


In dialetto siciliano il detto suona così: Unni maggiuri c’è, minuri cessa. Che è poi la traduzione fedele del latino Ubi maior, minor cessat. Il maior è chi detiene il primato in qualunque forma esso si concretizzi: politico, economico, etnico, culturale, etc.
Quasi a sancirne la veridicità, talvolta il detto viene messo in bocca ad un animale: dissi lu puddhicinu nta la massa…, [“disse il pulcino nella massa”], dissi lu scarafàgghju nta la fògghia…[“disse lo scarafaggio”], dissi l’aciddhittu cacanitu…[“disse l’uccellino “cacanido”]: animali innocui, come si vede. Ricordiamo che “cacanido” è l’uccello ancora implume: incapace com’è di volare, fa i suoi bisognini nel nido.


Il detto in una variante da noi raccolta a Messina alla fine del 1989, “nella massa” diventa “nella Massa”, con l’iniziale del sostantivo maiuscola. Il che equivale ad una collocazione geografica del detto in una delle Masse a monte di Messina. In questa veste il detto figura in una quartina che nella città dello Stretto ha ancora larga diffusione:   


Dissi lu parrineddhu di la Massa:
unni maggiuri c’è, minuri cessa;
senza dinari non vi cantu missa,
mancu vi pottu lu mottu a la fossa 


[Disse il pretino della Massa: / dove maggiore c’è, minore cessa; / senza denari non vi canto messa, / nemmeno vi porto il morto alla fossa].

- di Giuseppe Cavarra -

 

Sono molti i detti siciliani in cui la realtà viene, per così dire, ribaltata. Per cui il ladro diventa il boia del derubato; chi il danno ha subìto, invece di essere risarcito, finisce sulla forca. Il pensiero corre a certi spettacoli del passato in cui i padroni servivano a tavola i loro servi. Solo che quegli spettacoli facevano parte dei copioni che si rappresentavano nelle piazze nei giorni del Carnevale, mentre nella vita reale non è raro che il reato rimanga impunito e in galera vada a finire chi il danno ha subito. Si pensi alle strategie messe in campo da certi politici del nostro tempo per continuare a trarre dai loro “uffici” tutti i vantaggi possibili.


Tra i detti in cui la verità viene sfacciatamente ribaltata il più noto è questo: U bboi cci dici ô sceccu curnutu… [Il bue dice all’asino cornuto…]. Come se, tra le prerogative che il bue possiede, le corna non fossero l’attributo più vistoso. Troviamo il nostro detto in un canto popolare dove la misura dell’assurdità che il detto vorrebbe sancire è ribadita in primo luogo dalla successione serrata degli adùnata:


Canciàru tempi, canciàru staciuni,
 la gatta abbaja e fa meu lu cani,
 camina drittu lu granciu-fudduni,
li sperti divintàru tabbarani;
la pecora va ‘n facci a lu liuni,
canta lu pisci e tàcinu li rani 


[Sono cambiati tempi, sono cambiate stagioni, / la gatta abbaia e miagola il cane, / cammina dritto il granchio, / i furbi sono diventati minchioni; / la pecora va incontro al leone, / canta il pesce e tacciono le rane]

- di Giuseppe Cavarra -

 

Nel paese avevano un solo gallo e tutti si alzavano quando lo sentivano cantare la prima volta. Una mattina, non sentendolo cantare, nessuno si mosse dal letto. Aspettarono, aspettarono. Quando il gallo si decise ad emettere il suo chicchiricchì (era quasi mezzogiorno), saltarono tutti giù dal letto e si affacciarono alle finestre.

Dicevano tutti più o meno la stessa cosa: quel birbone gli aveva fatto perdere una giornata di lavoro.

“Giornata rotta, pèrdila tutta”, disse il capo. E aggiunse: «Sapete che vi dico? Raduniamoci in assemblea per stabilire quello che dobbiamo fare».
Quando furono tutti nello stanzone del Palazzo Comunale, il capo parlò chiaro e tondo secondo il suo solito.

