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Con il mio quadro- Di Maria Torre -

La testata “MESSINA WEB.EU”, ha avuto il piacere d’interessarsi del Maestro Giuseppe Messina, un artista che, con le sue opere, onora la cultura. Egli ha lodevolmente spaziato nei diversi campi dell’arte, dalla scultura alla pittura, dalla poesia al teatro ed anche al cinema, creando opere d’impegno sociale da cui emerge un forte sentimento di attaccamento a quelli che sono i valori umani, di legalità e di giustizia sociale, ma anche il senso del bisogno della conservazione delle testimonianze dei valori culturali che ci giungono dalla classicità mediterranea.

   Con questa intervista della professoressa Maria Torre la nostra testata compie un altro passo per accompagnare il maestro verso la data di sabato 28 prossimo venturo quando sarà inaugurata la mostra organizzata per i suoi 50 anni di attività artistica e culturale che avrà luogo nel foyer del prestigioso teatro Placido Mandanici di Barcellona Pozzo di Gotto. L’importante manifestazione è stata voluta da un “Comitato d’Onore”, formato da una trentina di persone del mondo della cultura, e presieduto dal Dott. Roberto Materia Sindaco di Barcellona Pozzo di Gotto, tutte persone che hanno seguito il percorso dell’artista che non ha mai deluso le aspettative di chi ama la cultura.

Domanda:

   Maestro Messina, lei è considerato un artista a 360 gradi, in quanto opera da 50 anni come scultore, pittore, scrittore e autore di teatro, cinema ed altro; pertanto, come ha affermato il sindaco dott. Roberto Materia, il 23 dicembre in occasione del suo 70esimo compleanno, festeggiato nella prestigiosa aula consiliare di Barcellona P.G., Lei fa onore alla città che gli ha dato i natali e dove alla fine degli anni ’70 ha scelto di tornare per dare un contributo alla crescita della città che non aveva certo un’identità di prestigio. Vuol parlarci brevemente del contributo che negli anni ha dato alla sua città?

Risposta:

   Certamente, come ho avuto modo di dichiarare in altre occasioni, ogni cittadino dovrebbe onorare la propria città, ma non a paroleNEI PANNI DI MARCO AURELIO oppure soltanto espletando delle attività che, seppure oneste, non portano alcun vantaggio alla comunità, ma hanno il fine di procurare dei vantaggi personali: l’ideale sarebbe se ciascuno di noi fosse meno egoista e mai opportunista. Io, alla fine degli anni ’70, quando vivevo fuori dalla Sicilia, sapevo che ritornando qui non avrei avuto vita facile, non avrei potuto certo vivere con i proventi della mia arte e che avrei dovuto fare un qualsiasi altro onesto lavoro. Comunque non mi sono mai scoraggiato: d’altro canto avevo scelto io di fare ritorno, nessuno mi aveva obbligato. Certamente la città non era pronta ad ospitare uno con le mie idee; era ferma: diversi uomini di cultura prima di me avevano, giustamente, scelto di andarsene, anche per questo più di qualcuno mi ha preso per pazzo, ma io avevo le idee chiare e sapevo di poter dare un pur piccolo contributo per fare cambiare qualcosa. Infatti, qualcosa è cambiata. Ritrovandoci, con diversi altri giovani, in quel mio studio di via Roma al centro di Barcellona Pozzo di Gotto, abbiamo intrapreso un viaggio, un percorso non certo facile quando le male lingue dei cialtroni che nulla facevano e niente volevano si facesse per la comunità per poter dire che nessuno era migliore di loro. Tanti si sono messi di traverso, ciononostante, noi abbiamo fondato il “Movimento per la Divulgazione Culturale”, all’inizio non avevamo una sede, ma tutte le sere ci si incontrava nel mio studio, si discuteva, si facevano progetti, si faceva cultura, ci si organizzava alla meglio fiduciosi nel futuro. Si lavorava anche per togliere dei giovani dalla strada in una città che, come ricordava lei non aveva “un’identità di prestigio”, è vero, non godeva di un buon nome , anzi era intesa “città malacarne”. Proprio in quegli anni, quando i morti ammazzati per mano mafiosa non si contavano, noi abbiamo cominciato ad organizzare mostre di pittura, conferenze e buttavamo il seme per la realizzazione di video-documentari: sulla festa del “Muzzuni” di Alcara Li Fusi, sull’archeologia e vita sociale di Rodì-Milici e poi ecco il primo ed unico video-documentario sul “Patrimonio Archeologico Culturale e Realtà Sociale di Barcellona Pozzo di Gotto”, proiettato più volte in pubblico, anche a distanza di anni. Praticamente, a dispetto degli indifferenti che facevano il gioco di chi voleva il degrado sociale, qualcosa siamo riusciti a fare muovere intanto che tanti politicanti ci guardavano di mal’occhio poiché eravamo un pungolo molto scomodo. Sì, sinceramente credo che molto sia cambiato da quando sono ritornato a Barcellona Pozzo di Gotto, lo dimostrano i numerose artisti che sono cresciuti, le tante associazioni soci-culturali fondate e la grande mole di eventi culturali che la città produce. E non mi si venga a dire che tutto ciò è soltanto un caso fisiologico.

