L'interno del Duomo che faticosamente, dopo il terremoto, era stato ricostruito con i pezzi recuperati dall'antico, ripristinando mosaici, monumenti e sculture, è stato quasi interamente distrutto dall'incendio provocato dai bombardamenti del 1943.
La magnifica decorazione del soffitto della navata centrale è a due spioventi, raccordata da una fascia comune, con una duplice serie di stelle a cupolette che, in ogni gruppo di quattro ne formano una, nel centro fortemente incassata.
I colori dominanti sono il giallo e l'oro, con venature di verde e di rosso con qualche tono di azzurro. Dalle rosette si dipartono girali e ramoscelli di giglio. Tutto il soffitto è sostenuto da quattordici capriate che hanno puntoni e catene istoriate, e che, nella zona centrale sono divise in due minori, anch'esse riquadrate ed istoriate. Motivi di carattere calligrafico si susseguono in una serie di gigli campeggianti in forme plurilobate ove predominano il verde e il rosso contornato di giallo.
In ognuna delle zone minori sono figurazioni simboliche entro formelle ellittiche, raccordate da dischi racchiudenti motivi floreali e geometrici. Le figurazioni, distribuite aritmicamente, hanno colori vivaci: rosso cinabro, verde cobalto, bianco, e contengono soggetti vari. Alcuni di essi presentano aperta significazione simbolica, come il Giovane guerriero, l'Arcangelo Gabriele, il Cavaliere corrente o San Giorgio, il Giovane che atterra il leone o Sansone; altri, come il Vecchio che presenta una bambina tra le bende, o che è raffigurato con la clava in spalla, rimangono oscuri.
Nelle decorazioni dei puntoni, ove si ripetono analogamente gli stessi motivi decorativi, si riscontrano i simboli degli Evangelisti: il Leone, il Toro, l'Angelo e l'Aquila, raffigurati con l'aureola e reggenti i Vangeli, alternati a pesci simbolici, ricorrenti su di un fondale di rosso di azzurro. Nelle catene, tra motivi geometrici, sono dei fondali figurati, al centro il Cristo benedicente e ai lati Angeli ed Apostoli alternati.
Nella primigenia decorazione era stata riconosciuta diversità di esecuzione, che denunciava un diverso tempo di attuazione: uno, probabilmente con caratteri romanico-bizantini, ed uno, successivo, svevo, nel quale questi stessi caratteri erano frammisti ad elementi geometrici gotici. Nella ricostruzione che venne eseguita dopo il terremoto il prof. Daniele Schmiedt (1888-1956), attraverso lo studio accurato dei resti dei dipinti, era riuscito a mantenere l'originaria impronta trasfusa nelle decorazioni dalle anonime maestranze del passato. Sull'esperienza del Schmiedt, altrettanto si è cercato di fare con gli odierni restauri. Un nuovo pavimento marmoreo si è sovrapposto all'antico e opera di rifacimento è anche la decorazione parietale corrente lungo le navate laterali, che riproduce e continua l'Apostolato ideato dal Montorsoli.
Questi nel 1550 aveva ricevuto incarico dai giurati della città di creare un certo numero di cappelle da addossare alle pareti delle navate minori per ridurre ed eliminare la enorme quantità di cappellette, di edicole e altari che, col tempo, si erano accumulati disordinatamente nel tempio in tutti i punti possibili ed anche a ridosso delle colonne. Una pianta della chiesa, di quel tempo, ne indica, numerandoli, più di ottanta.
La decorazione progettata dal Montorsoli prevedeva un unico complesso architettonico disteso lungo i muri perimetrali, che, partendo dalle due porte laterali, giungesse all'altezza della quinta colonna. Esso doveva contenere sei cappelle per lato, e nelle loro nicchie dovevano trovar posto i simulacri degli apostoli, da qui il nome di Apostolato.