 Disse:

«Quello che è accaduto non deve più accadere. Nel paese la vita non si può fermare per i capricci di un farabutto. A questo punto una cosa è certa: di un solo gallo non possiamo più fidarci … L’unica via d’uscita mi sembra questa: comprarci un gallo a famiglia».

Tutti fecero quel che disse il capo, ma nel paese perdettero la pace. La mattina con un gallo che cantava di qua e  un gallo che cantava di là: non si capì più nulla.

Ma la cosa più grave fu questa: in quel paese nessuno durante la notte chiuse più occhio: non volendosi più fidare dei galli, aspettavano l’alba rimanendo svegli tutta la notte.

 Di qui sarebbe nato il detto: “Dove cantano tanti galli mai fa giorno”.

- di Giuseppe Cavarra -

 

Ci accade sempre più spesso di volere ascoltare la “parola” che ci orienti e ci procuri rasserenamento e invece ci vengono incontro “parole” che non ci aiutano a vivere. Crollano le “sicurezze” su cui vorremmo poggiare le nostre motivazioni di vita e, quando cerchiamo qualcuno che ci dia una mano nel nostro bisogno di espanderci, ci accorgiamo che intorno a noi ogni sforzo messo in moto è volto solo a radicare l’uomo in un “io” che ripete soddisfatto: «Io sono in quanto ho; ciò che ho – denaro, potere influenza, prestigio – è ciò che mi qualifica, che mi fa ‘essere’”.


Quelle che presentiamo sono “piccole storie” che offrono brevi riflessioni su quanto accade intorno a noi negli anni che stiamo vivendo o, se preferiamo, “punti di vista”sulle circostanze nelle quali ci imbattiamo in un mondo in cui la differenza fra come stanno realmente le cose e come invece vengono dette o scritte è enorme. “Piccole storie” nate da una noticina che abbiamo scritto chissà quando in margine al libro che leggevamo, da un modo di dire che il nostro amico mette dentro il discorso che stiamo ascoltando, da un atteggiamento che il nostro interlocutore assume dinanzi alla vita e alle sue vicende, da un “incontro” in cui non si fa nulla per penetrare in ciò che effettivamente siamo.


In un mondo in cui spesso non c’è corrispondenza fra le parole e le azioni, fra le promesse e gli adempimenti, fra ciò che siamo e ciò che diciamo di essere, la ricerca della verità diventa a volte un bisogno angoscioso. È naturale che in simili situazioni la speranza non possa ridursi all’ottimismo che fa dire: la vita non mi va poi tanto male… Allora, se non vogliamo fossilizzarci anche noi in convenzioni e luoghi comuni, dobbiamo rivedere continuamente le opinioni che ci facciamo su di esse. Ha ragione Shakespeare quando fa dire ad Amleto. «Non c’è nulla di buono o di cattivo che il pensiero non renda tale», ma non meno ragione del drammaturgo inglese ha il filosofo Epitteto (I sec. d. C.) quando afferma: «Non sono le cose in se stesse a preoccuparci, ma le opinioni che ci facciamo di esse».

 

Realizzato in epoca medioevale, il Torrione è ubicato in prossimità del Monastero Basiliano di San Filippo il Grande e dominava, con la sua imponenza originaria la fiumara Calispera e lo stesso Torrente San Filippo proprio alla confluenza con quella parte del litorale che vedeva l'ormeggiarsi di grandi flotte.
Di base ottagonale, presenta una struttura rinforzata da speroni e una cornice circolare.
Il suo utilizzo fu anche come cantina, già nel XIX secolo, quando le vennero costruiti addosso alcuni palazzi signorili, uniti ad essa da una serie di ponti ad arco, in mattoni, mantenendo, però, intatto il suo affaccio verso il mare.

Dell'intera struttura oggi non restano che poche macerie.

Nadia Trovatello

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