Domanda:

   Che lei abbia molti estimatori è fuor di dubbio, ne sono una chiara dimostrazione gli interventi tenuti nell’Aula Consiliare il giorno del suo compleanno, dai presidenti di molte Associazioni culturali di Barcellona, come la Pro Loco, la FIDAPA, ma anche dai rappresentanti di Associazioni del comprensorio messinese, ( la Filicus Arte di Milazzo, l’Accademia “Amici della Sapienza” di Messina, l’Associazione “Messina Oggi”.

Però è pur vero che qualcuno in città lo accusa di “vivere di cose effimere e di avere momenti di megalomania”, cosa risponde a costoro?

Risposta:

   Potrei anche non rispondere dal momento che i fatti parlano da soli ed i tanti artisti, che non erano tali quando sono tornato da Roma o erano ancora in erba quando si sono avvicinati a me, non potrebbero negare tali fatti anche perché si tratta di persone che, sono certo, sconoscono l’ingratitudine. Per quanto riguarda le cose effimere di cui, secondo qualcuno, io vivrei, mi piacerebbe sapere se questo qualcuno conosce il significato di effimero: l’effimero è ciò che ha pochissima durata, io vivo della mia arte, della mia cultura e non mi sembra che queste siano cose effimere. Per quanto riguarda i miei momenti di megalomania, suppongo che anche questo termine debba essere spiegato: megalomania è una definizione composta da due parole greche “mega” e “manìa” che significano “grande” e “pazzia”. Lascio decidere a lei: io sono un “grande pazzo”? Non credo. Forse potrei essere un grande illuso se credessi che certa gente capace soltanto di denigrare, di sminuire gli altri e di attribuire appellativi possa avere la fortuna di cambiare in meglio se stessa come le auguro. Credo, purtroppo, che questo esile numero di persone di cui lei fa menzione saranno gli stessi che, dopo aver visto la mia mostra, ergendosi ad impeccabili critici, diranno il peggior male possibile tanto da mettere a nudo la propria anima incolta di cui dimostrano non avere cura.

Domanda:

   Vuole darci qualche anticipazione sulla mostra antologica che sta preparando per i 50 anni della sua attività artistica e culturale e che prenderà il via a partire dal 28 gennaio ?

Risposta:

   Sarà una importante manifestazione per tutta la città, non soltanto per gli amanti dell’arte e della cultura in generale: sarà esposto un florilegio di opere che coprono lo spazio temporale di 50 anni della mia attività. La mostra, dal teatro Mandanici, dove saranno esposte anche le opere più grandi, sarà spostata alla galleria d’arte “Seme d’Arancia” alla vecchia stazione, ma soltanto per le opere medie mentre dall’1 fino al 31 di marzo l’esposizione delle opere più piccole sarà portata al “Villino Liberty” di via Roma.

Domanda:

   Perché per esporre le sue opere ha scelto il foyer del teatro Mandanici?

Risposta:

   In verità la scelta non è stata soltanto mia, mi prenderei un merito che non ho, però a me questa scelta piace, anche perché il foyer, in tutti i teatri del mondo, è adibito alle esposizioni artistiche e ad altro che riguarda il mondo culturale e poi, mi si permetta di affermare che considero positivo il fatto che il primo artista ad esporre nel nuovo Mandanici sia un barcellonese e non uno che viene da fuori; questo m’inorgoglisce e credo che saranno orgogliosi anche tutti i miei amici artisti locali poiché mi sento di rappresentarli ed onorarli come meritano.

Bene Maestro, grazie per la sua disponibilità, aspettiamo con ansia che arrivi il 28 Gennaio. Ci piacerebbe vederne spesso avvenimenti artistici come il suo nella nostra città. Ad maiora!

 CON MARIA COSTA

 

- di Rachele Gerace -

 L’associazione culturale Luca Marenzio, in occasione del 25° anniversario di fondazione propone, in collaborazione con l’Accademia Filarmonica, proporranno il “Te Deum”, con musiche di Haendel, Vivaldi, Mozart e Charpentier. Il concerto sarà eseguito dal coro “Luca Marenzio” con l’ensemble “Orpheus”, diretti da Carmine Daniele Lisanti.

L’evento Natura è Cultura, previsto per i giorni 5 e 7 gennaio, a causa delle avverse condizioni meteo è stato rinviato ai giorni 20 e 21 gennaio.

 

 

 