Le varie edicole, tutte uguali, si componevano di altari a tarsia marmorea, ai lati dei quali due colonnine anch'esse scanalate e con capitelli corinzi sorreggevano, su uno sfondo di marmi policromi a disegno geometrico, una piccola trabeazione sormontata da timpano racchiudente una targa con bassorilievo. Nelle nicchie sorgevano le statue dei santi apostoli. I bassorilievi del fastigio e della base raccontavano episodi della vita del santo.
L'insieme della decorazione, iniziata nella seconda metà del XVI secolo, venne completata delle statue successivamente e con lentezza; l'ultima collocata in sito era del secolo XVIII. Esse erano state eseguite da diversi artisti tra i quali, oltre al Montorsoli (1506-1563), autore del San Paolo, vi erano stati Martino Montanini (operante dal 1540 al 1561), Rinaldo Bonanno (tra il 1545 ed il 1590), Vincenzo Tedeschi (tra il 1636 ed il 1643), Antonio Amato (secolo XVII), Giuseppe Buceti (secolo XVII - XVIII).
Nel rifacimento dell'Apostolato si è rimasti fedeli all'impianto generale della composizione, ma si avverte una certa mancanza di unitarietà. Le statue infatti non sono state riprodotte copiando le antiche o usando o restaurando i resti di esse ma sono state realizzate ex novo affidandole ad artisti contemporanei, di vario orientamento stilistico.
Sulla navata di sinistra si apre una cappella-battistero di recente costruzione. Al centro della piccola aula è stato collocato, inserendovi una accessoria vasca poligonale, l'antico fonte che era situato nell'interno della chiesa, tra la quarta e la quinta colonna a destra. Esso ha pianta ottagonale, decorato a tarsia marmorea, sorretto agli angoli da eleganti colonnine cinquecentesche,attribuito a Gaddo Gaddi, fiorentino (sec. XIII - XIV). Sulla parete di fondo è stato posto un Crocifisso ligneo tardo secentesco.
Anche il bel pulpito a forma di calice, posto sotto la nona arcata di destra, è stato integralmente rifatto, copiandolo dall'antico. Sulla base. quadrata, ornata da girali con figure mitologiche, si innalza un pilastro a forma di piramide rovesciata, ornato di arabeschi, sormontato da un grande capitello ove sono scolpite a rilievo quattro teste, che si vuole vogliano rappresentare quattro eresiarchi: Maometto, Zuinglio, Calvino, Lutero, le cui dottrine simbolicamente sarebbero state annientate dalla predicazione del 3,'angelo, che il pulpito soddisfa. A1 di sopra, istoriato da minuto ricamo ornamentale, è il pergamo di forma ottagonale, decorato sulle facce da bassorilievi, inquadrati da pilastri rabescati, raffiguranti le Virtù teologali, il Cristo benedicente e gli Evangelisti.
L'opera era attribuita, quasi concordemente, ad Andrea Calamech che l'avrebbe eseguita attorno al 1583; taluno però riteneva, sulla base di confronti stilistici, che non tutto il pulpito fosse di sua mano, e che la decorazione del pilastro, di fattura assai fredda, dovesse attribuirsi a lavoro di aiuti se non di marmorari.
Due acquasantiere, poste all'inizio della navata centrale, una con decorazione a spighette e l'altra ornata da fiammeggiante fogliame avviluppato sulle pareti esterne (secolo XV) ci riportano alle poche opere originali rimaste.
Nella navata di destra, in prossimità della porta laterale è un'edicola che ora è incassata nella nuova decorazione dell'Apostolato. Essa contiene i resti della cappella dedicata a S. Giovanni Battista che l'incendio del 1943 ha assai danneggiato. La statua del santo, annerita dalle fiamme che fortunatamente non sono arrivate a calcinare il marmo, è riconosciuta come opera di Antonello Gagini (1478-1535), eseguita per incarico di tal Giovanni Campagna. Il nome di questi si leggeva sulla epigrafe situata sul fronte dell'edicola ornata del suo blasone, ma ora lo scritto non è più leggibile e della ornamentazione rimangono pochi segni che tuttavia testimoniano una certa grazia compositiva. La magia della soavità gaginiana traspare ancor più accentuata.nella modulazione della statua dall'atteggiamento ispirato e di perplessa staticità, raccolto e conchiuso dai ritmi lineari dei capelli e del panneggio.
Proseguendo nella navata di destra, di fronte alla cappella rifatta dell'Assunta, con statua di N. Richero, si trova il singolare monumento funerario detto dei Cinque Vescovi, secondo quel che si legge sulla curiosa lapide che lo sovrasta. Esso ha carattere quattrocentesco e si compone di un basamento di marmo su cui si elevano cinque archetti trilobati sostenuti da colonnine con capitelli l'uno diversi dall'altro, provenienti probabilmente da monumenti precedenti di epoche diverse. Il terremoto e gli incendi lo hanno rispettato.
Nel grande transetto o santuario, proseguendo nel ricordo delle sculture preesistenti ai moderni rifacimenti, assai notevole è la lastra tombale dell'arcivescovo Palmer, che ornava in origine la chiesa di San Nicolò, prima cattedrale. La lapide, danneggiata e rotta dall'incendio del 1943, è stata ricomposta ed posta sul pilastro dell'arcone, ove però rimane un po' sacrificata dalia monumentale tastiera dell'organo. Essa è la più antica tra le sculture del.Duomo e risale al XII secolo. Contiene tre medaglioni circolari quasi scavati nella pietra: in quello centrale il Cristo in trono, e negli altri la Vergine da una parte e dall'altra il defunto presule. Le teste delle due figure, reclinate verso quella centrale, e le loro mani protese verso questa creano un ritmo lineare che lega idealmente le tre figure. Si ritiene che l'opera sia da ascriversi ad epoca appena posteriore a quella normanna e sia dovuta ad artefice locale, legato però ancora a schemi bizantini.
Riccardo Palmer, prete di origine inglese, fu, come dice la inscrizione che corre intorno alla lastra, cancelliere di re Guglielmo il Buono, e poi vescovo di Siracusa; alla morte dell'arcivescovo Nicolò fu nominato arcivescovo di Messina, e qui rimase sino alla morte avvenuta il 1195. Egli portò con sé, nella nuova sede, il reliquiario di San Marziano, d'argento, che ora è conservato nel Tesoro.
Di fronte alla lastra tombale del Palmer si trova il cenotafio dell'arcivescovo Guidotto de Tabiatis, senese, eseguito da Goro di Gregorio nel 1333. E' il pezzo storicamente più importante fra 1e sculture del Duomo.
La figura del presule, rivestito dei paramenti sacerdotali, giace sul sarcofago ornato da riquadri scorniciati in cui, tra elementi floreali, è scolpito lo stemma del de Tabiatis. Il dado centrale su cui poggia il sarcofago era originariamente ornato da cinque pannelli in bassorilievo raffiguranti la Crocifissione, l'Annunciazione, la Natività, l'Adorazione dei Magi, la Flagellazione, ma una di esse, la Natività, è stata sostituita nel secolo XVI da una lapide a ricordo della santificazione del carmelitano Sant'Alberto, che il de Tabiatis aveva propugnato. Nel rifascio del dado si legge una iscrizione con inciso il nome dell'arcivescovo cui segue: Messer Goro de Gregorio senese, fecit.
Il monumento, per terremoti ed incendi, è stato molto danneggiato. Oggi delle formelle due sole sono ancora leggibili, mentre abbastanza chiara rimane la Crocifissione, un po' rigida nella sua severa plasticità; più offuscata invece è quella dell'Annunciazione, ove la Vergine si inchina dolcemente all'angelo enunciante sotto un portico urbano in cui l'autore ha voluto fermare un ricordo della città natale. Il Venturi ha ritenuto che il monumento dovesse essere completato da una edicola ornata di statue fra le quali superstite sarebbe la Madonna con il Bambino, detta degli storpi per il modo con cui sono rese le braccia del putto, poi collocata sull'altare di San Cristoforo e che ora è conservata nel Museo Regionale.