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- La redazione -

Dobbiamo dare atto, senza infingimenti, all’attuale amministrazione comunale che ha avuto fin dallo scorso anno, ed in particolare grazie all’intuizione dell’assessore ai Beni Culturali e Vice Sindaco Onorevole Giovanni Ardizzone, l’intelligenza di aprire la città alla Notte della Cultura. Ma credo che specialmente dopo l’enorme successo della seconda edizione dello scorso 13-14 Febbraio 2010, la manifestazione debba necessariamente trasformarsi in una Settimana della Cultura o addirittura in più momenti mensili cadenzati durante l’anno. Troppi i siti, molte le iniziative tutte valide alle quali i messinesi volevano affacciarsi e non hanno potuto per problemi di viabilità, per mancanza di tempo troppo striminzito e diluito in poche ore. Accanto a questa problematica evidente un po’ a tutti, aggiungerei un grande assente: l’appena inaugurato Palazzo della Cultura. Palazzo che deve essere utilizzato d’ora in avanti in maniera più massiccia, capillare, per manifestazioni, convegni, mostre d’arte, spettacoli teatrali di grande spessore e per tutto quello che significa portare, diffondere a mani piene cultura a Messina. Investiamo nella cultura, e la struttura di Viale Boccetta può servire allo scopo, può veramente proiettare Messina nei grandi, virtuosi circuiti internazionali della cultura e quindi diffondere profitto, creare sviluppo svegliando l’asfittica economia messinese. Invito gli amministratori, in particolare il Sindaco dott. Buzzanca e l’assessore Ardizzone a riflettere su questo, e a sbrigarsi per attivare fattivamente il Palazzo della Cultura con una oculata gestione, che certamente non si prospetta semplice, altrimenti rischiamo di trovarci per l’ennesima volta davanti ad una “cattedrale nel deserto”, davanti ad uno enorme spreco di denaro pubblico se la struttura sarà impiegata poco o per niente. Come associazione culturale e con noi tutte le espressioni culturali del nostro territorio offriamo fin d’ora la nostra esperienza per rendere operativo il Palazzo intitolato ad Antonello da Messina, e renderlo nel nostro piccolo, e con i nostri mezzi tecnologici ed organizzativi una realtà da far invidiare a livello nazionale e perché no anche internazionale. Un sogno? Forse. Ma vale la pena tentare. Intanto registriamo nella Notte della Cultura, per rimanere in  tema di cose da fare, il sogno di Padre Campagna rettore del Santuario di Montalto: “il sogno, la speranza che si ritrovi interesse verso questa città, per la sua crescita culturale e artistica. Il desiderio che si possa operare in una unità d’intenti per la ricostruzione della  sua immagine, di passato glorioso, per renderla sempre più degna,  di nobili tradizioni. Io penso che manifestazioni come questa debbano farci riscoprire la vocazione di Messina. E il mio pensiero va al Prof. Arcovito che ha costruito e fatto partire da Montalto il 14 Ottobre 2003 il culto e la vocazione di Messina, i cui principi ispiratori coinvolgevano gli aspetti essenziali della  nostra comunità cittadina. Quegli aspetti che vanno coltivati per un possibile cammino di sviluppo. La vocazione di Messina, scrive in un suo libro il nostro amico, deve essere trovata nel cambiamento”.

 

- di  Marco Giuffrida -

Non c’ero mai stato.

I miei Genitori, forse, non avevano avvertito la necessità di andarci.

Probabilmente, il “peso” degli anni appena trascorsi, aveva fatto preferire loro di evitare di frequentare luoghi che “parlassero” di Morte.

Forse, lo stesso stato in cui, il Cimitero, si trovava, nell’immediato dopoguerra, non ne consigliava la visita.

Inoltre, lì a Messina, in quegli anni, non avevamo familiari defunti da visitare, da commemorare, da piangere.

In vecchiaia, in uno dei miei rari “ritorni” ho voluto visitare il Cimitero della mia Città.

Consideravo questa non conoscenza come un tassello mancante nella ricerca delle mie Radici e della mia “provenienza”.

Questo, aldilà, di chi oggi, mio Familiare, vi è sepolto.

Inoltre, avevo già avvertito il bisogno di “avvicinarmi” e conoscere quei miei Concittadini defunti, più o meno famosi, per quella strana comunione che c’è e si crea fra Morti e vivi.

Grazie al Tram, lo scorso maggio 2009, da Piazza Cairoli, in una decina di minuti, mia moglie ed io, siamo già in prossimità del Cimitero. Pochi passi lungo il viale a fronte dell’ingresso ed eccolo!

Austero e splendido con le sue ampie e possenti mura.

Se ne affronta il cancello principale con la sensazione di entrare in un enorme Giardino.

I primi Monumenti, le prime ed importanti tombe di Famiglia e le molte croci avvertono che si è in un luogo di “Rimembranza e Meditazione”.

Affrontando la salita di uno dei viali laterali, ci si mette, subito, lontani dal frenetico e fastidioso rumore della Città.

Ci si immerge, a questo punto, nella lettura di Nomi che sai o scopri importanti e ti accorgi di essere di fronte ad uno strano libro, dove riesci, letteralmente, a leggere pagine di Storia e far scorrere, Tomba dietro Tomba, Monumento dietro Monumento, anche la Vita della Città.

Incredibili ed improvvise visioni che fanno viaggiare, indietro, nel Tempo.

Il ricordo del Funesto Terremoto incombe, tragico e silenzioso, ferendo nella distinzione fra ricchi e poveri.

Di ognuno o, addirittura, di famiglie intere il tragico e mesto ricordo.

Le dediche strazianti pesano come macigni,  quelle tenere ed affettuose commuovono. Sgomentano quelle lapidi fredde, forzatamente prive di segni o di nomi.

Poi le Guerre, con i suoi Generali, gli Ufficiali, i Soldati.

Genitori, fieri del coraggio dei Figli morti in Armi, ne raccontano la Storia della breve vita facendola scrivere, incisa, sul freddo del marmo.

Mogli che, commosse, piangenti, ricordano i Mariti.

Figli che ricordano i Padri, forse neppure conosciuti.

Intrecci di vite vissute e perse in un solo istante per un fucile nemico, una nave affondata, un aereo abbattuto, una mina.