Sull'alto pilone del transetto si trova quanto è rimasto del monumento sepolcrale dell'arcivescovo Pietro Bellorado, che fu innalzato nel 1513 a spese di Giovanni Ruiz ad opera di Giovan Battista Mazzolo, operante nella prima metà del secolo XVI. Su di una zoccolatura di marmi policromi si eleva un alto basamento decorato da tre nicchie entro cui sono le statue della Fede, della Speranza, della Carità, eseguite con estrema grazia e con elementi classicheggianti. Su di esse si elevava i sarcofago variamente ornato sul quale era il corpo del defunto con paramenti sacerdotali. Questa parte del monumento non esiste più, è stata distrutta nell'ultimo incendio. Di fronte al monumento sepolcrale dell'arcivescovo Bellorado sta la tomba monumentale dell'arcivescovo Angelo Paino, opera dello scultore Mario Lucerna e dell'architetto Aldo Indelicato.
All'arcivescovo Paino, nel lungo periodo in cui resse la Chiesa messinese, toccò la ventura di ricostruire due volte il Duomo nel giro di un trentennio. Ed è proprio la figura del costruttore che ha ispirato gli artisti la cui opera inserisce nel contesto del tempio un elemento di viva ma composta modernità: la statua di bronzo del presule, praticamente eretta nella solennità dei paramenti liturgici, sorge da una travatura di cemento contro un grande pannello bronzeo segnato da tagli e lacerazioni che stanno a significare le brucianti ferite del terremoto e della guerra.
Al centro del transetto, in asse con l'altare maggiore, è stato collocato un altare col fronte rivolto all'assemblea dei fedeli.
Nella parte anteriore di esso, sotto la protezione di una grande lastra di cristallo, è stato inserito, tratto dal Tesoro del Duomo, lo stupendo paliotto d'altare in argento e rame dorato lavorato a sbalzo e bulino, eseguito nel 1701 da Pietro e Francesco Juvarra, rispettivamente padre e fratello del grande architetto Filippo, e destinato a completare l'altare maggiore della chiesa. Nel centro della composizione è raffigurata in bassorilievo l'ambascieria del Senato messinese alla Vergine e la consegna della Sacra Lettera; ai lati e in altorilievo sono due grandi figure simboleggianti la Fede e la Fortezza: l'insieme è ravvivato da fregi, cornici di bronzo dorato e puttini a tutto tondo. L'opera, un autentico capolavoro di grande suggestione plastica e coloristica, testimonia l'alto livello di perizia tecnica e di dignità artistica cui erano pervenuti gli argentieri messinesi, fra i più celebrati di Europa nei secoli XVI-XVII.
Nella testata del transetto è notevole il monumento dell'arcivescovo Antonio La Ligname. Esso sorse in origine come cappella intitolata alla Madonna del Soccorso, più tardi dedicata alla Madonna della
Pace in ricordo della fine delle lotte intestine fomentate dalla rivalità di potenti casate che il La Ligname era riuscito a comporre.
Da documenti risulta che l'arcivescovo aveva stabilito di erigere alla Madonna una cappella in Duomo simile ad altre preesistenti, e che ne avesse dato incarico allo scultore napoletano Beniamino Nobile, Questi però non espletò l'incarico che, con successive atto, fa affidato ad Antonello Gagini. Ma non sembra che questi vi abbia lavorato personalmente, infatti si pensa che del Ciagini sia il progetto ma che l'esecuzione sia stata effettuata in parte da aiuti, se non da anonime maestranze, ed in parte dal Mazzolo al quale si deve il sarcofago con il presule mitrato e giacente in sonno.
Il monumento è caratterizzato da una grande trabeazione sorretta da paraste comprendenti un grande arco che delimita una profonda nicchia entro la quale sta una trabeazione tripartita da pilastri e sormontata da una fascia con putti e festoni. Nella lunetta doveva essere scolpita una Annunciazione; successivamente, invece, dopo la morte del La Ligname, venne raffigurata la Madonna del Soccorso in atto di minacciare il demonio che tenta di insidiare un fanciullo che a Lei si rifugia; ai lati sono le figure inginocchiate del La Ligname, da una parte, e di Sant'Antonio dall'altra.