Poi, dell’ultima Guerra, le vittime dei bombardamenti sulla Città: un numero incalcolabile di loculi allineati, modesti, silenziosi, capaci di esprimere, però, la grande dimensione della tragedia.

Ed ancora Tombe di Famiglia, come piccole case, più o meno grandi e lussuose.

Scalinate ti portano verso l’alto.

Di terrazza in terrazza arrivi alto fino a vedere, rassicurante, il Mare e si riesce a dominare una parte del Cimitero.

La Città, col suo Porto, la intravedi fra le fronde degli alberi ed il crinale del Colle.

Avevo, fedele, la macchina fotografica ma, inizialmente, ho evitato di riprendere qualche scorcio o qualche particolare storico ed interessante per una forma di strano pudore. Bloccato, forse, dal profondo silenzio del luogo, rotto appena e di tanto in tanto, dal frusciare del vento.

Spazi da “meditare”, viali, senza anima viva oltre noi. Viali da percorrere lentamente, in silenzio, volgendo lo sguardo attento ed interessato alle file interminabile di Memorie e lacrime poste ai lati.

Superati i momenti di emozione e commozione, a un tratto, ho sentito crescermi dentro un sentimento di rabbia, di repulsione, fino alla ribellione.

Un senso di malessere crescente al mio “realizzare” lo stato di trascuratezza e di abbandono di questo Luogo che consideravo e considero Sacro. Dando a questo termine, “Sacro”, un significato prettamente “Civile”.

Sacro come qualsiasi luogo che “racconti” di Donne, di Uomini e Fanciulli, di Umanità e di Patria.

Scuoto di dosso quel senso di pudore, che fino a quel momento mi aveva accompagnato e bloccato. Comincio a scattare alcune foto. Non molte, perché nulla, in particolare, volevo documentare. Desideravo, solo, ricordare ciò che mai avrei ritenuto possibile vedere.

La trascuratezza e l’oblio sono in ogni angolo, in ogni viale, in ogni tomba. Peggio, forse, di ciò che i messinesi devono avere visto qui il giorno dopo il Terremoto o alla fine della guerra.

In ogni luogo solo, ferri arrugginiti, portali parzialmente divelti, targhe pendenti e mal fissate, muri corrosi, scrostati. Molte sono le Tombe di famiglia con i vetri rotti o danneggiati. E dove i vetri sono integri, ragnatele e sporco annebbiano la vista degli interni.

Salendo le scalinate si fa fatica a vedere i gradini perché nascosti dalle erbacce. Ed i gradoni, che accolgono tombe più modeste, sono assolutamente impraticabili perché sconnessi ed anche loro sono infestati da una vegetazione selvaggia.

Ho chiesto spiegazioni e mi è stato detto che, il Personale incaricato del buon mantenimento del Cimitero, non è retribuito da mesi e, per questo, è in sciopero. Ma è assolutamente evidente che, questa, è trascuratezza di anni e non di mesi.

Certo, ed è possibile, che lo stato di abbandono, possa dipendere dalla mancanza di parenti, di eredi, di “successori”.

Generazioni perdute e non solo! Forse, anche, l’emigrazione verso l’Estero e verso il Nord. Sicuramente, anche questo, ha avuto ed ha il suo peso ma, in qualche modo, credo, si sarebbe dovuto provvedere.

Sembra che “il Ricordo”, a Messina, non appartenga più ad alcuno o, quantomeno, appartenga a pochi soltanto.

Mi auguro che, presto, “chi può”, provando vergogna, si dia da fare per provvedere a mettere ordine e ridare dignità a questo Luogo Sacro, storicamente, affettivamente e “monumentalmente” importante e che, oggi, versa in uno stato di deplorevole ed assoluto abbandono.

Ho trovato, in mezzo a tanto sfasciume, una nota di utile e stridente modernità in questo ambiente austero ma reso caotico dall’incuria: il distributore, a gettone, di recipienti per prelevare l’acqua dalle fontanelle e poter riempire i vasi di fiori sulle tombe. Si, proprio come per i carrelli dei supermercati!

Il vento di Messina ci ha seguito ed accompagnato lungo tutto il nostro vagare. Poi, solo noi e soltanto noi, anime vive e sgomente, e pochissimi altri che, ad un certo punto, abbiamo incontrato. Tanto pochi da potersi contare sulle dita di una mano.

Solamente un Uomo, l’abbiamo osservato da lontano, dopo avere fatto mille sforzi, per superare il muro di erbe, arrampicato su una scaletta arrugginita, cercava di mettere ordine alla tomba di qualche suo Caro.

Siamo usciti da una porta laterale appagati, certo, dalla vista di qualcosa di veramente unico ed interessante, ma delusi ed amareggiati per tanta trascuratezza e tanto abbandono.

Si dice che, il Cimitero Monumentale di Messina, per bellezza ed importanza, sia il secondo d’Italia. Non stento a credere che sia vero. E’ davvero qualcosa di veramente unico, certo, per costruzione, posizione e per la capacità di coinvolgere raccontando le mille e mille Storie che lì sono raccolte.

Si, c’è tutta la Storia della Città, fra l’altro, ben raccordata a quella della Sicilia e dell’Italia intera. Basta volerla leggere. Basta volerla capire.