Nella parte sottostante, entro l'arco, venne posto un gruppo marmoreo raffigurante una Pietà e ai lati le statue di San Pietro e di Sant'Antonio; più tardi vi fu collocato un altare settecentesco.
Attorno all'altare ricorreva una serie di piccoli bassorilievi raffiguranti scene della Passione di Nostro Signore, sei orizzontalmente e quattro ai lati, che sono le più antiche e le più interessanti sculture di tutto il monumento; si ritiene che esse siano opera della bottega del Gagini.
Dopo l'incendio del 1943 il sepolcro è stato rifatto copiandolo in parte dal preesistente. Non sono state riprodotte alcune statue, come il gruppo della Pietà e quelle di San Pietro e di Sant'Antonio; al posto dell'altare è stato collocato il sarcofago che reca sul coperchio la figura dell'arcivescovo giacente.
A fianco di questo monumento era l'arca marmorea di mons. Giovanni Retana, eseguita da Rinaldo Bonanno, ma di essa non rimangono che due formelle con putti ed il busto del prelato, molto danneggiato dall'incendio.
Di fronte alla cappella del SS. Sacramento è il cenotafio dell'arcivescovo Proto, eseguito in Roma nel 1646. Le belle sagome del sarcofago, posato sul basamento ornato di cariatidi, come l'edicola con la figura dell'estinto, sono state danneggiate dall'incendio.
Proseguendo per la navata di sinistra si notano i resti calcinati dalle fiamme del monumento funebre dell'arcivescovo cardinale Villadicani, con la figura del prelato inginocchiato (1861), e quello più romantico dell'arcivescovo Natoli, opere della fine dei secolo scorso dello scultore messinese Giuseppe Prinzi (1831-1895).
Di fronte è il moderno bel confessionale di legno e tarsie policrome progettato dal prof. Adolfo Romano ed eseguito dall'ebanista Giuseppe Mangano; altro simile si trova simmetricamente nella navata opposta.
La cappella del Redentore, perfettamente simile nell'originale, è simmetricamente posta a quella della navata di destra ed intitolata all'Assunta. Essa venne elevata nel 1592 a spese del principe Federico di Spadafora, e conteneva una svelta figura del Cristo risorte che si attribuiva a Jacopo Del Duca. L'attuale è rifacimento moderno.
Prima della porta della sacrestia è incassato nel muro un bassorilievo raffigurante un San Girolamo in penitenza. II santo è seminudo, in ginocchio; davanti a lui sta una rustica icona con la figura del Crocifisso. L'insieme è fortemente stilizzato e di evidente durezza espressionistica: alcune parti erano ricamate in oro; si ritiene opera artigianale del Quattrocento. Originariamente apparteneva alla chiesa della confraternita dei sarti, dedicata a San Girolamo; successivamente passò ai Domenicani, e, dopo il terremoto del 1783, fu trasportata al Duomo. La figura del santo rende efficacemente la tensione della penitenza e della solitudine. I danni dell'incendio ne hanno offuscato alquanto la lettura. Nel grande transetto si aprono tre absidi i cui catini sono coperti da mosaici su fondo oro di carattere bizantineggiante; furono iniziati nel XIV secolo.
Prima dell'ultimo incendio ai lati dell'arcone dell'abside maggiore, quasi all'altezza dell'imposta, si notavano, sulle due pareti, due grandi e bei mosaici rappresentanti da una parte la Vergine Annunziata e dall'altro l'arcangelo Gabriele. Ora non esistono più.
Nella facciata interna dell'abside maggiore, lungo l'arco, racchiuso e collegato da motivi ornamentali, corre un fregio in cui dominano il verde e l'oro, contenente le figure degli Anziani di cui parla il capitolo IV dell'Apocalisse, ed al centro, in corrispondenza del vertice, l'Agnus Dei.
Nel catino si stende il grande mosaico entro il quale campeggia su fondo oro la figura del Cristo pantocrator seduto introno, con la destra benedicente alla greca e sorreggente con la sinistra il Vangelo aperto al cap. XI di San Matteo. Vi si legge il versetto: "Venite a me tutti voi che siete travagliati ed aggravati, ed io vi darò riposo". Ai lati stanno due angeli in piedi, uno per lato, e poi da una parte la Vergine che simboleggia l'aprirsi del nuovo Testamento e dall'altra San Giovanni che simboleggia la conclusione dell'antico. A fianco sulla destra, più in basso ed anche di dimensioni più piccole, sono le figure inginocchiate dell'arcivescovo de Tabiatis e le parole Guido tus Arch. e di re Federico d'Aragona con la scritta Federicus Rex; sulla sinistra quella di re Pietro II d'Aragona, che reca anch'esso la scritta Petrus Rex.
Il mosaico, danneggiato dal terremoto del 1908, era stato completamente ripristinato ma l'ultimo incendio lo ha seriamente compromesso ed è stato totalmente rifatto. Nel mezzo dell'abside si innalza il grande altare maggiore dedicato alla Madonna della Lettera e dietro di esso si stende il coro dei canonici.
L'insieme dell'altare e del baldacchino, di marmi pregiati e di rame dorato a fuoco, anche nella ricomposizione attuale, è opera di alto valore per la sua ricca e leggera composizione architettonica. Sorge su di un basamento ornato da ricchissimi intarsi di pietre pregiate: su quattro colonne, due per lato, addossate a pilastri e sormontate da capitelli, si appoggia una trabeazione, sulla quale alcuni putti in vari atteggiamenti innalzano un ombracolo culminato da una gloria di angeli che sorreggono una croce raggiante.
Sei altri puttini, disposti simmetricamente a tre a tre, reggono un festone che recinge le linee esterne del baldacchino. I primi due, dice S. Bottari nella sua monografia sul Duomo, sono collocati in alto, su voluíe che si elevano dalla trabeazione e si legano quasi ai cordoni esterni dell'ombracolo, dai quali si dipartono i festoni; altri due sono sospesi lungo le pareti aggettanti della trabeazione; gli ultimi due, graziosamente atteggiati, sono diritti sulle volute - impostate sulle ali di base, sporgenti su pilastri e adorne di balaustre - che raccordano la parte basamentale con gli elementi su ricordati, formando una ricca cintura all'agile ed armoniosa composizione. Nel mezzo, in una cornice dorata sormontata dall'Eterno benedicente e sorretta da movimentato gioco di puttini, si trova l'immagine della Madonna.
II quadro era opera bizantineggiante su fondo oro; quello attuale è stato eseguito dal prof. Adolfo Romano, recentemente, con identiche dimensioni e con le figure negli stessi atteggiamenti dell'antico. Nell'anno 1659 il Senato decretava di coprire l'immagine, secondo l'antica tradizione bizantina, di una manta d'oro, che riproducendo le forme dei corpi lasciasse visibili i tratti dipinti della Vergine e del Bambino. Il lavoro venne affidato ad Innocenzo Mangani, incisore fiorentino, che compì l'opera in tempo relativamente breve adoperando molti chili del prezioso metallo.
La manta, divenuta ricchissima per gli ex voto dei fedeli che vi hanno aggiunto oro, argenti e gioielli, viene esposta al pubblico solamente nelle grandi ricorrenze. Normalmente il quadro è coperto da un'altra manta in argento dorato di minor valore intrinseco. Si deve a questa antica prassi se il prezioso originale non è andato perduto per l'incendio del 1943 che distrusse altare e baldacchino.
Anche la parte posteriore dell'altare era assai pregevole per la profusione di marmi pregiati e bronzi dorati. Alla base erano tarsie policrome che ripetevano i motivi architettonici e decorativi della parte anteriore. Il rovescio del quadro aveva una sottile lastra di lapislazzuli e su di esso si elevava una gloria raggiante in bronzo dorato ornata da testine alate che sfavillavano alla luce mattinale che penetrava dalla finestra centrale dell'abside.