Spero di tornare a Messina.

Certamente vorrò rivedere il Cimitero e, spero, di riscoprirlo veramente “Giardino”.

Anche questa volta avrò da fermarmi davanti alla tomba di due miei zii dove posare un fiore. Ma, questo, ha poca importanza.

Spero di tornare, e tornerò, si, ci spero, perché lì, in quel Luogo, vi sono, soprattutto, i “miei” Concittadini che hanno Vissuto” la mia Città e, in questa “mia e nostra” Terra, hanno avuto la fortuna di restare.

Per sempre.

 

 

PARTONO i bastimenti pì terre assai luntane…”. “…Mamma, mamma dammi cento lire che’ in America voglio andar…”, e ricominciare ancora una volta d’accapo. Nel corso del romanzo l’attenzione si accentra su un personaggio, Benny, la sua vita, il suo lavoro che inizia come manovale, per poi salire sempre più su, quante altre di queste canzoni, hanno connotato un’epoca? L’epoca delle grandi partenze, delle lunghe distanze, e spesso delle partenze senza ritorno.

Cantavano per descrivere il viaggio,la traversata, le asprezze del lavoro in terra straniera; per nostalgia, cantavano per disperazione, cantavano per speranza.

Speranza di poter trovare nel nuovo mondo quello che non avevano nella loro terra.

Speranzosi o illusi. Si calcola che l’emigrazione ha portato all’estero tra il 1876 e il 1988 quasi 27 milioni di italiani.

“Siamo stati un popolo di emigranti”. Questa la frase pronunciata dal Presidente della Repubblica Napolitano, all’inaugurazione del Museo Nazionale dell’Emigrazione

Italiana, nel complesso Monumentale del Vittoriano a Roma. Il Capo dello Stato ha ricordato che quello dell’emigrazione: “…è stato un capitolo essenziale della storia d’Italia…”.

E chi non ha avuto un nonno, uno zio, un parente emigrato per lavoro, per ricongiungersi con qualche familiare, o anche solo per spirito d’avventura? Sono stati accusati di essere incivili, ritardati mentali (perché non sapevano leggere e scrivere). Sono stati accusati di avere esportato malavitosi. Ma quanti milioni di emigranti sono partiti invece, per lavorare in maniera onesta e con spirito di sacrificio; in condizioni disumane, ma sempre dignitosamente?

Nel secolo in cui forme di razzismo o xenofobe, dovrebbero essere superate dall’intelligenza, dalla cultura, dalla razionalità, ritornano atteggiamenti e movimenti di intolleranza. La sola conoscenza del dialetto siciliano, può impedire a un uomo di diventare uno degli uomini più in vista di New York? Il dialetto siciliano come unica lingua di relazione, poi l’approdo nella 107esima, “la strada degli italiani…”

E’ una storia positiva, che porta alto il nome dell’Italia. Una storia nella quale gli ingredienti principali sono il lavoro delle mani e il collante della famiglia, che pur nell’integrazione nella nuova terra, non dimentica le proprie radici. L’orgoglio di essere italiani. Che grande esempio per i giovani! L’importanza di far loro conoscere i valori fondamentali quali: il lavoro, l’unione familiare, la dignità e l’amor di patria! I ragazzi oggi sono “distratti”

da modelli trasgressivi, riferimenti negativi, da imitare per emergere; per affermare la propria personalità e sentirsi qualcuno, usando le “vie” più brevi, tralasciando lo spirito di sacrificio - nel volere tutto e subito - l’abnegazione, la forza interiore.

Brevi cenni sul romanzo «Da qui alla Merica» di Graziella Lo Vano [pp. 193, Casa Editrice Kimerik, Patti (Messina), 2009, Euro 10,00]: narra la storia di una famiglia che si sposta tra l’Italia e l’America.

Prende l’avvio nel 1929, durante la recessione americana, abbracciando il periodo temporale che va dagli inizi del ’900,le due guerre mondiali, fino ai nostri giorni.

A differenza di molte altre storie di “partenza”, la storia inizia con un ritorno al paese. Vanno incontro ad un mondo arcaico, ancora medievale. Catapultati indietro di parecchi anni, se non addirittura secoli; non ancora sfiorato dalla meccanizzazione industriale. Il lavoro nei campi, l’aratura che avveniva con aratri manuali, come pure la coltivazione della

canapa, del lino, la produzione della lanae della seta. I sistemi di conservazione delle derrate alimentari è arcaico, e seguono le produzioni stagionali.

Pregiudizi, superstizioni, imperano, così come esistono in quel periodo storico in tutta la cultura contadina. Si materializzano personaggi immaginari dettati dalla fantasia e dalle paure ataviche. Ogni paese ha i suoi: a Napoli i “munachielli”,a San Fratello i “monachini”. Esseri un po’ uomini, un po’ fantasmi, capaci di compiere gesti straordinari, come quello di attraversare i muri. Dispettosi, ma tutto sommato simpatici.

I Caiola ritornano non da pezzenti; acquistano terre, armenti e un mulino, masoprattutto con un bagaglio di esperienze assorbite durante la permanenza nel nuovo mondo. Ritornano a far parte di quella comunità, partecipando alle ricorrenze, feste folcloristiche di antica memoria: “I Giudei” della Settimana Santa, il carnevale vissuto sotto lo sfondo dei mandolini e dei balli in casa.