L'altare era in sostanza una superba opera di oreficeria curata nei più piccoli particolari, dalle scanalature delle colonne decorate a rosette nella parte inferiore alle cornici, alle volute, agli elementi decorativi. Esso venne iniziato intorno al 1628 su disegno di Simone Gullì , ma non fu opera di un solo artista; vi lavorarono infatti, come risulta da documenti, oltre ad Innocenzo Mangani, anche Antonio Guerriera; Giacomo Calcagni; Pietro Juvarra; Giuseppe, Giovan Battista e Placido Donia; Francesco e Giovanni Maria D'Aurelio; Francesco Chiazzo, tutti orafi ed incisori messinesi, ed il napoletano Andrea Gallo che, nel 1657, sostituì il Gullì nella direzione dei lavori, di cui, successivamente, vennero incaricati il pittore Giovan Battista Quagli.ata (1603-1673) e poi l'architetto Andrea Maffei.
L'altare fu ultimato nella seconda metà del secolo XVIII. Crollato per il terremoto del 1908 fu rimontato e ricostruito pezzo per pezzo. L'attuale restauro, dopo l'ultimo disastro, ne arieggia e ricorda le antiche forme.
A rallegrare la mestizia di tanti lutti ed opere d'arte perdute valgono però i colossali e splendidi candelabri d'argento sbalzato e lavorati a bulino che stanno ai fianchi de4l'altare. Essi appartengono al periodo di maggiore splendore della oreficeria messinese, allorché, sotto l'impulso dei Juvarra, l'iperbolico ornamentalismo si copriva di grazie ed eleganze decorative. Essi recano i marchi di Pietro e di Francesco Juvarra ed anche quello di Filippo: sono datati 1701. II lavoro a sbalzo ed a cesello, il bassorilievo e la scultura a tutto tondo, la composizione architettonica e la decorazione a volute, a girali, a fiori, a chiocciole, si innestano le une alle altre e si compongono in una ascendente sequenza di eleganti cadenze a cui il ripetuto motivo dei putti alati e quasi danzanti regala grazia di rinnovata festosità.
AI di sotto del mosaico, sulle pareti cilindriche dell'abside, erano affreschi eseguiti da Giovan Battista Quagliata nel 1655. Sotto di essi, lungo l'ampia conca, è posto il coro ligneo suddiviso in settantadue seggi. È contornato da grande cornice, sotto cui una serie di archivolti proteggono gli scanni.
Dal tredicesimo posto in poi, da entrambi i lati, gli archivolti, anziché essere sorretti da mensole, si impostano con bell'effetto prospettico su colonnine a rocchetti sovrapposti. Ogni seggio è ornato da un grosso grifo determinato da piastrini e da candelabre. Nei riquadri delle spalliere erano interessanti figurazioni in tarsia di legni pregiati raffiguranti episodi della vita dei Santi, nature morte ed anche vedute della città.
Dal nome di Giorgius Venetus che si leggeva nel terzo pannello degli stalli dì sinistra fu tradizionalmente a lui attribuita tutta l'opera, datandola dal 1540. Da ritrovati nuovi documenti però risulta che autore dovrebbe essere stato un mastro architetto Giovanni Barbielle che ricevette incarico nel 1506 della esecuzione di uno stallo e poi di altri due seggi nel 1512; esso fu sostituito da un Matteo di Bartolomeo, fiorentino che compì l'opera, pare, nel 1516.
Il coro attuale è la ricostruzione, o meglio la copia dell'antico eseguita fedelmente dall'ebanista messinese Giuseppe Mangano. Non sono state riprodotte però le tarsie negli stalli.
L'abside di sinistra, dedicata al Santissimo, reca l'impronta di Jacopo Del Duca (1520-1604) autore come è noto del cenotafio di Michelangelo in Sant' Apostoli in Roma, e che lavorò molto a Messina, oltre che a Cefalù ove era nato. '
A lui fu commesso il progetto della decorazione della cappella e dell'altra simmetrica dedicata a San Placido,'ma non ne compì l'esecuzione.
Fu realizzata dai suoi seguaci ed ebbe poi molti rimaneggiamenti. Non gravemente danneggiata dal terremoto del 1908 e dai successivi eventi è stata recentemente restaurata. Sul basamento marmoreo che corre attorno alla parete semicilindrica dell'abside, sono incassate, chiuse a vetri, una serie di nicchie quadrangolari in cui sono stati sistemati preziosi reliquiari d'argento.
Sopra questa fascia si svolge un fregio di figure alate sostenenti canestri di frutta e su di queste tondi marmorei racchiudenti medaglioni con le teste a rilievo dei Profeti e degli Evangelisti. In alto, nella zona tra la trabeazione ed i mosaici del catino, si svolge una falsa balaustra sulla quale si innalzano puttini che sorreggono un ricorrente festone.
Nel centro, a ridosso dell'altare settecentesco si eleva il tabernacolo a forma di tempietto con cupoletta sostenuta da colonne. Nella zona basamentale di questo stanno alcune formelle in bassorilievo, delle quali soltanto due si sono salvate dalle ingiurie del tempo: quella rappresentante l'Ultima Cena e l'altra con Luca e Cleofas. Sono state attribuite a Jacopo Del Duca, ma risulta da documenti che gli scultori Filippo Archina e Francesco Tesorieri si impegnarono ad eseguire il lavoro con un atto del 1603. Dietro l'altare, in una nicchia ricavata sotto il tabernacolo e recentemente restaurata, sono raccolte reliquie. Pendevano un tempo dall'arcone alcune lampade votive a forma di nave (secolo XVII).
Sul catino dell'abside si stende su fondo dorato un mosaico ove domina la figura della Vergine con il Bambino sorreggente, nella sinistra, la lettera scritta per i messinesi: ha attorno gli arcangeli con Santa Lucia e Sant'Agata in orazione, ed ai piedi la regina Eleonora, moglie di Federico d'Aragona, e la regina Elisabetta, moglie di Pietro II.
La simmetrica cappella di San Placido, che occupa l'abside di destra, è stata completamente distrutta dal terremoto del 1908 e poi gravemente danneggiata dall'incendio. Quel che oggi si può ammirare è frutto dell'intelligente restauro e ripristino del pittore prof. Adolfo Romano.
Egli ha cercato di mantenersi, per quanto possibile, fedele alle composizioni ideate da Jacopo Del Duca e di armonizzare mediante accorgimenti coloristici gli elementi eteronomi ed eterogenei che il tempo vi aveva accumulato, dall'altare settecentesco al mosaico bizantineggiante del catino.
La funzione coordinatrice di questi diversi ed opposti elementi è stata affidata a due fasce marmoree a decorazione geometrica che corrono dalla base dell'abside, quasi in linea con il sopraltare, fino all'altezza della cupoletta poligonale del tabernacolo. La tonalità rosso bruno dei vari marmi, posti a losanghe in basso ed a rettangoli in alto, va degradando di mano in mano sino al di sopra della balaustra. Si alternano poi sezioni policrome geometriche fino a raggiungere la serie di ar'chitettoni che nicchie di onice a fondo piano entro cui sono alloggiati i vivaci puttini bronzei attribuiti a innocenzo Mangani. Nel mezzo si eleva il ciborio a forma di tempietto con bassa cupola bronzea, sorretto da svelte colonnine, poste sugli angoli della piattaforma ottagonale.
Completamente rifatto, sulle tracce di quello preesistente del XIV secolo, è il mosaico del catino, sul quale è rappresentato San Giovanni in trono con libro chiuso in mano, tra San Nicola e San Basilio; ai lati sono genuflessi Ludovico d'Aragona (1342-1355) e Giovanni, duca di Randazzo.
Nella navata centrale. di fronte al soglio vescovile, è il monumento funebre dell'arcivescovo D'Arrigo, opera dello scultore A. Zocchi (1929).