Nel corso del romanzo l’attenzione si accentra su un personaggio, Benny, la sua vita, il suo lavoro che inizia come manovale, per poi salire sempre più su, fino a diventare uno dei maggiori costruttori e dare lavoro a centinaia di uomini, soprattutto connazionali; le opere di beneficenza(una casa di riposo nel paese natale), le sue conoscenze importanti e tra gli altri Anthony Quinn, del quale ne diventa fraterno amico e ne battezza la figlia. La vendita della M.G.M. La passione per le Ferrari (forse perché il padre,quando lui era bambino, rifiutò di comprargli una bicicletta?). Adesso è diventato uno dei maggiori collezionisti di Ferrari. Infatti, nei raduni internazionali della casa automobilistica, Montezemolo invita Benny, a rappresentare l’America. Il 2 giugno 1993, il Presidente della Repubblica gli conferisce, per i suoi meriti, il titolo di “Commendatore” (la storia, come opera inedita, ha già vinto un Montezemopremio a Napoli e uno a Messina. E questo è un buon inizio). Possa «Da qui alla Merica» avvicinare continenti che pur così diversi, hanno acquisito molte affinità, oltre che vincoli di amicizia e cooperazione. E’ dunque questa, la storia di un uomo che si è “fatto da solo” in una terra così diversa da quella di origine, grazie alle sue capacità. Ma che non dimentica la propria patria: “God Bless Italia, God Bless America”, ama ripetere il protagonista.

 

 

Nell’avviare una qualsiasi attività che abbia come fine la costituzione di nuove forme di aggregazione non si può dimenticare che la nostra è già e sempre più diventa una civiltà multiculturale. Oggi, prescindendo dal gruppo etnico a cui appartiene, l’uomo è immerso in un tessuto socio-comunicativo dove i media, moltiplicandosi, determinano un policentrismo culturale così complesso che gli stessi studiosi delle comunicazioni spesso non riescono a decifrare. D’altra parte, la diffusione di forme sempre nuove di comunicazione (si pensi soprattutto all’informatica) apre prospettive alle quali facciamo sempre più fatica a tener dietro. Dovremmo mettere in moto azioni di ricerca capaci di mutare gradualmente le strutture socio-culturali piuttosto invecchiate sulle quali facciamo ancora leva e aprirci a nuove tecnologie comunicative da utilizzare in funzione esclusivamente partecipativa e non in quanto strumenti di subordinazione culturale o, peggio, di eterodirezione politica.

Toccherebbe alla scuola insegnare ai giovani come strutturare, analizzare e integrare le informazioni necessarie a comprendere i linguaggi che descrivono e interpretano la realtà del nostro tempo; invece la nostra scuola trascura i linguaggi iconici per fare ancora largo posto al linguaggio verbale.

Se poi il discorso interessa la nascita (è il nostro caso) o il mantenimento in vita di un periodico, non si può dimenticare che le scelte da operare debbono essere indirizzate verso il decentramento delle strutture di informazione, formazione e promozione. Un periodico, a maggior ragione se diffuso on-line, “parla” contemporaneamente a milioni di individui con tradizioni, culture e religioni diverse l’una dall’altra. Un periodico del nostro tempo che voglia condurre ad una maggiore comprensione tra gli uomini non può non chiedersi come aiutare gli uomini a “riconoscersi” prescindendo dal cielo sotto il quale vivono. Comunque una cosa è certa: parola e immagine, lavorando insieme, possono fare molto perché gli uomini si riconoscano come “uguali” e come tali lavorare insieme per il bene comune.

Giuseppe Cavarra

- di Marco Giuffrida -

In fondo “Solo” un migliaio di chilometri o poco più. Che, comunque, specie negli anni passati, trenta, quaranta anni fa, rappresentavano, comunque, una distanza insormontabile.

Dalla Sicilia al Piemonte, alla Lombardia, al Veneto. Queste le direttrici principali.

All’improvviso, ragazzo, mi sono trovato letteralmente proiettato mille e duecento chilometri più a Nord. A Belluno.

Una famiglia fortunata, la mia!

Mio padre Funzionario dello Stato, uno stipendio sicuro a fine mese, viene promosso e trasferito.

Tutto normale! Anzi, di più: un avanzamento di carriera che si prospetta brillante, più soldi ed una vita nuova. Sono gli anni del dopoguerra, della Speranza. In Sicilia c’è poco. Sicuramente molto meno di ciò che può offrire il Nord con i suoi commerci, con le sue industrie. Un’ottima opportunità per tutti.

Prima parte il papà, il tempo di trovare casa ed organizzare, appena possibile, prima possibile, il trasferimento di noi tutti.

Sono mesi di attesa e di tensione ma, allo stesso tempo, disordinati, svogliati. Nessuna attenzione a scuola e pessimi i risultati. Ma, tutto questo, alla fine, contava poco. Quello che contava, per me, era capire cosa lasciavo e cosa perdevo con la partenza e cosa avrei trovato e guadagnato con il trasferimento.

Ansia, angoscia, paura, forse.

Presto l’avrei saputo!

Giusto il tempo di percorrere mille e trecento chilometri, lasciar passare qualche giorno e cominciare ad incontrare qualcuno. Magari qualche coetaneo. Ho tutta l’estate davanti.

Ho modo di vedere panorami stupendi, alte montagne, prati verde smeraldo. Quasi comincio ad entusiasmarmi alla nuova città.

Mio padre aveva già tentato di spianare la strada e si era dato da fare per sapere cosa avrebbe potuto offrirmi Belluno e, soprattutto, dove avrei potuto trovare un ambiente sano ed una buona accoglienza. . Potevo vantare la partecipazione ad attività giovanili presso i Salesiani di Messina e, dunque, non avrei dovuto avere difficoltà qui, nella “mia” nuova Città, proprio presso i Salesiani.

Mi accompagna mio padre. E’ giusto così. In fondo ho solo quattordici anni!

Il colloquio con il prete dura poco. Qualche minuto compreso i convenevoli:

“Sa, dottore, meglio lasciare perdere. Anzi, bisogna lasciare perdere perché vi sono troppe differenze di abitudini, di usi, di linguaggio. Si, qui i ragazzi parlano sempre in dialetto”.

Allucinante.

Un’estate solitaria, quella che affronto, in un ambiente nuovo, dai panorami bellissimi ma assolutamente sconosciuto. Freddo!

Mi sostengono le lettere che settimanalmente mi arrivano da Messina, dai miei amici. Io, oltre alla bellezza della Natura e dei luoghi mozzafiato, poco o null’altro ho da narrare.

Quante parole spese prima di partire!

“Beato te che vai al Nord. Là c’è tutto e, poi, vedrai, troverai nuovi amici, ti ambienterai e ti dimenticherai di noi, di Messina e della Sicilia”. Questo il riassunto dei ritornelli, delle raccomandazioni, del modo di consolarmi dei miei Amici.

Il tempo delle vacanze passa presto ed ecco l’impatto con la Scuola.

Ai Salesiani era stato solo il preludio.

Lì, a Scuola, dove avrei dovuto studiare, migliorarmi e crescere, ero, “semplicemente”, il “terrone”. Ero un qualcosa, neppure qualcuno, da evitare, da isolare. Razza inferiore, insomma.

Roba, alla lunga, da sentirsi, davvero, sporco dentro e fuori.

Scendere nei dettagli conta poco che sarebbe un rancoroso rimestare dentro un calderone di liquame.

Il mio è stato un lottare continuo per cinquantadue anni di fila. Ho raggiunto ottimi livelli nell’Industria locale, gomito a gomito con la Proprietà delle Aziende. Ottimi risultati alla mano ma mai apprezzati fino in fondo perché, è sempre sembrato impossibile che, “uno non dei nostri” abbia potuto lavorare così bene. Sempre sotto pressione. Roba da rodersi il fegato. Incredibile! E me lo sono ripetuto ogni giorno finché ho lavorato e me lo ripeto, spesso, ancora adesso.

Più di mezzo secolo è trascorso da quando son partito quel lontano 1957. E, soprattutto, nei momenti più burrascosi, la mia mente, il mio cuore sono tornati là da dove ero partito.

Con la mente, il ricordo, ma, soprattutto, con il cuore, ho ripercorso le “mie” strade, ho ricercato i miei panorami, le mie “viste”. Ho cercato di ritrovare i profumi, le luci, i suoni, i colori, gli Amici.

Tutto questo, sia pure con ottica diversa, mi ha fatto comprendere il disagio, la sofferenza e la nostalgia di chi era emigrato in altre Nazioni e, peggio, oltre Oceano.

Sono tornato, dopo decenni, a Messina. Sono tornato, con diverse e alterne fortune, nella mia Città e molto ho avuto di che godere, molto ho avuto ed ho di che dire.

Cuore e Ragione hanno dovuto viaggiare e viaggiano su binari diversi.

Da un lato la ricerca dei Luoghi, delle Radici. Dall’altro il dispiacere di avere notato e di dover notare dei cambiamenti. Molti, purtroppo negativi. Quello più pesante e grave è il disinteresse, l’apatia di molti concittadini. Una incredibile rassegnazione di fronte a tutto, con l’accettazione di situazioni incredibilmente vergognose. Un esempio lo sono il traffico, la mancanza di ragionevoli servizi pubblici e la pulizia della Città. La colpa, naturalmente, viene data agli Amministratori che, di responsabilità certamente ne hanno. Ma, non vanno dimenticate le mancanze individuali quella dei singoli, dalla mancanza di educazione personale e familiare. Non dimentico, certo, il ritornello che, sovente, ho udito: “se non lo fanno gli altri perche io ho da farlo?” E, con questo, pochissimi, danno inizio a quel circolo virtuoso, che se esteso, sarebbe di giovamento per la Città e per tutti.

Una pena. Una vera pena ritrovare una Città allo sfascio dove le strade sono intasate da inutile, chiassoso e disordinato traffico, con i marciapiedi dissestati, occupati da motocicli e da veicoli in genere e sporchi di tutto, con il contributo dato dai cani, con i loro escrementi, per finire alle cicche di sigarette passando per i barattoli di bibite ed alle carte in genere.

Sconvolgente la crescita incontrollata dell’edilizia che ha occupato quasi ogni angolo delle colline, già splendido anfiteatro proteso verso il Mare. Ora vi sono autentiche caserme aggrappate là dove prima c’era verde. Mi sono chiesto, nel mio girovagare, fra il Centro e la Periferia, a chi ed a cosa servono tutti questi edifici, quando molti dichiarano che, a Messina, non c’è Economia e non c’è reddito. Mi sono state date risposte fantasiose, contorte e difficili, per darmi delle spiegazioni. Teorie contorte e complesse che preferisco neppure ricordare.

Preferisco ricordare invece la visione dello Stretto, la visione della mia Città e di quelle vie e di quelle piazze ancora intatte, anche se soffocate dal traffico e dalla mala educazione. Preferisco vedermi risalire quelle splendide, anche se dimenticate, “Scalinate” che pian piano, portano dal mare all’alto della Circonvallazione. Mi piace ricordare le mie passeggiate lungo il mare per respirarne i profumi ed ascoltarne il respiro.  

  

 

L’abbandono, l’addio, la lontananza.

Tre parole che rappresentano la sintesi di chi, come me, un giorno ha dovuto lasciare gli Amici, la propria Città, la propria Terra. Parole che, per chi è “restato”, spesso, appaiono, addirittura, incomprensibili.

Questo ho cominciato a capirlo “assaggiando” la sofferenza degli “altri”.

Negli anni cinquanta, ragazzo, avevo assistito alla partenza di una di quelle navi che, nei porti italiani, caricavano file di uomini per trasportarli, migranti, in Argentina, in Brasile, in Australia. Nessun sorriso. Solo fazzoletti in mano che servivano per asciugare occhi e per essere sventolati nell’improbabile speranza che chi, sulla nave, riuscisse a distinguere un puntino nero dall’altro, nella miriade di puntini neri stipati lungo la banchina.

Qualche singhiozzo superava il sommesso e diffuso brusio. Poi il distacco della nave dal molo. Il lugubre fischio di saluto mescolato al fumo nero e, dai ponti, un unico bianco sventolio in risposta a quello che si levava da terra. Uno sventolio di resa alla propria Terra incapace di dare lavoro, pane e sicurezza.

Un saluto dal sapore di addio, di rinuncia, di “perdita”.

Oceani a separare la Nuova dalla Vecchia Terra. Un Mare di lacrime e di amarezza a separare Affetti, Sentimenti, forse Amori.

E l’ho potuta misurare, questa amarezza, avendo conosciuto, da adulto, un Commissario di Bordo, colui che accompagnava e assisteva sulla nave i migranti in questi lunghi ed estenuanti viaggi della speranza e, soprattutto, perché ho potuto dialogare con emigrati di prima e seconda generazione.

Radicarsi in Terre così diverse e lontane non è stato per nulla facile per questa povera Gente. Il miscuglio di “disperati” non ha mai amalgamato le diverse etnie che, per sopravvivere dapprima e per difendersi poi, si sono chiusi in Clan, in Gruppi e neppure per Nazione ma, addirittura, per Regione!

Dunque i Veneti con i Veneti, i Laziali con i Laziali, i Siciliani con i Siciliani e così via.

Circoli chiusi fondati all’incirca una sessantina di anni fa! Dunque, ancora oggi, usi costumi, dialetti, con le particolari inflessioni, sono quelli della fine degli anni quaranta e degli anni cinquanta.

Nelle riunioni conviviali, spesso settimanali, è un discorre del “Paese” per come si è vissuto, per come si è lasciato, per come è ricordato.

Troppo difficile e costoso il ritorno a Casa per le vacanze. La facile mobilità appartiene a quest’ultimo decennio o poco più. Poi, “lì” c’è il lavoro, “lì” si sono formate le nuove famiglie, lì ci sono i figli, la seconda generazione e “lì” ci sono i nipoti.

Quasi mai vengono assorbite “contaminazioni” da chi, corregionale, li incontra nella nuova Patria o, addirittura, nei loro rari rientri al Paese natio.

Per quanto incredibile possa sembrare, quasi sempre, è così. E, questo, sia per chi è oltre Oceano sia per chi ha avuto l’avventura d “osare” verso il Nord Europa.

E’ evidente, nei discorsi che si intessono con i “Vecchi”, che il dolore del distacco, la nostalgia hanno “accompagnato” tutta la loro vita dal giorno della partenza e, questo sentire, in qualche modo lo hanno trasferito ai figli, anche se meglio inseriti nel tessuto della nuova Patria.

Quasi un contagio.

Poi il racconto dell’accoglienza. Anzi, della non accoglienza. La diffidenza verso i nuovi, verso il nuovo arrivato. E la difficoltà di scuotersi da dosso i “luoghi comuni”, le dicerie, la mala fama: mafia, disonestà, scarsa voglia di lavorare, la scarsa pulizia personale. Mai, mai alcuno capace di guardare le mani di quella Gente, la pelle e le rughe del volto per cercare di “leggere” la verità e comprenderne la storia.

C’è chi ha fatto tanta fortuna, chi poca e chi niente.

Ma questo, alla fine è contato e conta poco. Restano le loro  malinconie profonde che ho letto nei loro occhi persi lontano ed appannati dalle lacrime.

Solo un solo flebile sospiro:

 ....... “U Paesuzzu miu” .......                                                                             

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